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Guareschi, coraggiosamente con “Rabbia”

GIOVANNINO GUARESCHI… dal “Carcere” per De Gasperi alla “Rabbia” con Pier Paolo Pasolini

a cura di FABRIZIO FEDERICI *

Non conosco a fondo l’opera di Giovannino Guareschi, scrittore, giornalista, umorista e caricaturista che comunque ritengo, dall’Unità d’Italia in poi, uno dei pochi nostri veri intellettuali  (da Cattaneo a Salvemini, da Prezzolini a Bianciardi, da Silone a Pasolini), capaci d’ andare controcorrente anche quando avrebbero avuto tutto l’interesse – come tanti loro colleghi – a saltare sul carrozzone del potente di turno, o cavalcare la moda cultural-mediatica del momento.

Quando Guareschi morì a Cervia, in Romagna, a soli 60 anni, il 22 luglio 1968, a rendergli l’estremo saluto furono, oltre ai figli Alberto e Carlotta (la moglie Ennia non se la sentì) e agli amici di paese, ben pochi “vip”. Il direttore della “Gazzetta di Parma” (dove Giovannino era entrato giovanissimo, come aiutocronista, nel 1931), Baldassarre Molossi, Giovanni Mosca (con cui, subito dopo la guerra, aveva fondato “Il Candido”), Carlo Manzoni, Nino Nutrizio, direttore del quotidiano “La Notte”, e i “due Enzi” (Biagi e Ferrari). A Guareschi, scrittore italiano tra i più venduti e letti al mondo (e, in assoluto, il più tradotto), la Rai dedicò pochi secondi; i giornali relegarono notizie e servizi nelle pagine interne.

Mentre «L’ Unità» si distinse per un commento velenoso, in tipico stile togliattiano (anche se il “Migliore”, di cui a suo tempo eran rimasti famosi gli attacchi di bile provocatigli proprio dalle vignette guareschiane, era sceso nella tomba già da quattro anni): scrisse – con toni ricordanti, singolarmente, le contumelie riservate, a suo tempo, al “rinnegato” Silone – di “melanconico tramonto dello scrittore che non era mai nato”.

Unica voce controcorrente, la «Gazzetta di Parma», che parlò (con un articolo, se non andiamo errati, di Alberto Mazzuca) di “Italia meschina e vile”. Siamo andati, poi, a ricontrollare l’ “Almanacco di Storia Illustrata” (pubblicazione uscita sino a pochi decenni fa, che ogni anno ripercorreva diffusamente i principali fatti dell’anno appena trascorso) per il 1968: incredibilmente, Guareschi non è citato neanche negli avvenimenti minori (cosa che, comunque, non stupisce più di tanto: trattandosi d’un periodico Mondadori, casa editrice che, per la sua primaria importanza, dopo la Liberazione iniziò ad essere fortemente controllata dal PCI).

Di Guareschi, comunque, voglio ricordare soprattutto due cose. Anzitutto il coraggio civile dimostrato nelle cause penali che lo videro contrapposto ( 1950- ’54) a personaggi come Luigi Einaudi e Alcide De Gasperi. Condannato, nel ’54, nel processo per la querela per diffamazione sporta nei suoi confronti da De Gasperi (per la nota questione delle presunte lettere di quest’ultimo agli Alleati del 1944, richiedenti un bombardamento di Roma per far crescere ulteriormente l’ostilità popolare al nazifascismo), lo scrittore accettò stoicamente la pena d’ un anno di carcere, rifiutando di presentare appello. “Qui non si tratta di riformare una sentenza, ma un costume… Accetto la condanna come accetterei un pugno in faccia: non mi interessa dimostrare che mi è stato dato ingiustamente”, commentò Guareschi: entrando così nella lista di quei giornalisti condannati, dalle leggi della Repubblica, al carcere per diffamazione a mezzo stampa, da Stanis Ruinas a Lino Jannuzzi, da Stefano Surace (la cui kafkiana odissea, per alcuni articoli scritti negli anni ’60, non s’è ancora conclusa) ad Alessandro Sallusti (condannato nel 2011, ma rapidamente graziato da Napolitano).

