L’orrore di un mondo privo di Dio: dalla cultura
del Narcisismo alla estremizzazione del Nichilismo
un approfondimento di Francesco Ricci*
Nella Nota che accompagna Sentimento del Tempo, Giuseppe Ungaretti fa delle considerazioni di estremo interesse su Roma e sull’arte del barocco. In nessun’altra città, secondo il poeta, è dato provare il sentimento del vuoto con pari forza, ad esempio quando ci si trova al cospetto del Colosseo, “enorme tamburo con orbite senz’occhi”, o davanti a certi ruderi. Tale sentimento del vuoto immediatamente si converte in orrore del vuoto – che in Michelangelo prima, nel barocco poi, viene a coincidere con “l’orrore di un mondo privo di Dio” –, al quale gli artisti reagiscono riempiendo lo spazio “per non lasciare nulla, nulla di libero”.
Credo che proprio la dialettica vuoto/piena possa esserci di grande aiuto per comprendere l’ipertrofica produzione di informazioni che caratterizza l’epoca tardo-moderna. Il mondo virtuale non accoglie narrazioni, non può accoglierle. Queste, infatti, esigono tempo e pazienza. Nella rete, invece, tutto deve essere veloce (l’indugio non è ammesso), istantaneo (e dunque senza durata), presente (senza passato e senza futuro, vale a dire, senza nostalgia e senza progettualità). È questa la ragione per la quale nel mondo virtuale ci s’imbatte, in luogo delle narrazioni, nelle informazioni, tantissime informazioni, che si rincorrono, si annullano cumulandosi – quella nuova rimpiazza quella vecchia per poi, a sua volta, venire sostituita da un’altra e scivolare nell’insignificanza –, frantumano il tempo e, insieme col tempo, la nostra attenzione. Anche le Storie digitali sulle piattaforme (Instagram, Facebook), anche le fotografie, in primis i selfie, sono informazioni, informazioni visive.
E proprio i selfie, a mio avviso, consentono di capire bene perché di continuo noi postiamo, mettiamo like, condividiamo, comunichiamo le nostre opinioni, i nostri gusti, le nostre passioni, insomma, raccontiamo le nostre vite. Il narcisismo sociale in tutto ciò indubbiamente ha il suo peso.
Non a caso già Cristopher Lasch, alla fine degli anni Settanta, aveva osservato, nel suo fondamentale saggio La cultura del narcisismo, che nel rispondere agli altri moltissime persone si atteggiavano e recitavano, quasi che quanto dicevano fosse trasmesso simultaneamente a un “pubblico invisibile”. In sostanza, si mettevano in posa e, ovviamente, comunicavano la migliore immagine di se stesse. A distanza di quarant’anni – e dopo Internet, i social, lo smartphone – il narcisismo, e dunque il bisogno di visibilità, di ammirazione, di successo, di notorietà che esso tradisce, ha trovato nel mondo virtuale lo spazio più adatto alla propria irradiazione e nei selfie la sua espressione massima, se è vero che la fame di riconoscimento che vi è sottesa, come ha sottolineato Vittorio Lingiardi, non è “di guardarsi, ma di essere guardati da migliaia di occhi”.
Eppure, il narcisismo sociale non basta da solo, a mio avviso, a spiegare la frenesia con la quale facciamo selfie e subito li esibiamo. Quest’ultima, piuttosto, è la spia di un immenso vuoto interiore, generato dal venir meno di ciò che è in grado di orientare la vita e di conferirle un senso. Storicamente tale funzione è stata svolta dai valori, dai princìpi, dalle grandi narrazioni, o metanarrazioni, che, però, nell’età della tecnica appaiono avere abbandonato la terra alla maniera degli dei di Hölderlin, e il posto da loro lasciato libero non è stato rimpiazzato da niente o da nessuno. Ed è in questa mancata sostituzione, ancor più che nel tramonto dell’antico sistema valoriale, che è dato cogliere l’essenza del nichilismo, come ben ha chiarito Umberto Galimberti in La parola ai giovani. Dialogo con la generazione del nichilismo attivo:
“Nichilismo è quando un sistema di valori crolla a non ne nasce un altro”.
