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“Sicurezza e Libertà”: rappresentano essenzialmente
due grandi valori indispensabili per la Vita dell’Uomo

Sicurezza e Libertà 

di Francesco Ricci

Zygmunt Bauman, nel corso di un’intervista rilasciata poco prima di morire, ha voluto ricordare che la relazione tra il valore della sicurezza e il valore della libertà – entrambi indispensabili alla vita dell’uomo – è sempre una relazione dialettica, ambivalente.
Non è possibile, infatti, non lo è mai stato, estendere la libertà senza cedere una parte della sicurezza, così come non è possibile guadagnare sicurezza senza cedere una parte della libertà. Si tratta, dunque, di operare una scelta, scelta che deve essere fatta esclusivamente sulla base della conformazione storica e concreta che una società è venuta assumendo. In caso contrario, l’effetto che ne consegue è inefficace o, peggio, dannoso.
Detto con le parole di Machiavelli, occorre guardare “alla verità effettuale della cosa”, non “alla immaginazione di essa”.

Ed è proprio la considerazione di ciò che è, e non di ciò che sarebbe bello o auspicabile che fosse, a convincermi che il tempo in cui viviamo è un tempo nel quale occorre essere disposti anche a cedere quote di libertà.  Ora, è un dato di fatto inoppugnabile che la condizione di povertà nella quale non pochi italiani versano determina una diminuzione di libertà.
Non disporre di denaro sufficiente per arrivare a fine mese, infatti, impedisce di acquistare beni di prima necessità, di pagare un affitto, di garantirsi certe prestazioni mediche di cui pure si avrebbe bisogno, di essere in grado di sostenere il costo delle tasse universitarie di uno o più figli, di potersi permettere qualche giorno di vacanza.

Non essere libero da (dalla povertà), dunque, comporta di non essere libero di (di fare determinate cose).
Ma è un dato di fatto altrettanto inoppugnabile che quest’ultima libertà – la libertà di – rinviene oggi un impedimento di non minor rilievo – al di là della povertà – nella mancanza di sicurezza che caratterizza le nostre città le quali, riprendendo e sottilmente variando il titolo di un breve saggio di Zygmunt Bauman, uscito in Inghilterra nel 2003, City of Fears, City of Hopes, più che a “città di speranze” somigliano oramai a “città di paure”.
E a risentirne, ancora una volta, è la fascia più debole della popolazione (anziani, donne, senzatetto, diversi, impiegando quest’ultima parola nella sua accezione di significato più ampia possibile).

Non mi sfugge affatto che “le città”, come scrive il sociologo di origine polacca nel libro appena citato, “sono diventate discariche di problemi generati a livello globale” (dall’inquinamento dell’aria e delle riserve d’acqua alla devastazione di mezzi di sussistenza che sradicano da luoghi abitati da millenni intere popolazioni, facendo di loro dei “migranti economici”).
Ma ciò non deve assolutamente indurre né il nostro Parlamento né l’Esecutivo né la cittadinanza tutta ad accettare come destinale e immodificabile una situazione che, invece, è suscettibile di una qualche trasformazione e di una parziale inversione di rotta. A volte, anche il contenimento dei danni può equivalere a una vittoria.

All’interno di questo quadro, anche la Legge Cartabia (D/Lgs. 10 ottobre 2022), che prosegue nella direzione di politica del diritto imboccata molti decenni fa, con la legge 3 maggio 1967, n. 317, direzione confermata e rafforzata con la legge n. 689 / 1981, mi pare meritevole di critica (*1), poiché rivela di non tenere conto della “conformazione storica e concreta” che la società italiana attualmente possiede. Essa, infatti, estendendo il regime di procedibilità a querela per reati contro la persona per i quali in precedenza era prevista la procedibilità d’ufficio, determina nella cittadinanza l’attenuarsi della convinzione che sia lo Stato a tutelare la vittima di reato.
E se ciò può anche non comportare conseguenze in presenza di uno Stato-Nazione forte, sicuro delle proprie radici e dotato di lealismo e solidarismo civico, è invece deleterio in un Paese, come l’Italia, nel quale neppure la memoria è condivisa, e in un momento storico, come è quello che stiamo vivendo, nel quale la forma dello Stato-Nazione è resa sempre più debole dal processo di globalizzazione.

Pier Paolo Pasolini, poche ore prima di venire massacrato presso l’Idroscalo di Ostia, parlando con Furio Colombo, osservava con grande amarezza: Questo (la società italiana) è un paesaggio diverso. Qui c’è la voglia di uccidere. E questa voglia ci lega come fratelli sinistri di un fallimento sinistro di un intero sistema sociale”.
Nei quasi cinquant’anni trascorsi da quella intervista, la voglia di uccidere è cresciuta. Ci sentiamo inermi, vulnerabili, non protetti, ovunque ci troviamo, qualunque cosa facciamo. Il pericolo pare annidarsi in ogni parte, il rischio è molto più di una possibilità tra le tante. In fila alle Poste, a fare la spesa, mentre parcheggiamo, a una festa, seduti a sorseggiare una bibita, all’interno di un mezzo pubblico che percorre le strade urbane o dentro la nostra automobile, a un capolinea, nel bagno di una discoteca. E insieme alla percezione di un’accresciuta voglia di uccidere si è rafforzata la sensazione, che non è mai stata così forte, che esista una diffusa impunità per chi delinque.
L’eventum (la violenza) è traumatico, il post-eventum (la giustizia) rischia di esserlo di più. E a farne le spese è soprattutto la gente comune, quel “popolo” che i poteri sovranazionali hanno in odio, che i ricchi ignorano – poiché dall’alto dei loro attici neppure la vedono, questa gente comune –, che gli intellettuali di sinistra non amano, reputandolo ignorante.

Nessuno rimpiange la società disciplinare splendidamente descritta da Michel Foucault – la società del divieto – la società che rinviene il suo verbo modale caratterizzante nel “non-poter” fare. Ma pensare che la nostra società, la società della prestazione, che si sottrae alla negatività e che ha il proprio verbo modale nel “poter” fare illimitato, sia in grado di reggere all’urto delle spinte anomiche del neoliberismo, senza ridare corpo, peso, senso a concetti come obbligo, legge, punizione, altro non è che l’ennesima follia e bugia della postmodernità.

FRANCESCO  RICCI

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(*1) In merito alle critiche nei confronti della Legge Cartabia, accennate da Francesco Ricci -autore del presente articolo – desideriamo segnalare due specifici interventi a suo tempo pubblicati sulla Consul Press a firma dell’Avv. Massimo Rossi (Foro di Siena), con incorporati relativi Link di collegamento per eventuali approfondimenti   

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