Pochi, forse, ricorderanno poi che Guareschi, nel 1963, realizzò un film documentario, “La rabbia”, a due mani: con …Pier Paolo Pasolini. Un’accoppiata a dir poco singolare: nata per una furbata del produttore Gastone Ferrante, che contò fortemente sul “richiamo di cassa” che poteva avere un film-denuncia della società italiana del tempo con la presenza di due autori tra loro così distanti, a prima vista antitetici (ma accomunati da vicende giudiziarie che avevan colpito l’opinione pubblica: per Guareschi, gli infortuni con Einaudi e De Gasperi, per Pasolini il processo, da poco concluso con una condanna, per il film “La ricotta”, accusato di “vilipendio alla religione dello Stato”, e altre vicende minori). I due accettarono, ma – come ricorda Carlo di Carlo, all’epoca aiutoregista di Pasolini, nel documentatissimo saggio dell’americano Barth David Schwartz “Pasolini Requiem” (Venezia, Marsilio, 1995) – pur lavorando alla moviola in uno stesso appartamento romano, preso in affitto dalla produzione, “non si salutavano neppure”.

Il film, specie a rivederlo ora, resta un singolare esempio di critica (da sinistra e da destra, diciamo semplificando) della società italiana: appena uscita dal grigiore clerical-atlantico-militarista degli anni ’50, ma stordita dall’improvviso tuffo nel boom economico e dalla conseguente ricerca – almeno da parte di certe fasce sociali – del piacere consumistico e della trasgressione a tutti i costi. La parte di Pasolini ripercorre in sostanza la vita italiana sullo sfondo della storia mondiale dal 1956 – l’ anno del XX Congresso, dell’Ungheria e di Suez – al ’63, col mito di Kennedy allo zenith (pochi mesi prima della sua tragica conclusione a Dallas) e il Centrosinistra organico ormai alle porte (a dicembre, nascerà il primo governo Moro-Nenni). Quella di Guareschi, stigmatizza, in campo internazionale, l’arrivismo e le tendenze imperialistiche e colonialistiche di certi stessi Paesi afro-asiatici in via d’uscita dalla miseria di sempre (vedi anzitutto la Cina, che all’epoca sta già guardando con cupidigia a vari Paesi dell’ Africa orientale); mentre in Italia, critica la corsa al consumismo sfrenato e a una liberalizzazione sessuale figlia non d’ un vero mutamento culturale, ma, il più delle volte, d’ imitazione dall’estero.

Due autori in realtà tra loro non così distanti: ambedue – pur da diverse posizioni culturali – contro il capitalismo sfrenato, l’alienazione e la mercificazione dell’uomo, la distruzione delle culture preesistenti in nome della nuova ideologia del livellamento consumistico e della massificazione. Pasolini, però, non ebbe il coraggio di proseguire coerentemente il progetto: quando ebbe visionato il film pronto, temendo in ultimo gli attacchi dell’establishment di sinistra per aver realizzato una pellicola insieme all’autore di “Don Camillo“, ritirò la firma e ne ostacolò la circolazione, definendosi vittima della propria “ingenuità” (su “Paese Sera”, il 19 aprile 1963, Franco Monicelli scriveva “dell’ingenuità di Pier Paolo Pasolini, che accetta la proposta di un produttore per un film fatto a mezzo con un fascista”…). Dopo appena 5 ( 5!) giorni nelle sale – 2 a Roma, 2 a Milano e 1 a Firenze – Warner’s, il distributore, usò come alibi la presenza di “materiale razzista” nella parte realizzata da Guareschi per togliere l’intero film dalla circolazione.

Negli anni ’90, “Il Borghese” ripubblicò il VHS de “La rabbia”: pochi anni fa, il film è tornato un attimo a circolare nelle sale: presentato però, disonestamente, con la sola parte di Pasolini.

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*Fabrizio Federici, che in questi ultimi mesi ha ripreso  a collaborare con la Consul Press, è un poliedrico giornalista iscritto all’albo dei pubblicisti fin dal 1983. Laureato in Scienze Politiche, si è dedicato e specializzato nei settori dell’integrazione europea, del dialogo interculturale e interrreligioso, con notevoli interessi anche nell’arte contemporanea, cooperando nel settore delle gallerie d’arte e dell’organizzazione di mostre ed eventi culturali in genere.