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L’omicidio di Sharon Verzeni
Il baratro mentale e la protezione delle vittime che non esiste.

Nel momento in cui mi appresto a scrivere quanto segue, l’Italia è sconvolta da due gravi fatti di cronaca, che seppur differenti, rimettono al centro l’urgenza di una riflessione su quello che è l’attore protagonista di entrambe le vicende: il baratro mentale, quando esso diviene atto violento, eliminatorio. Queste parole nascono da un moto di indignazione che mi coinvolge tanto quanto persona che come professionista. Sharon Verzeni, uccisa nella notte tra il 29 e 30 luglio, si è tristemente trovata nel luogo sbagliato, nel momento peggiore, ma certamente è vittima di un sistema avverso, di una società che ha disatteso il compito di tutelare dalle degenerazioni e gli abissi della malattia mentale, prima che sia troppo tardi. Se per la strage di Paderno Dugnano, ad opera del reo confesso 17enne, possiamo assolvere la collettività in quanto erano sommersi i segnali che potevano far presagire cotanta violenza, non vi sono scusanti per quanto riguarda il delitto della giovane barista. 

Moussa Sangare, 31, l’omicida di Sharon Verzeni, la barista 33enne di Terno d’Isola (Bergamo). La sorella minore dell’assassino, Awa Sangare, aveva presentato due denunce, di cui una nel maggio 2024: “Quello che ha fatto a Sharon Verzeni poteva succedere a me”

Mi sento chiamata in causa di fronte ad un copione che è divenuto troppo frequente, quando si apprende che i servizi sociali territoriali erano allertati, le denunce erano state presentate, quando le violenze erano già esplose tra le mura domestiche. Ma ancora una volta, inutili gli interventi del 118 e delle forze dell’ordine, non sono seguiti corsi d’azione volti a contenere il discontrollo degli impulsi già ampiamente manifestato da Moussa Sangare, il 31enne che ha confessato il delitto affermando di aver avvertito un bisogno di uccidere, senza motivazioni, sul flusso di quello che ha definito un “feeling”, una sensazione. La sorella Awa Sangare, sconvolta da quanto accaduto, ha ben evidenziato come la pericolosità sociale del fratello avesse già oltrepassato il limite del tollerabile, riportando episodi gravissimi e invocando gli aiuti dei servizi territoriali, ma le è stato detto che doveva essere lui a presentarsi volontariamente: questa è la falla, il cancro dell’attuale sistema, si attende l’irreparabile senza fare nulla. Perché mai una persona violenta, che non ragiona, dovrebbe recarsi di propria volontà in un servizio di salute mentale? Queste sono tragedie annunciate, poiché i nuovi “manicomi”, troppo di frequente, sono le abitazioni private, che divengono prigioni domestiche dove regna il terrore e gli interventi, persino le denunce, non conducono ad alcun intervento concreto o all’attivazione di una misura cautelare. A farne le spese sono poi tutti coloro che, magari anche casualmente, come accaduto alla povera Sharon, intercettano lo sfogo rabbioso e folle di questi soggetti. Il disagio mentale, quando sfocia in violenza, non incontra nel sistema attuale risposte efficaci: si attende il consenso del soggetto malato affinché si sottoponga alle cure, anche se quest’ultimo ha dato prova di essere pericoloso per sé e per gli altri. Il che è inaccettabile. La memoria mi ha riportata ad un caso ancora più sconcertante, soprattutto in termini di mancata risposta delle istituzioni a seguito di avvenute segnalazioni: l’uccisione di Alice Scagni nel 2022, per mano del fratello Alberto, affetto da disturbi di personalità di grado severo, quadro complicato da un poliabuso di sostanze psicoattive. I genitori avevano disperatamente allertato tanto gli agenti del 112 quanto gli operatori della salute mentale della Asl territoriale sulle condizioni del figlio, sulla sua concreta pericolosità, ma tutto cadde nel vuoto, nonostante le avvenute minacce da parte dello Scagni rispetto all’ucciderli o rivalersi su Alice, come tristemente è avvenuto.

Alice Scagni, uccisa con 17 coltellate nel maggio del 2022 dal fratello Alberto Scagni. Inutili furono le chiamate al 112 da parte dei genitori, come anche la richiesta di intervento dei servizi deputati alla salute mentale.

La normativa che interessa il rischio correlato alla pericolosità sociale per il soggetto malato mentalmente va rivista, aggiornandola alle nuove emergenze e fragilità, così come deve cambiare la responsabilità collettiva, queste situazioni non possono essere ignorate, i servizi sociali e le forze dell’ordine devono collaborare in termini di  prevenzione, protezione, monitoraggio di tutte quelle realtà ove si ravvisa un concreto pericolo per la comunità.  Quante altre vittime della follia violenta devono esserci affinché sia chiaro e lampante che il sistema attuale non tutela nessuno, disattendendo tanto il piano della cura quanto quello della sicurezza sociale? 

Dott.ssa Alice Mignani Vinci – Criminologa, Assistente sociale e Pedagogista

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