Mussolini e la “guerra parallela” dal ’40 al ’43,
nel quadro del 2° Conflitto Mondiale
Alcuni perché di una “Sconfitta” (*1)
considerazioni ed ipotesi di ERNESTO SIMINI *
A ottant’anni di distanza dalla fine del fascismo, avvenuta il 25 luglio 1943 dopo la riunione del Gran Consiglio in cui fu approvato l’ordine del giorno Grandi, che mise in minoranza un Mussolini ormai sul viale del tramonto, non sono pochi a domandarsi come sia stato possibile che una guerra cominciata con le più rosee prospettive di vittoria, sia poi terminata con una disastrosa sconfitta , resa ancor più dura dalla sanguinosa guerra civile che ne seguì.
Per entrare “in medias res”, è inevitabile prendere in esame alcuni eventi centrali degli anni precedenti; e per fare ciò, è opportuno superare la logica di un antifascismo becero, secondo cui il fascismo sarebbe stato parte del male assoluto e Mussolini avrebbe trascinato il popolo italiano in una guerra sanguinosa senza che vi fosse una sicura speranza di vittoria. Ora, a sostegno di questa tesi piuttosto peregrina non si può non citare quella celebre frase del Duce “La guerra sta all’uomo come la maternità sta alla donna”; così come, anche quando, dinanzi al disastro della guerra alla Grecia, con gli alpini che si congelavano sotto una tormenta di neve sui monti dell’Epiro, ebbe a adire che il freddo avrebbe temprato il carattere degli italiani, rendendoli più forti.
Stando così le cose, preme però sottolineare che ad ottobre del ’40, l’attacco alla Grecia, dove erano presenti forti interessi britannici, non fu deciso per arrivare a uno scontro frontale con la “perfida Albione”, ma in funzione antitedesca. Avendo, il nostro alleato, inviato, poco tempo prima, reparti scelti in Romania per impadronirsi dei pozzi petroliferi di Ploiesti, in quella Romania che il Duce riteneva ancora appartenere alla nostra sfera dì influenza; proprio come quando, circa 1500 anni prima, l’imperatore Traiano aveva sottomesso la Dacia, sbaragliando le forze del re locale, Decebalo.
In questo quadro strategico, quindi, Mussolini decise l’attacco alla Grecia: per ripagare Hitler con la stessa sua moneta. Nella convinzione, inoltre, che la guerra in Grecia sarebbe stata breve: in quanto Galeazzo Ciano, suo genero, gli aveva garantito che, da parte dei greci, non vi sarebbe stata alcuna vera resistenza, perché alcuni notabili ellenici erano stati corrotti dagli italiani. Tra costoro c’era anche un grosso generale, pagato dai nostri servizi segreti perché tradisse: costui, non solo si prese i soldi e non tradì, ma iniziatosi il nostro attacco, dette ordine di resistere ad oltranza, riuscendo addirittura a ricacciare le nostre forze, a novembre 1940, oltre il confine albanese.
Questo produsse una crisi paurosa nel nostro Stato Maggiore, che portò alle dimissioni dello stesso Capo di Stato Maggiore generale, Maresciallo Pietro Badoglio, accusato di essere il responsabile del disastro e prontamente sostituito da Mussolini con il Maresciallo Ugo Cavallero.
Non volendo il governo colpire il vero responsabile, cioè il conte Ciano, che aveva pianificato la sciagurata operazione nella sicurezza di ripetere quanto accaduto in Albania poco più d’un anno prima, quando la guerra non era ancora scoppiata.
In tale circostanza, infatti, erano stati corrotti con successo alcuni notabili albanesi, e conseguentemente la nostra conquista era avvenuta senza colpo ferire (con lo stesso Re Zog costretto alla fuga, per evitare di essere catturato dai nostri reparti scelti, pronti a entrare in azione a un ordine del Duce).
Nella mente di Ciano, quindi, la decisione di attaccare la Grecia si poneva in logica continuità con l’intervento in guerra nel giugno del ‘40, come da Mussolini deciso nell’assoluta convinzione che la Germania, specie dopo aver sconfitto la Francia e dopo la visita di Hitler a Parigi occupata, avesse ormai vinto la guerra.
Questo, pur essendo Mussolini ben consapevole che non eravamo assolutamente preparati per un conflitto di medio-lungo periodo, come maggiormente sostenuto proprio da Badoglio, che pure divenne il capro espiatorio del disastro in Grecia.
Ora, prendendo in esame gli ultimi mesi della nostra non belligeranza, riteniamo poi altamente probabile che la decisione di entrare in guerra sia stata incoraggiata proprio dagli inglesi, poiché Churchill, divenuto premier nel maggio dello stesso anno 1940 succedendo a Chamberlain, era convinto che solo entrando in guerra, l’Italia avrebbe potuto, sedendosi al tavolo della pace, mitigare le pretese egemoniche della Germania nazista. Sembra, infatti, molto probabile che nelle lettere tra Mussolini e Churchill scambiatesi nel maggio del ’40 – e lo stesso De Felice è incline a crederlo – lo statista britannico avesse sollecitato un nostro intervento in guerra: “anche contro di noi”, pur di tenere a bada Hitler. E sino a quel momento, in via ufficiale Gran Bretagna e Francia si erano dette disposte ad ampie concessioni all’Italia, pur di tenerla fuori dal conflitto (come non pensare, qui, all’analogia col “parecchio di Giolitti”, alle vaste cessioni territoriali promesse all’Italia nel 1915, per il tramite dell’influente politico liberale, dall’Austria, purché non intervenissimo nella “Grande guerra”?).
