Nota sull’ultimo Pasolini
RADIOGRAFIA SU UNA FOTO
DI PIER PAOLO PASOLINI
a cura di FRANCESCO RICCI
Premessa
A definire l’esistenza dell’uomo del terzo millennio le cose non servono o servono pochissimo. La nostra, infatti, è piuttosto l’epoca delle non cose, vale a dire delle informazioni che noi produciamo e consumiamo. Anche la fotografia digitale, e in particolare il selfie, condivide lo status ontologico di quest’ultime. Informa, non narra. Non oppone resistenza, non costituisce un punto fermo, non stabilizza la vita umana. In quanto non cosa, è sempre disponibile e a portata di mano. Possiede il respiro dell’attimo, non è fatta per venire conservata: il suo destino, al pari di qualunque altra informazione del nostro smartphone, è quello di essere scacciata e rimpiazzata dal contenuto successivo.
Un anacronismo emergenziale
Stando così le cose, può apparire curioso tornare a parlare di realtà oggettuali, di manufatti, di cose capaci, secondo l’immagine impiegata da Rainer Maria Rilke in Diari (1898-1900), di sprigionare calore e possedere un respiro. Si pensi a un libro, alla testiera in legno di un letto, a un comodino, a un centrino da tavolo, a una coperta fatta a mano, a una sedia, agli infissi di una finestra, a una brocca in ceramica. Il semplice elenco già rende simile chi lo stende a un collezionista o a un antiquario.
E la curiosità relativa a tale discorso è destinata ad accrescersi, nel lettore, se la riflessione sulle cose è condotta a partire da una fotografia analogica, scattata sullo scorcio del 1975 in un interno d’abitazione. Anche la fotografia analogica, infatti, rimanda, al pari delle cose, a un’epoca che ci siamo lasciati alle spalle. Oggigiorno, a dominare sono le fotografie digitali, scattate con lo smartphone, le quali non possiedono aura, non sono fatte per essere conservate in un album o dentro una scatola, non sono romanzesche, sono episodiche. Sotto questo aspetto, la fotografia digitale esprime alla perfezione la derealizzazione del mondo operata in epoca tardo-moderna.
Perché, allora, seguendo il sentiero splendidamente tracciato da Roland Barthes con La camera chiara, scrivere intorno e a partire da una fotografia in bianco e nero del 1975? Perché essa è in grado di suscitare un acuto senso di emergenza in chi la guarda, di scuotere dal torpore liscio e drogato del regime neoliberista.
Chia, ottobre 1975
Nella fotografia che ho in mente – ma dovrei dire che ho davanti agli occhi, essendo io lo Spectator (sempre Barthes) – Pier Paolo Pasolini appare seduto, la schiena contro la spesso muro di pietra, il corpo completamente nudo, le gambe divaricate. In mano tiene un libro voluminoso, lo tiene con forza, lo stringe, gli offre salda accoglienza. Deve avere cominciato a leggerlo da pochi giorni, forse da poche ore, perché sono ancora molte le pagine da sfogliare, da scorrere.
Lo sguardo è attento, fisso, concentratissimo. L’arredo della camera è spoglio. Il letto ha una testiera in legno rettangolare e una coperta chiara lavorata a mano. Su una delle pareti laterali è attaccata una specchiera con una cornice essenziale e, appoggiato alla stessa parete, c’è un comò con quattro cassetti. La luce è bassa, è una luce che rischiara senza offendere gli occhi.
È una delle tante fotografie che Pasolini si fece fare nell’autunno del 1975 da Dino Pedriali, allora venticinquenne, nella casa di Chia (altre vennero scattate a Sabaudia). L’artista bolognese aveva acquistato la torre di Chia, risalente al XIII secolo, nel 1970. Se ne era innamorato qualche anno prima, nel 1964, durante i sopralluoghi per le riprese del Vangelo secondo Matteo. Dopo l’acquisto aveva fatto costruire ai piedi della torre – a progettarla erano stati gli architetti Ninfo Burruano e Dante Ferretti – un’abitazione di pietra e vetro, coi pavimenti in cotto, gli infissi in legno di castagno, le lampade in ferro. In quelle stanze videro la luce molte delle pagine delle Lettere luterane e del romanzo Petrolio.
Un testamento in forma di fotografia
Il valore della fotografia che ho descritto è, in primo luogo, un valore attestativo. Ogni fotografia lo possiede. Ogni fotografia, infatti, attesta che ciò che io vedo è effettivamente stato. Non a caso, per Ronald Barthes essa è “un certificato di presenza”, mentre Giorgio Agamben in Profanazioni l’associa all’idea di resurrezione. C’è stato veramente un uomo di nome Pasolini, nato a Bologna il 5 marzo 1922, che in un giorno di ottobre del 1975 si è fatto ritrarre nudo nella sua camera, in atto di leggere, dal fotografo Dino Pedriali. Questo “c’è stato” è richiamato in vita – è fatto risorgere – dalla forza documentativa della fotografia.
Questa, però, possiede anche un altro valore al di là di quello attestativo. Non tutte le fotografie lo hanno. La fotografia di cui stiamo parlando ce l’ha.
Chiamerei questo secondo valore critico. Impiego l’aggettivo critico assumendo il sostantivo “crisi”, dal quale deriva, non nel significato di “decido”, ma in quello, altrettanto rilevante, di “separo”. Di conseguenza, dire che la nostra fotografia di Pasolini ha un valore critico equivale ad affermare che essa dà conto di una separazione che si è prodotto tra la modernità e l’epoca (digitale) tardo-moderna, separazione che l’intellettuale italiano coglie in tempo reale.
