“Cane mangia Cane”: dal Romanzo di Edward Bunker al Film di Paul Schrader
Quando le Città diventano tutte uguali, purtroppo l’Umanità viene costretta a vivere in un’unica area territoriale “omologata” e sottoposta ad una forzata globalizzazione, trovandosi così esodata “da una città che era il mondo al mondo che è una città”, come acutamente esposto da Zygmunt Bauman.
Un’Analisi di FRANCESCO RICCI
“Cane mangia Cane” è uno dei romanzi più famosi dello scrittore statunitense Edward Bunker (1933-2005), complice il film che ne ha tratto nel 2016 il regista Paul Schrader. Pubblicato in lingua originale nel 1996 e tradotto in italiano tre anni dopo, il libro costituisce, secondo il parere di James Ellroy, “il miglior romanzo mai scritto sulla rapina a mano armata”.
Alla riuscita dell’opera concorre, accanto alla scrittura straordinariamente asciutta e vigorosa, il crudo realismo delle situazioni e dei caratteri rappresentati. Né ciò sorprende, se si tiene conto che Edward Bunker traspone nei suoi libri ciò che ha direttamente conosciuto e vissuto, fuori e dentro il carcere, e che narra con dovizia di particolari nella sua autobiografia, intitolata Educazione di una canaglia. In sostanza, il suo sguardo di scrittore, sia che si rivolga al mondo del crimine sia che si rivolga all’esistenza trascorsa dietro le sbarre, è sempre uno sguardo dall’interno.
Riletto a distanza di circa venticinque anni dalla sua prima uscita per i tipi di Einaudi, Cane mangia cane ha prodotto in me un forte effetto di spaesamento. Quest’ultimo termine – in tedesco Das Unheimliche – deve la sua fortuna soprattutto all’impiego che ne hanno fatto nel corso del XX secolo Sigmund Freud e Martin Heidegger. Il padre della psicoanalisi in un breve saggio del 1919, il filosofo tedesco soprattutto tra gli anni Venti e gli anni Quaranta, indicano con questa parola l’intreccio di noto e spaventoso, quasi una sorta di estranea familiarità o di estraneità che in qualche modo ci appartiene.
Il significato che, invece, io attribuisco alla parola rimanda al non avere familiarità col paese nel quale io mi trovo, nel percepirlo, dunque, a me estraneo. La Los Angeles nella quale Cane mangia Cane è ambientato non è la mia città, così come gli Stati Uniti non sono il mio Paese. Leggendo il romanzo, io non mi sento a casa mia. Eppure, a un esame più attento, quello spazio a me non familiare non mi risulta, però, del tutto ignoto, quello spazio a me estraneo, non mi appare, però, completamente sconosciuto.
Al punto che, forse, dovrei parlare non di spaesamento, ma di spaesamento a rovescio. Prendo l’avverbio “a rovescio”, privandolo di ogni implicazione estetica, in prestito da Erasmo da Rotterdam, il quale, in uno dei saggi che compongono gli Adagia, fa menzione, accanto ai Sileni veri e propri – brutti all’esterno, ammirabili all’interno – dei Sileni a rovescio – ammirabili all’esterno, brutti all’interno.
Analogamente, io, messo di fronte alla Los Angeles di Edward Bunker, non mi sento spaesato, come invece mi aspetterei di esserlo, tenuto conto che quella né è la mia città né è individuabile, più in generale, come una città italiana. Al contrario, io faccio fatica a immaginare che la storia narrata in Cane mangia Cane si svolga negli Stati Uniti, dal momento che la società che io riconosco in filigrana è la società italiana, è il paesaggio sociale italiano.
Detto con altre parole, tutto ciò che accade nel libro è al contempo riconducibile a un mondo che non mi appartiene e a un mondo che mi appartiene, è assimilabile in eguale maniera a un mondo che io non riconosco come Heim (la mia casa) e che io riconosco come Heim (la mia casa). Sono gli Stati Uniti, non è l’Italia. Sono gli Stati Uniti, ma è anche l’Italia. La lettura di Cane mangia cane è, dunque, per me una lettura spaesante, una lettura spaesante a rovescio. Come può verificarsi ciò?
Per provare a rispondere alla domanda, può essere utile partire da tre brevi passi tratti dal romanzo.
NEL PRIMO PASSO, Charles Carson (“Diesel”), parlando con Troy Cameron – insieme a Gerald McCain (“Mad Dog”) sono i protagonisti del libro –, osserva: “Ho letto proprio ieri un fatto, che [dei giovani negri] avevano deciso di derubare un coglione qualsiasi. Questo gli ha fatto vedere il portafogli vuoto, e allora quelli gli hanno piantato sei pallottole in corpo. Che razza di stronzata è questa? Che hanno in testa?”.
NEL SECONDO PASSO, invece, collocato quasi a metà del romanzo, Alexander Aris, detto “il Greco”, un losco faccendiere, a Troy, che gli ha domandato come sia possibile per dei ragazzi violenti del ghetto girare con tanti soldi addosso (“tutta questa grana”), risponde con queste parole: “Crack e polvere… polvere d’angelo. È per questo, anche, che sono tutti fuori di testa. Non hanno alcun senso della realtà. Per loro ammazzare qualcuno è garanzia di rispetto… loro la pensano così”.
