Solgenitsin e l’ostracismo di cui fu vittima
In giorni come questi, la parola guerra risuona, soprattutto nei campi di battaglia, in quella che fu un tempo la culla della grande madre Russia: l’Ucraina.
Una guerra che ha fatto scoprire, purtroppo, la fragilità delle nostre certezze, delle nostre conquiste economiche e democratiche, rimettendo tutto in discussione con un agitarsi, tanti politici, tante parole, da un campo all’altro della tifoseria mondiale, ma poche le idee che possono dare una vera speranza all’umanità.
Con l’invasione dell’Ucraina da parte di Putin, il Mondo, almeno quello che consideriamo occidentale, è diventato russo–fobico entrando in una spirale che a volte diventa anche ridicola. Ricordiamo la messa al bando di una autore fondamentale, non solo per la letteratura russa, ma mondiale, come Fëdor Dostoevskij con il rischio di entrare in un tunnel di grande confusione dove non si sapranno più distinguere i veri valori da seguire.
Ad aiutarci a capire dove siamo e dove stiamo andando in questo momento storico, ci manca proprio un grande intellettuale russo, purtroppo ormai ricordato da pochi. Aleksandr Solgenitsin uno dei più famosi dissidenti della dittatura nella allora Unione sovietica nel secolo scorso e anche grande scrittore, tanto da venirgli assegnato, nel 1970, il Nobel per la letteratura.
Simbolo della vera libertà soprattutto interiore, ha saputo criticare sia l’oscurantismo sovietico come la dissolutezza del mondo capitalista. Idee che, per la sua sete di libertà, pagò duramente.
Odiato prima dai partiti comunisti di ogni latitudine per aver osato denunciare l’Unione sovietica e la sua “gloriosa” Rivoluzione, in seguito, venne criticato ed emarginato anche dall’Occidente che lo aveva accolto, del quale denunciava, senza mezzi termini, la mancanza di una visione spirituale che, a suo dire, apriva alla dittatura del vuoto morale e civile nelle società democratiche.
L’ostracismo di cui fu vittima, non lo toccò mai. Era, come abbiamo detto, un uomo libero, senza alcun tornaconto per se stesso se non per la verità. Cosa assai difficile da comprendere in un Occidente sempre più massificato e commercializzato.
Era nato nel 1918, alla vigilia della rivoluzione di Ottobre in una piccola cittadina, Kislovodsk, ai confini con l’odierna Georgia a pochi chilometri da Gori, dove era nato Joseph Stalin, in seguito il suo peggior nemico.
Si infiammò, ancora giovanissimo, per la Rivoluzione di Lenin e allo scoppio della Seconda Guerra mondiale, non esitò ad arruolarsi e compiere gesti di grande coraggio, ottenendo molti riconoscimenti militari che purtroppo non lo salvarono da una condanna a otto anni da scontare in un gulag in Siberia e con altrettanti anni di esilio. La sua colpa fu quella di aver scritto una lettera a un amico alla fine della guerra, criticando la figura sempre più invadente e ossessiva di Stalin nella società russa.
Gli anni siberiani gli fecero aprire gli occhi sulla realtà del suo Paese e sulle falsità della propaganda sovietica con le atrocità in cui fu costretto a vivere quotidianamente ai lavori forzati insieme ad altri disgraziati come lui. Si accorse ben presto come il comunismo aveva trasformato in un vero incubo la vita di milioni di persone, realizzandolo concretamente, come ricordò in più occasioni, nel famoso libro “1984”, scritto da un altro disilluso dal comunismo: George Orwell.
Riuscì a scrivere, nonostante le grande difficoltà vissute nel campo di concentramento, capolavori come: “Una giornata di Ivan Denisovič”, “Arcipelago Gulag”, “Divisione cancro”, “Il cerchio”, solo per nominare quelli più noti. Ma la sua produzione letteraria annoveraalmeno altri 40 titoli. Per non citare conferenze, articoli, interviste e quant’altro che l’hanno reso famoso nel Mondo.
Come abbiamo già sottolineato, era anche un uomo controcorrente che non amava i compromessi con la propria coscienza, a costo di andare contro tutto e tutti, fossero anche i suoi migliori amici e ammiratori, insomma un uomo di raro spessore morale.
In una conferenza presso l’università di Harvard in occasione di un prestigioso riconoscimento nel 1971, affermò: «Finché non sono venuto io stesso qui ho passato due anni guardandomi intorno. Non avevo mai immaginato come un estremo degrado in Occidente ne abbia fatto un Mondo senza volontà, un Mondo gradualmente pietrificato di fronte al pericolo che deve affrontare. Tutti noi stiamo sull’orlo di un grande cataclisma storico, un’inondazione che ingoierà le civiltà e cambierà le epoche».