Nella fotografia in questione il mondo che io vedo è ancora un mondo di cose, un mondo appartenente all’ordine terreno. I muri fatti di spessi blocchi di pietra, la sedia, la testiera lignea del letto, la coperta lavorata a mano, la specchiera, il comò, il libro, la fonte di luce nascosta. Materiali naturali, opere che tradiscono la pazienza, la cura, la fatica, l’amore per la tradizione di chi le ha realizzate. Pare di vedere il falegname piegato sul legno per rendere liscia la testiera del letto o la donna che realizza la coperta lavorando ai ferri o all’uncinetto e cucendo insieme, con amore e attenzione, le diverse parti. Sono tutte opere della mano – l’organo del lavoro nell’analisi heideggeriana del Dasein – e sono tutte opere che presuppongono per la loro realizzazione, evocandolo, un tempo lungo, un tempo lento, un tempo continuo.
Inoltre, le cose presenti nella fotografia sono interamente ascrivibili alla categoria dei beni necessari, non a quella dei beni superflui. Riposare quando si è stanchi, coprirsi dal freddo, illuminare il buio – ma senza cancellare o distruggere ogni residuo d’ombra –, riporre in un cassetto ciò che è importante o indispensabile o prezioso, leggere e, dunque, riflettere, informarsi, immaginare, apprendere. Sono poche le cose veramente necessarie all’uomo, la maggior parte sono superflue e, in quanto tali, ci ricorda Pasolini, finiscono col rendere superflua anche la nostra vita.
Emblematica, sotto questo aspetto, è anche l’immagine del corpo nudo dell’artista, al centro della fotografia. Non è oscena, non è spudorata. In atto non c’è nessuna pubblicizzazione dell’intimo, nessuna esibizione del privato, che della società tardo-moderna costituiscono elementi costitutivi e che inducono Byung-Chul Han, in La crisi della narrazione, a parlare di “fredda oscenità della trasparenza”, di oscenità “di ciò che è interamente solubile nell’informazione e nella comunicazione”. La nudità del corpo, piuttosto, riafferma la necessità di un’esistenza spoglia da tutto ciò che il consumismo fa credere necessario, irrinunciabile, latore di felicità. Al tempo stesso, suggerisce obliquamente un’altra nudità, quella dell’anima, interpretabile, alla maniera di Elias Canetti, come la capacità di riuscire ancora a sentire il dolore e l’angoscia degli altri. Infine, il corpo, quel corpo di Pasolini, recante su di sé le tracce del trascorrere del tempo, si offre al mio sguardo come un ultimo corpo. Come l’ultimo corpo.
Da qui in avanti, infatti, pare dirmi, e la stessa cosa potrebbe dirmi Michel Foucault, ci sarà posto solamente per un altro tipo di corpo, quello gestito sempre più in profondità dal potere: lo sconfinamento della politica nella dimensione biologica dell’esistenza è inarrestabile.
Conclusione
Un uomo che custodisce le cose e che da esse è custodito. Non un uomo che le possiede e che da esse è posseduto. Potrei sintetizzare così la fotografia che ritrae nudo Pasolini all’interno della sua casa, a Chia. E il mio primo pensiero, nell’osservarla, è che quell’uomo non c’è più, perché è morto. Mi succede lo stesso quando guardo alla luce della lampada le fotografie dei miei morti. E in un caso come nell’altro il pensiero del singolo si allarga ad abbracciare il pensiero del mondo che è sparito insieme col defunto. Solo che osservando la fotografia di Pasolini non mi viene da pensare alla rete di relazioni significative al cui interno la sua esistenza era iscritta, formando una comunità di destino.
Piuttosto, a imporsi è l’dea che la morte di Pier Paolo Pasolini, che la fotografia mi pone dinanzi agli occhi, mi parla della morte di un’intera epoca che informava di sé ogni oggetto, manufatto, cosa presenti dentro la camera da letto di Chia. La forza suscitatrice della fotografia in questione consiste esattamente in questo. Nel rendere manifesti l’avvenuto passaggio dal mondo delle cose al mondo delle non cose, la sostituzione dell’ordine terreno con l’ordine digitale, la sottomissione della natura all’agire umano. Tutti eventi che non sono né innocenti né senza costo. Da qui sorge l’emergenza, da qui sorge l’attuale stato di emergenza, dal quale non è possibile neppure provare a uscire finché lo si continua a disconoscere o negare – come vuole e impone l’ideologia del benessere permanente –, finendo, in tal modo, con l’essere perfettamente organici all’età in cui viviamo, che è del tutto aliena, come scrive Byung-Chul Han, da ogni idea di ricominciamento, trasformazione, alternativa: “La ‘sensazione di essere degli iniziatori’, l’enfasi del ‘cominciare da capo’ sono estranei all’epoca tardo moderna”.
Noi uomini del terzo millennio – noi che veniamo dopo lo smartphone – siamo ebbri di comunicazione, non di vita. Siamo orfani di stupore dinanzi all’essere e privi della dimensione contemplativa, poveri di mondo e di contatti, impazienti, annoiati, senza trascendenza, senza empatia, incapaci di indugiare e di prestare attenzione, di fare silenzio e di tendere l’orecchio. E dove l’inazione, l’inutile, il disinteressato, il gratuito sono banditi, il buon funzionamento diviene l’unico metro di giudizio – l’efficienza per l’efficienza – e la parola uomo scade a parola che ha il sapore amaro del passato, al pari di un comò, della testiera di un letto, di una coperta fatta a mano, riprodotti in una fotografia in bianco e nero del 1975.
FRANCESCO RICCI