In questo deserto di insensatezza, che non conosce slancio verso il futuro e che è completamente privo della dimensione della verticalità e della trascendenza, noi tutti muoviamo i nostri passi. Ma la nostra non è una traversata, non si configura come un cammino verso la Terra Promessa – che è anche il titolo di una raccolta di poesie di Giuseppe Ungaretti, – ma costituisce uno stare, una condizione permanente, un risiedere. Nulla alle spalle e nulla davanti a sé.
È questo il Nichilismo, è questo il deserto del Nichilismo. Ma il deserto, alla lettera “ciò che è abbandonato”, ha il potere di “abbandonare a se stesso” colui che vi si avventura o colui che vi abita. E abbandonato a se stesso, ciascuno si ritrova di fronte alla propria interiorità, scivola nelle profondità del proprio io, dove non incontra nessuno per ore, dove tutto è silenzio e dove a regnare è, prendendo a prestito le parole dal poeta praghese Rainer Maria Rilke, una “grande intima solitudine”.
Esperienza necessaria, questa, per conoscere se stesso e per realizzare, di conseguenza, la propria passione-vocazione. Dunque, esperienza auspicabile, desiderabile, da ricercare e da coltivare amorevolmente. Ma ormai per lo più ignota. I giovani e i giovanissimi, infatti, fin da piccoli hanno visto le loro giornate organizzate dai genitori in modo che le ore lasciate libere dalla scuola venissero occupate per intero da attività sportive, musicali, ricreative o di altro genere.
Chi oggi ha trent’anni o più, invece, è stato testimone del venir meno della distinzione tra tempo feriale e tempo festivo, dell’apertura dei negozi sette giorni su sette, della necessità di affiancare all’occupazione principale una seconda occupazione, dal momento che la figura del working poor (povero al lavoro), che non ha mai trovato posto nell’universo socio-produttivo fordista, ha cominciato a fare il suo ingresso stabilmente anche in Italia. La conseguenza è stata che non c’è stato più modo e tempo, quasi per nessuno, di restare soli, liberi da impegni, lontani dal chiasso e dal chiacchiericcio, immersi nel silenzio che sempre s’intreccia con la solitudine e che consente l’incontro con se stessi.
Quando però accade di ritrovaci soli – perché siamo malati, siamo in vacanza, nessuno ci fa compagnia durante la pausa lavorativa, i nostri amici se ne sono andati, non riusciamo a prendere sonno –, ecco che siamo costretti a gettare uno sguardo nelle profondità del nostro io. Ma questo, in epoca tardo-moderna, non essendo più l’interlocutore privilegiato di quel dialogo quotidiano (recognitionem sui) che troviamo al centro della riflessione di Seneca nel terzo libro del De ira, non può essere per noi l’intimo, il familiare, il noto; al contrario, ci si presenta come l’assolutamente altro, l’assolutamente sconosciuto. Così avviene che tale io all’inizio, al pari di tutto ciò che incontriamo per la prima volta, ci incuriosisce e allo stesso tempo ci fa paura. Poi, però, iniziamo a studiarlo, a esaminarlo, a cercare di capire cosa sia e di cosa sia fatto.
E la scoperta che alla maggior parte degli uomini tocca fare, sorpresa amara e angosciante, è che è fatto di niente, è vuoto, è cavo. Qualche piccola passione, un grado di empatia bassissimo, nessuna ambizione che trascenda l’ambito del proprio particulare, un rapporto fondamentalmente strumentale con le persone, nessuna fede al di fuori di quella nel mercato e nel denaro, nessuno stupore, nessun senso di colpa e poca vergogna. È il vuoto, è l’abisso, che i grandi poeti – come Saba (“Quante rose a nascondere un abisso!”) – coprivano di fiori, noi più prosaicamente e con maggiore disperazione riempiamo di fotografie, di video, di storie, di post, di like, così da “non lasciare nulla, nulla di libero”.
*FRANCESCO RICCI, Fiorentino, classe 1965, vive a Siena
ove è docente di letteratura italiana e latina, nonché autore di
numerosi saggi di critica letteraria, dedicati in particolare al
Quattrocento (latino e volgare) e al Novecento.