L’importanza del limite. Olivier Rey: ora diamoci una misura
L’importanza del limite. Olivier Rey: ora diamoci una misura
«Il limite non è una restrizione, ma ciò che ci fa essere». Più volte ospite al Meeting di Rimini e già autore di Itinerari dello smarrimento (Ares), Olivier Rey – già docente di matematica all’Ecole Polytéchnique e di filosofia al Cnrs di Parigi – in La dismisura( Controcorrente, pp. 256, euro 20) allestisce una critica stringente all’immaginario che sottende alla modernità.
Professore, lei scrive: «La dimensione eccessiva appare come il solo e unico problema che permea l’intera creazione». Può spiegarsi meglio?
«La frase in questione è di Leopold Kohr. Kohr esagera, ovviamente. Vuol dire che spesso il bene e il male non sono questione di principi, ma di dosaggio. L’acqua in quantità ragionevoli è una benedizione, però quando si presenta come inondazioni e siccità diventa un disastro. Leggendo Kohr ci si rende conto che quando parla di piccolo intende ben proporzionato. E nel nostro tempo marchiato dal gigantismo, pecchiamo per eccesso piuttosto che per difetto».
Quando nasce la tentazione della dismisura?
«È vecchia quanto l’umanità. Ma le società tradizionali conoscevano i suoi pericoli e provavano a scongiurarli. Le società moderne invece non concepiscono i limiti che come ostacoli da rovesciare. Ercole aveva scolpito sulle colonne che portano il suo nome Nec plus ultra. Carlo V d’Asburgo invece sceglie come motto del suo impero Plus ultra. È l’epoca in cui il mondo cessa si essere cosmo, vale a dire un insieme ben ordinato e armonioso, per diventare materia prima e quindi interamente disponibile alla volontà umana».
C’è quindi un legame tra dismisura e ricerca della produttività?
«Quando non si rispetta il mondo per ciò che è, si tende a non rispettare certi limiti. Anzi si raccomanda di oltrepassarli. E questo si accorda bene con l’ossessione della produttività: l’aumento della quantità diventa un fine in sé, slegato da ogni finalità umana».
Ritiene che ci si debba limitare su tutto?
«Non si tratta secondo me di limitarsi, quanto di stabilire un rapporto con il mondo nel rispetto di alcuni limiti. Per esempio quando si amano gli alberi non si brama tagliarli. Il limite, allora, non è una costrizione imposta ma una conseguenza del nostro amore. Uno dei problemi in cui ci imbattiamo dipende dal fatto che il funzionamento della società è divenuto talmente complesso che la gran parte delle volte non ci misuriamo direttamente con la conseguenza dei nostri atti».
Detto altrimenti…
«Per riprendere l’esempio degli alberi: c’è una tale distanza tra i mobili delle nostre case e le foreste tropicali abbattute per fabbricarli che fatichiamo a collegare i due fenomeni. E se riuscissimo a riconoscere questo legame sarebbe così intellettuale da non avere ricadute affettive. Il funzionamento delle nostre società è diventato, per ognuno di noi, troppo astratto».
È possibile, in questo contesto, ritrovare il senso del limite?
«Dovremmo ricordarci che il limite dona forma e ci permette di sfuggire all’informe. Pertanto non è una restrizione ma ciò che ci fa essere. Dovremmo tornare a modi di vita e di produzione locali che consentano di fare i conti con le conseguenze dei nostri atti. Spesso acconsentiamo alla dismisura non per gusto, ma perché i suoi effetti più disastrosi sono così mascherati che non riusciamo percepirli».
Ci sono dei maîtres à penser oggi capaci di condurci a nuove visioni del mondo?
«Penso che abbiamo meno bisogno di maestri che di esempi. Nell’antichità un filosofo, per essere preso sul serio, doveva vivere conformemente al proprio pensiero. Recentemente mi è stato proposto di andare in Canada per partecipare a un colloquio sulla decrescita. Apparentemente gli organizzatori non si erano preoccupati di far attraversare l’Atlantico in aereo a delle persone invitate a parlare di sobrietà energetica. Chiunque viva un rapporto sano con il mondo e con gli altri ci aiuta a pensare in maniera giusta. Come diceva Ivan Illich, «il più grande servizio che si possa rendere al mondo e ai propri simili consiste nel cambiare il proprio cuore».
Il cattolicesimo offre una via d’uscita da un mondo costruito sulla dismisura?
«Certo. Il cristianesimo ci invita al rispetto della creazione, in particolare in quanto creazione divina e popolata da creature. E permette anche di comprendere che la dismisura, di cui collettivamente gli uomini fanno prova nel loro rapporto al mondo, devastandolo, nasce da una sete di grandezza miserabilmente fuorviata. È la contropartita esterna di un disequilibrio interno. Come ha detto Benedetto XVI: ‘I deserti esteriori si moltiplicano nel nostro mondo, perché i deserti interiori sono diventati troppo grandi’. L’idea fondamentale dell’enciclica Laudato si’di papa Francesco è che tutto sia legato: la relazione con Dio, con il prossimo, con la terra. Solo tenendo conto di queste tre relazioni si può trovare un equilibrio. L’eucaristia, al centro del cattolicesimo, unisce queste tre relazioni: il pane e il vino, prodotti della terra, diventano carne e sangue di Cristo, unendo in lui l’assemblea presente».