30º anniversario dell’attentato di via Palestro e delle Basiliche di San Giovanni in Laterano San Giorgio al Velabro
Il capo di Stato oggi ha ricordato i trent’anni della strage che Cosa Nostra mise a segno agli inizi degli anni ’90 tra Milano e Roma, e che costarono caro al Paese in termini di danni al patrimonio e perdite di vite umane.
«Oggi» dichiara Mattarella «è il trentesimo anniversario dell’attentato compiuto dalla mafia la notte tra il 27 e il 28 luglio a Milano in via Palestro e a Roma davanti le Basiliche di San Giovanni in Laterano e di San Giorgio al Velabro».
Nella strage di Milano persero la vita i vigili del fuoco Carlo La Catena, Sergio Pasotto e Stefano Picerno, l’agente di Polizia municipale Alessandro Ferrari, il cittadino del Marocco Moussafir Driss.
L’Italia in quel periodo, parliamo del ’92/’93, era presa da un processo storico che avrebbe smascherato di lì a poco un incredibile sistema di corruzione ad altissimo livello, che vedeva coinvolti imprenditori e politici: stiamo parlando di Tangentopoli e del processo denominato “Mani Pulite”.
Dal febbraio 1992 l’inchiesta dei magistrati della Procura milanese si era allargata a macchia d’olio e gli arresti eccellenti erano quotidiani. Pochi giorni prima, il 23, Raul Gardini, il “re” della chimica privata italiana, si era sparato nel suo palazzo in pieno centro poco prima di essere interrogato dal giudice Antonio Di Pietro. E il 20 luglio, un altro big manager, Gabriele Cagliari, ad di Eni, si suicidò infilando la testa in un sacchetto di plastica mentre era detenuto a San Vittore.
In questo contesto in cui ricorreva anche primo anniversario dell’attentato che uccise Paolo Borsellino e gli agenti di scorta, la mafia lanciò la sua offensiva, soprattutto dopo l’arresto del boss Salvatore Riina, per tentare di costringere lo Stato ad avviare delle trattative con la mafia mediante atti terroristici che non risparmiarono nemmeno le chiese e le bellezze artistiche del nostro Paese.
Ricordiamo ad esempio l’autobomba che danneggiò la Torre dei Georgofili a Firenze che costò la vita a cinque persone, e le autobombe esplose nella notte, nella Capitale in Piazza San Giovanni in Laterano nei pressi della Basilica e pochi minuti dopo, nei pressi della chiesa di San Giorgio al Velabro.
“Quelle bombe» ricorda Mattarella «erano parte di una strategia terroristica che ha avuto il culmine negli agguati a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e che è proseguita fino a colpire siti artistici prestigiosi, simboli della bellezza e della storia del Paese, luoghi di significativa identità religiosa. Si è trattato di una sfida alla nostra convivenza civile, di un tentativo di minacciare e piegare lo Stato democratico, costringerlo ad allentare l’azione di contrasto al crimine e il rigore delle sanzioni penali».
La scena che si presentò ai soccorritori giunti in via Palestro era surreale: il Padiglione d’arte contemporanea distrutto con le fiamme che ancora divampavano, automobili ridotte a macerie e lampioni piegati. E, in mezzo, i corpi dilaniati di un vigile urbano e tre vigili del fuoco; poco distante quello di un immigrato marocchino. Era andata così: qualcuno passando aveva notato del fumo bianco che usciva da una Fiat Uno e aveva fermato una pattuglia di passaggio.
I vigili avevano avvisato i pompieri che avevano mandato un’autopompa. Quando la squadra aveva aperto la vettura, aveva notato all’interno dell’auto un grosso involucro da cui usciva il fumo. Intuito che si trattava di un ordigno esplosivo, tutti cercarono di allontanarsi evitando che passanti ignari potessero essere coinvolti. Troppo tardi. La bomba deflagrò colpendo in pieno il vigile urbano Alessandro Ferrari e i pompieri Carlo La Catena, Stefano Picerno e Sergio Pasotto. Un pezzo di lamiera scagliato con violenza dall’onda d’urto, uccise Driss Moussafir che stava dormendo su una panchina poco lontano.
Di quanto accadde rimangono celebri le parole di condanna del cardinale Carlo Maria Martini che nel corso delle celebrazioni delle esequie delle vittime innocenti, parlò di “eterna infamia per i responsabili” che si erano macchiati di “follia omicida e gratuita crudeltà”. La pista mafiosa fu la prima ad essere perseguita dagli inquirenti.
Anni dopo, nel 2008 grazie ad alcuni pentiti come Gaspare Spatuzza, furono tantissimi i condananti all’ergastolo e si inziò a delineare l’intenzione della mafia di costringere lo Stato a trattare. Dalle indagini si scoprì che un pescatore, finito in manette anche lui, forniva l’esplosivo, recuperandolo dalle navi da guerra affondate e che la base operativa dove furono assemblate le autobombe si trovava in un pollaio.
In seguito Spatuzza scagionò anche Tommaso Formoso, dichiarando che all’attentato partecipò soltanto il fratello Giovanni, che da Tommaso si era fatto prestare con una scusa la villetta di Arluno dove venne scaricato l’esplosivo: tuttavia nell’aprile 2012 la Corte d’assise di Brescia rigettò la richiesta di revisione del processo a Tommaso Formoso, adducendo che le sole dichiarazioni di Spatuzza non bastavano. Sempre sulla base delle dichiarazioni di Spatuzza, la procura di Firenze dispose l’arresto del pescatore Cosimo D’Amato, cugino di Cosimo Lo Nigro, il quale era accusato di aver fornito l’esplosivo, estratto da residuati bellici recuperati in mare, che venne utilizzato in tutti gli attentati del 1992-1993, compresa la strage di via Palestro. Nel 2013 D’Amato venne condannato all’ergastolo con il rito abbreviato dal Giudice dell’udienza preliminare di Firenze ; la condanna venne confermata in appello nel 2014 e, due anni dopo, in Cassazione; nel 2015 lo stesso D’Amato iniziò a collaborare con la giustizia e confermò il suo coinvolgimento nella fornitura di esplosivi.
Nel 2014 la Direzione Distrettuale Antimafia di Milano emise un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Marcello Tutino per il reato di strage perché accusato da Spatuzza di essere stato il “basista” dell’attentato di via Palestro. L’anno successivo, la Corte d’assise di Milano assolse Tutino perché le sole dichiarazioni di Spatuzza furono considerate insufficienti per una condanna; l’assoluzione venne confermata in appello e in Cassazione.
«Fu un piano eversivo che è stato sconfitto. Parlamento, Governo, Magistratura e Forze dell’ordine fecero sì che i capi mafiosi fossero assicurati alla giustizia e gli autori degli attentati in via Palestro, in San Giovanni in Laterano, in San Giorgio al Velabro, condannati. La logica criminale è stata respinta anzitutto dalla civiltà e dalla dignità di un popolo che non ha rinunciato alla propria libertà, che ha saputo esprimere una cultura e una coscienza collettive inconciliabili con la pretesa di sopraffazione e con la disumana violenza insita nelle organizzazioni mafiose. Milano, come Roma, come Palermo, sono state alla testa della reazione sociale e civile» afferma Sergio Mattarella concludendo che questo «conferma come libertà e democrazia vadano continuamente difese, giorno dopo giorno, dalle varie forme di illegalità, dalle incursioni criminali che toccano anche campi inediti, dai tentativi di sconvolgere la libertà della vita della società e dell’economia. L’esperienza ha dimostrato che sconfiggere le mafie è possibile».
ALESSANDRO PUBLIO BENINI