Tali proposte comprendevano la cessione di Malta, della Somalia britannica con Berbera, rettifiche a nostro vantaggio al confine libico-tunisino e un seggio nel Consiglio d’Amministrazione del Canale di Suez (che avrebbe messo l’Italia in una posizione di preminenza anche nel Mediterraneo orientale).
Queste proposte erano in sintonia con gli accordi di Pasqua del 1938, fra Italia e Gran Bretagna, che avevan gettato le basi d’un’intesa che rispettasse i reciproci interessi mediterranei. Ma sempre a maggio del ’40, sembrava delinearsi una fulminea vittoria tedesca; quindi Mussolini si decise a intervenire anche nel timore di una ritorsione, in caso d’un nostro non intervento, da parte della Germania, che magari non avrebbe esitato a impadronirsi del Nord-Italia, e quindi di buona parte del nostro apparato industriale.
In segreto accordo con Churchill, in sostanza, fu deciso il nostro intervento in guerra, che, però, doveva essere solo una “fiction”; nella fase iniziale del conflitto, infatti, non ci furono significativi scontri nel Mediterraneo, e gli inglesi abbandonarono la Somalia britannica senza colpo ferire, tanto che il nostro tricolore sventolò a Berbera, e in Africa settentrionale il Generale Rodolfo Graziani oltrepassò il confine egiziano occupando Sidi el Barrani e Sollum senza che gli inglesi, benché meglio armati e equipaggiati, opponessero una significativa resistenza. Fu solo per la mancanza di autocarri e carri armati efficaci che Graziani, a settembre del ’40, non si spinse sino a Marsa Matruh (l’importante porto marittimo egiziano a circa 240 km a ovest di Alessandria), in direzione di Suez. Stando così le cose, appare più che evidente che il nostro intervento in guerra fu una commedia, ben recitata, e i due attori erano Mussolini e Churchill.
Più tardi, però, nell’autunno del ’40, benché il nostro attacco alla Grecia, come abbiamo detto, fosse stato posto in essere in funzione antitedesca, gli inglesi non lo compresero, e ritennero che, con tale mossa, Mussolini volesse soprattutto assestare un colpo ai loro interessi nel Mediterraneo orientale, imperniati su Cipro e su Creta; e che, quindi, bisognasse fare la guerra sul serio, ponendo fine a quella commedia che andava avanti dal 10 di giugno. Fu così che aerosiluranti britannici, la notte tra l’11 e il 12 novembre del ’40, attaccarono il porto di Taranto, dov’era ancorata buona parte della nostra flotta: mettendo fuori uso due nostre corazzate, la “Cavour” e la “Littorio”, e altre navi minori. E in Africa settentrionale, con un poderoso contrattacco, gli inglesi sbaragliarono le nostre forze, male armate, occupando la Cirenaica, compresa Bengasi, e conquistando il porto di Tobruk. Senza che da parte nostra ci fosse un’efficace resistenza, eccezion fatta per la divisione “Sirte”, che si batté con indomito coraggio, con molti soldati che preferirono morire piuttosto che arrendersi al nemico.
Era quindi iniziata la vera guerra, proprio quello che Mussolini aveva cercato di evitare. Chi scrive può portare un’ulteriore testimonianza su questa tesi, in quanto suo padre e suo zio materno, aderiti poi alla R.S.I., ebbero modo di avvicinare Mussolini, il quale più volte affermò che lo stesso Churchill l’aveva spinto ad entrare in guerra, onde far da freno alla potenza tedesca,
Ed è altamente probabile che, nella borsa che il Duce teneva sempre gelosamente con sé, anche pochi istanti prima della sua fine, ci fossero proprio le lettere scambiate tra lui e il premier britannico. Ma, come sappiamo, tale borsa sparì, ed è probabile che sia finita a Mosca, dato che Mussolini, a fine aprile del ’45, fu catturato e ucciso da partigiani comunisti; sappiamo anche che Churchill, dopo la guerra, si recò nei luoghi dove aveva soggiornato il Duce nella fase di Salò, tentando invano di ritrovare proprio quella borsa.
Giunti alla fine di queste nostre riflessioni, si può affermare con una buona dose di certezza che Mussolini non voleva la guerra; ma per giungere a questa conclusione, come già dicevo prima, occorre superare la logica di un certo antifascismo che ha visto nel fascismo il male assoluto, e in Mussolini solo uno spietato guerrafondaio che trascinò gli italiani in una guerra che si prevedeva già rovinosa, senza alcuna speranza di vittoria. Il discorso, come abbiamo visto, è assai più complesso, mentre coloro che portavano avanti quelle tesi si basavano molto su un’altra celebre frase di Mussolini, “l’importante non è vincere o perdere una guerra, ma il combattimento”.
Oltre a tutto ciò, c’era senz’altro qualcosa di più profondo nell’animo del Duce, che oggi è possibile penetrare alla luce di una critica storica più positiva e illuminata che in passato.
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*Ernesto Simini – classe 1949, nato a Roma – è uno scrittore e saggista, nonché un appassionato studioso di storia contemporanea in particolare sulle tematiche riguardanti la I^ e la II^ Guerra mondiale con le relative conseguenze nei decenni successivi. Ha lavorato per ben trent’anni alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, ricoprendo anche il ruolo di Vice Direttore. Dopo il pensionamento, ha approfondito i suoi studi storico/contemporanei esaminando altresì i tormentati “Anni di Piombo”, anche nel complessivo contesto dei rapporti internazionali
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(*1 – NdR) Questo intervento di Ernesto Simini è da collegarsi ad un altro articolo intitolato “I Responsabili della Sconfitta” pubblicato il 30 novembre sempre sulla Consul Press a firma di Fabrizio Federici.