Parole dure che lo fecero passare per un profeta di sventure, anzi, di ingratitudine per chi lo aveva accolto con tutti gli onori da dissidente. In realtà egli amava l’Occidente, come troviamo in molti scritti, ed era riconoscente di tutto ciò che aveva fatto per lui. Ma proprio per questo, come un atto d’amore, ne denunciava le contraddizioni che lo avrebbero distrutto, a suo dire, di lì a poche generazioni.
Non esitò a difendere la guerra del Vietnam, in opposizione ai pacifisti americani degli anni ’60 che contestavano duramente. Non esitò a scagliarsi con chi boicottava l’intervento americano, accusando di non comprendere che quella era una guerra contro la “barbarie rossa” che se avesse vinto avrebbero finito per soggiogare il Mondo ancora libero.
Molti anni dopo, negli anni ’90, condannò, con la stessa durezza, il bombardamento della Nato sulla Jugoslavia. Dure furono le affermazioni: “Non ci sono differenze tra la Nato e Hitler”. Nei suoi ultimi anni di vita fu favorevole anche alla reintroduzione in Russia della pena di morte. Il dilagare della delinquenza di bande che stavano distruggendo il tessuto sociale del Paese dopo la caduta del regime sovietico era incontrollabile.
Una proposta, per fortuna, mai approvata dall’allora giovane presidente Vladimir Putin.
Posizioni morali che pian piano lo resero inviso anche in chi lo aveva difeso durante le sue battaglia contro la dittatura. Tacciato di essere reazionario solo perché sosteneva il mondo della tradizione religiosa e morale che avrebbe dovuto avere ogni Nazione invece che lasciarsi irretire da un sempre più evidente radicato agnosticismo riferendosi alla “calamità di un’autonoma irreligiosa coscienza umanistica”.
Insomma, Alexandre Solgenitsin era divenuto un vero rompiscatole che metteva sullo stesso piano il percorso fallimentare di un materialismo all’altro. Uno repressivo, affamatore e messianico, quello comunista. L’altro ricco, tollerante e nichilista, ma non meno pericoloso per la libertà come quello Occidentale.
Rischiò anche di passare per un cattivo maestro per il suo spirito patriottico. Che, a dire di molti, aveva alimentato i nuovi movimenti nazional-religiosi della Russia e dei Paesi dell’Est ex-sovietico. Una accusa che non gli apparteneva. Infatti, in più occasioni, non mancò di criticare la deriva delirante del nazional-imperialismo panrusso.
Solgenitsin visse gli ultimi anni della sua vita, come ricordarono i suoi più stretti amici, in una prigione dorata, in un gulag ovattato, certamente riverito, ma dimenticato dal Mondo. Ne fecero insomma un sepolcro vivente, per mummificarlo da vivo e non sentire più la sua voce. Continuava a ripetere: «Si può perdere la propria sovranità preservando la propria identità. Ma se perdi entrambi, sei morto».
Insegnò a vedere i gulag del nostro tempo, il nuovo “angelo sterminatore”, a opporsi alla temporalità chiusa delle dottrine politico-filosofico. A prevedere come il crimine potesse nascondersi dietro l’utopia.
Aveva capito che la “religione dei diritti umani“ sarebbe arrivata a sciogliere le società, le Nazioni, le civiltà. A causa dell’effetto deleterio del principio di non discriminazione. «Nel nome dei diritti umani, le minoranze hanno diritti garantiti e installano una contro-società». Inoltre affermava che «In Europa, l’abisso è profondo. Ha la malattia del vuoto. Tutte le sue élite hanno perso il senso di valori più alti. Il sistema occidentale passa al suo stato finale di spossatezza spirituale: legalismo senz’anima e abolizione della vita interiore. Ciò che l’occidente sta vivendo oggi è peggio della decadenza. Questo è sia un implosione e un’invasione, con la doppia sostituzione graduale e indolore di una popolazione e di un civiltà».
Mori nel 2008, dimenticato dai più. Eppure ciò nonostante rimane uno di quei grandi che hanno avuto il coraggio di combattere in prima persona un potere granitico come quello sovietico e senza infingimenti quello Occidentale. Tuttavia non fu compreso dai suoi contemporanei. Ma non dalla sua patria: «Siamo fieri» – affermerà Putin il giorno dei suoi funerali – «che Aleksandr Isaevic Solgenitsin sia stato un nostro concittadino. Un nostro contemporaneo. Lo ricorderemo come una persona forte, coraggiosa e con un’enorme dignità». Definendolo, infine, «un grande del XX secolo» e la Chiesa ortodossa addirittura “un profeta”, ma per l’Occidente solo silenzio.
Gianfranco Cananrozzo