NEL TERZO PASSO, invece, Troy, tornato libero dopo la detenzione di dodici anni nel penitenziario di San Quentin, si accorge del cambiamento profondo subito nel corso del tempo da Los Angeles: “Un tempo la California meridionale era quasi un paradiso; adesso pareva ridotta a un avamposto del Terzo Mondo. Non per via del colore della pelle, ma per l’analfabetismo, la miseria, la disparità tra le classi sociali”.
Considerati congiuntamente, questi tre passi offrono una testimonianza attendibile di come la Los Angeles dei primi anni Novanta sia una città dove la violenza, specie tra i più giovani, si è fatta diffusa e spesso gratuita, dove il movente del delinquere e dell’uccidere è il controllo del mercato della droga, dove l’ignoranza, la povertà, la marcata ingiustizia sociale definiscono la nuova società americana, dove i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri: “Quando Troy era ancora ragazzo, i ricchi avevano la Cadillac e i poveri viaggiavano con la Ford. Adesso i ricchi giravano in limousine, e i poveri spingevano i carretti ricolmi di lattine riciclabili di Coca Cola”.
Ma una città come questa – una società come questa – quanto è lontana da una città italiana, di medie o grandi dimensioni, del Terzo millennio? Poco o niente. Ed è questa la ragione che leggere Cane mangia Cane è per me un’esperienza spaesante: perché sono messo di fronte a Los Angeles, ma mi sento in presenza di un centro urbano italiano.
La verità è che il passaggio, per usare le parole di Zygmunt Bauman, “da una città che era il mondo al mondo che è una città”, ha peggiorato le esistenze di tutti noi, esclusi gli appartenenti alla élite finanziaria e imprenditoriale del capitalismo, la cui ricchezza non avvantaggia tutti, ma esclusivamente se stessa. L’azione congiunta di tre fattori – vale a dire la globalizzazione, l’erosione della sovranità territoriale, l’avvenuto divorzio tra potere (disporre della possibilità di fare) e politica (disporre della possibilità di decidere che cosa fare) – ha determinato la creazione di una situazione paradossale e senza rimedio anche nel nostro Paese. Le nostre città sono diventate il bacino di raccolta (Zygmunt Bauman ha parlato di “discariche”) dei problemi, e delle conseguenze dei problemi, generati da cause remote e sovranazionali, senza che, però, chi è al governo possieda più la forza – e molte volte neppure la libertà, a causa della continua ingerenza di Bruxelles – per potere rinvenire soluzioni valide.
Il mondo post bipolare – successivo, cioè, alla caduta del muro di Berlino, alla dissoluzione dei regimi comunisti dell’Europa centro-orientale, alla disintegrazione dell’Unione Sovietica –, fortemente segnato come è dalla omogeneità e dall’uniformità, ha visto fare il suo ingresso stabilmente anche nel nostro mondo sociale la figura del working poor, prodursi l’erosione del ceto medio, costituirsi delle enclave abitate da disperati, immigrati irregolari, senzatetto, richiedenti asilo. Ad abitarle sono gli scarti della mondializzazione, la quale, a ricordarcelo è Serge Latouche in L’occidentalizzazione del mondo, non è un processo naturale, scaturito dalla fusione di storie e culture differenti, ma è una forma mascherata di dominazione, che implica sradicamento, distruzione, violenza, ingiustizia.
Sono enclave anche quelle nelle nostre periferie o a ridosso della stazione ferroviaria o di qualche altro non-luogo, silenti e invisibili, costantemente in bilico tra la violenza del ghetto e l’indigenza di un accampamento di fortuna, delle quali ci si accorge solamente quando un episodio di cronaca nera le fa uscire dal cono d’ombra in cui normalmente si trovano. Il rapimento di una bambina in un ex albergo occupato abusivamente, l’incendio di un campo nomadi sorto in prossimità o all’interno di un capannone industriale dismesso, la sparatoria in pieno giorno di giovanissimi legata al controllo del mercato della droga. Milano come Los Angeles, Firenze come Los Angeles, Roma come Los Angeles, Napoli come Los Angeles.
A conferma che con la vittoria del capitalismo sul socialismo a finire non è stata la storia, come riteneva, sbagliando, Francis Fukuyama, ma la geografia: lo spazio si è compresso e i confini, naturali e artificiali, delle unità territoriali hanno preso a separare non più realtà diverse, ma uguali, dove a muoversi sono uomini e donne dall’identico immaginario e dall’identico stile di vita. È bastato aspettare una manciata di anni – il tempo corre veloce nel villaggio globale – e la Los Angeles di fine secondo millennio di Edward Bunker è divenuta una qualsiasi città italiana di inizio terzo millennio.
Violenta, insicura e senza alcuna reale integrazione.
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L’immagine d’apertura è stata ripresa da un ponderoso articolo di Gianfranco Ferraro
dal titolo “Città e villaggi globali: la globalizzazione come utopia”
pubblicato sul n. 5/2021 della Rivista Semestrale Thomas Project.