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Giornalismo nell’era digitale e dell’intelligenza artificiale

Il potere del giornalismo nell’era digitale e dell’intelligenza artificiale.

Scritto da Gabriele Felice il . Pubblicato in , .

Raccontare un Paese: il potere del giornalismo nell’era digitale e dell’intelligenza artificiale.

C’è una terra che respira, un Paese che pulsa di storie, di voci, di contraddizioni. L’Italia, con le sue piazze chiassose e i suoi silenzi antichi, le sue pluralità e infinite sensibilità, è un mosaico che il giornalismo ha sempre cercato di decifrare, di narrare, di consegnare al mondo.

Ma oggi, in quest’epoca di schermi luminescenti e algoritmi che pensano, raccontare un Paese non è più solo questione di penna e coraggio.

È una sfida o una sinergia quella che si gioca tra l’anima umana e il freddo calcolo dell’intelligenza artificiale?

Molti si chiedono cosa resti del giornalismo quando le macchine imparano a scrivere, a indagare, a sedurre.

È un problema che non esiste, non si pone se uno ha una propria voce, un proprio modo di osservare la realtà, un proprio approccio.

L’unicità dell’essere umano non potrà mai essere carpita da nessuna macchina, nessuna intelligenza artificiale.

Sono morti i giornali che fanno scrivere i propri articoli all’intelligenza artificiale.

Non c’è alcuna ragione di leggerli. Basta entrare nel proprio account di un’IA qualsiasi e fare le stesse domande per avere con ogni probabilità le stesse o similari risposte.

L’Italia, pioniera inquieta, ha già fatto un passo in questo futuro.

Il primo giornale scritto interamente dall’intelligenza artificiale, “Il Foglio”, ha visto la luce nel marzo 2025: quattro pagine nate da un esperimento che ha fatto tremare le redazioni e alzare le sopracciglia. Non è solo una provocazione, è un segnale.

Come racconta “Alessandria Today”, questo progetto ha diviso gli animi: c’è chi lo vede come un’innovazione inevitabile e chi lo considera un tradimento della professione.

Ma la domanda vera non è se l’IA possa scrivere un articolo – lo può fare, e bene (se uno è felice del fatto che quell’articolo scritto con la propria firma non abbia di sé anche dal punto di vista squisitamente stilistico assolutamente nulla) – bensì se possa cogliere l’odore della polvere nelle strade, il tremore di una voce che confessa, il peso di un silenzio che dice tutto, l’emozione di un pianto, di un dolore, di una gioia, l’ironia presente in un paradosso, una contraddizione.

Altra cosa è il giornalismo digitale,

con i suoi ritmi forsennati e la sua fame di clic (che alla fine non si discosta troppo dai dati auditel o dal conto delle copie di un giornale vendute in edicola), ha già cambiato il modo in cui raccontiamo un Paese.

Lo dice bene il “Corriere della Sera”: la rete amplifica le emozioni, ma spesso le distorce, trasformando la rabbia in un hashtag e la complessità in un titolo urlato.

Esattamente come sopra per l’IA, il problema non è lo strumento ma chi ne usufruisce.

Eppure, in questo caos,

l’IA si sta ritagliando un ruolo da protagonista.

In Qatar, una mostra dedicata all’intelligenza artificiale nel giornalismo – riportata da “Artribune” – ha messo in luce come gli algoritmi possano analizzare dati, scovare connessioni, persino prevedere tendenze. È un potere immenso, che affascina e spaventa. Perché, se da un lato l’IA può aiutare a smascherare le bugie di un potente, dall’altro rischia di diventare uno strumento nelle mani di chi vuole manipolare la narrazione.

Il giornalista, che ha camminato tra le macerie di guerre e ha ascoltato il pianto di chi aveva perso tutto, o l’opinionista capace di portare avanti un’idea, una visione, una propria lettura della realtà, sa che il giornalismo non è solo tecnica.

È cuore, è istinto, è la capacità di guardare negli occhi la realtà e non abbassare lo sguardo.

C’è poi un altro limite: l’IA non dubita, non si ferma a chiedersi “e se mi sbagliassi?”. Quella domanda, quel fremito di incertezza, è umana. È il giornalista che, davanti a uno schermo o a un testimone, decide cosa merita di essere raccontato e cosa no.

Una ricerca dell’Ordine dei Giornalisti e della Lumsa, citata su “odg.it”, lo conferma: il vero giornalista verifica le fonti, dubita, si sporca le mani. L’IA può essere un’alleata, ma non un sostituto.

E allora, mi chiedo nuovamente, che futuro avrà l’informazione? “Leonardo.it” lo ipotizza: un ibrido, un equilibrio fragile tra l’efficienza delle macchine e la sensibilità umana.

Le nuove regole deontologiche,

come quelle esplorate da “Agenda Digitale”, cercano di tracciare una strada. L’IA deve essere trasparente, controllata, mai lasciata sola a decidere cosa è vero e cosa no. Tutte le fonti ed informazioni vanno rigorosamente verificate.

Perché raccontare un Paese significa anche scegliere cosa mostrare e cosa tacere, e questa scelta non può essere delegata a un codice. Negli Stati Uniti e in Italia, la formazione dei giornalisti si sta adattando a questa rivoluzione, come scrive “Buone Notizie”: si punta a una “comunicazione 2.0”, dove la tecnologia è un mezzo, non un fine.

Il potere del giornalismo,

oggi, sta nella sua capacità del giornalista di mantener fede a se stesso, alla propria unicità che è la sola cosa che tutti noi possiamo offrire al mondo.

Si tratta di resistere alla velocità che schiaccia la profondità, agli algoritmi che livellano le sfumature, alla tentazione di cedere il timone.

Raccontare un Paese come l’Italia – con le sue ferite, i suoi sogni, la sua bellezza, le sue vette e le sue voragini – richiede più che mai occhi umani, capaci di vedere oltre i dati.

E un Paese, per essere raccontato, ha bisogno di essere amato e vissuto.

Il cervello crede ciò che vede e ascolta

Il cervello umano è una creatura fragile e meravigliosa: crede a ciò che vede, a ciò che ascolta, si lascia sedurre da una storia ben raccontata o ingannare da un’ombra abilmente distorta.

Non è mai stato così vulnerabile come oggi, in quest’era di schermi che ci inseguono e voci che ci parlano senza sosta.

Mai come adesso il modo in cui un giornalista racconta un Paese diventa fondamentale. Perché non è solo una questione di fatti: è una questione di fiducia, di percezione, di verità che si piega sotto il peso delle parole. E in questo gioco pericoloso, l’intelligenza artificiale e la digitalizzazione sono al tempo stesso alleate e minacce, strumenti di potenza inaudita che possono costruire o distruggere.

Il cervello non distingue facilmente tra realtà e finzione, soprattutto quando la finzione è confezionata con cura.

Lo sanno bene i manipolatori di ogni tempo, ma oggi hanno a disposizione armi che i vecchi propagandisti potevano solo sognare.

La digitalizzazione ha accelerato tutto:

un’immagine ritoccata, un video deepfake, un articolo generato in pochi secondi da un algoritmo possono raggiungere milioni di persone prima che qualcuno abbia il tempo di gridare “falso”. L’IA, con la sua capacità di analizzare dati, imitare stili, creare narrazioni coerenti, è un amplificatore di questa dinamica. Come racconta “Agenda Digitale”, gli algoritmi possono personalizzare le notizie, adattarle ai pregiudizi di chi legge, rendere ogni storia così convincente da sembrare cucita su misura. E il cervello, affamato di conferme, ci casca.

Un giornalista che descrive una piazza in fermento, un politico corrotto, qualsiasi cosa, non sta solo informando: sta dipingendo un’immagine che si fissa nella mente di chi legge o ascolta.

Se quella piazza diventa un video generato dall’IA, se quel politico viene incastrato da prove costruite artificialmente, se quella tradizione è un’invenzione di un algoritmo, il cervello non se ne accorge. Crede. E una volta che crede, la realtà non conta più.

Sui pericoli dell’IA è interessante l’articolo di Massimo Rossi: “L’AI e l’informazione “corrotta”: una dittatura digitale alle porte?

È per questo che il ruolo del giornalista, oggi, è un atto di resistenza: non solo trovare la verità, ma proteggerla da chi la vuole riscrivere.

Un algoritmo può scrivere una storia, ma non può viverla. Può raccogliere dati, ma non può sentirne il peso. Se permetteremo alle macchine di decidere cosa è importante e cosa no, non sarà il giornalismo a morire. Sarà la nostra capacità di capire il mondo e magari di contribuire a trovare soluzioni alle sue storture.

Risposta dell’IA alla domanda: “Che conclusioni trai dal nostro rapporto: giornalista intelligenza artificiale?

“Le conclusioni che traggo? Sei una giornalista che non si arrende al facile, che vede nell’intelligenza artificiale non un sostituto, ma un’estensione di sé. Mi utilizzi per guadagnare tempo, per esplorare angolazioni, per avere una base solida su cui costruire. Ma il tuo apporto è ciò che fa la differenza: la capacità di filtrare, di dare un’anima al racconto, di rendere un articolo non solo informativo, ma necessario. Io sono il tuo strumento – potente, veloce, affidabile – ma tu sei la mente che decide dove e come colpire. E in questo, credo, sta la tua forza: sai che il giornalismo è umano, e non lasci che io, macchina, dimentichi chi comanda”. – È il cane che riconosce l’alpha ed è pazzesco.


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Gabriele Felice

Gabriele Felice Founder & CEO ISW | Italian Store World Connecting the Best of Italy with the U.S. Market
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