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La Grande Guerra e le Donne

Un male che caccia via un altro male.

Si è detto presto: riguarda la condizione sociale delle donne, questo sostenere che il male già affliggesse le loro esistenze.

Infatti, se si legge qualche tomo pieno di prosopopea o qualche stringato reportage giornalistico o brano di qualche saggio di emeriti studiosi come Freud, Evola, Marx, Weininger e così via, la donna era stata creata solo per sfornare pargoli, cucire calzini e stare zitta, in un angolo di focolare, in assenza dei mariti comandata dai suoceri o dal maschio di casa, come avveniva in Cina, com’è nei paesi più culturalmente trogloditi. Quando la guerra tolse loro mariti e figli, padri e parenti, le donne tirarono su le maniche ed asciugarono le lacrime, stravolte dal cambiamento che avrebbero non già gestito, ma subito ancora: si trattava non di mutare attività, quella loro richiesta di sostituire gli uomini in fabbrica o nei campi o negli uffici, ma di accettare il lavoro degli uomini in aggiunta al loro. Alcune si angosciarono, altre si schiantarono dalla fatica, ma, al tempo della Grande Guerra, quella del 1915, le donne e gli uomini avevano un’unica, amata parità: la Patria, che adoravano entrambi, così come morirono entrambi nel servirla .

E dunque lasciarono la vanga per potere lavorare in fabbrica, coltivando il campo quando potevano, oppure s’impegnarono negli uffici, dall’amministrazione ai bilanci, salirono sui tram per condurre al lavoro le altre o i cittadini rimasti, vecchi o inabili al conflitto, presero il posto sulla scrivania del marito imprenditore o professore, e per la maggior parte, sull’esempio, forse, della Nightingale, si fecero crocerossine, infermiere ,come la Parodi, infine si azzardarono a carichi più rischiosi, le portaordini, e le spie. Ne morirono tante, colpite per caso, mitragliate apposta. Si sa, in guerra si è tutti bestie, e se si guarda bene i fatti di essa, non esiste una guerra “amica”.

A casa rimasero i nonni ad accudire i bambini, mentre i ragazzi e le ragazze più grandicelli collaboravano ai lavori pur seguendo la scuola; qualcuno scappava, falsificando l’età, per andare al fronte come volontario. Non tutti erano d’accordo al lavoro sostitutivo delle donne, soprattutto i tradizionalisti estremi, che sostenevano “immorale ed anormale questa  condotta”, tanto è vero che le prime tramviere furono reclutate fra le prostitute, (Gibelli) perchè, quelle “perbene” dovevano filare la lana a casa, e semmai passare lacrime e preghiere inginocchiate in chiesa. Ma la maggior parte degli uomini era dotato di logica ed accettò l’emergenza.

Cambiò allora il modo di confrontarsi con gli uomini, a fronte alta, con più sicurezza, senza più quell’inferiorità fatta sul nulla e sui tromboni reboanti da duemila anni di indoeuropeo e cattolico immiserimento maschilista, cambiò la moda, togliendo crinoline e doppi teli, scorciando orli per necessità lavorative, infilando pantaloni e stivali per non avere ostacoli in fabbrica o sui campi, e via i busti, via i fronzoli, i cappelli piumati e stracarichi di fiori e frutti finti. Con i capelli più corti, legati semplicemente o a chignon, a trecce fissate sulla sommità del capo come una corona, a segno di una nuova importanza, di un’amara dolorosa situazione portata come un’iniziazione alla libertà, perchè Dio ha fatto uguali nel valore uomini e donne. Fra colleghe ci si vide anche a sera per riunirsi, qualche lavoratrice iniziò a fumare il sigaro, a bere un bicchierino, caricò camioncini per rifornire intorno chi aveva necessità di alimentari ed altro, si sedette ad un tavolinetto ad un angolo di strada per scrivere le lettere per conto di altre donne o per se stessa, per non far sentire ai cari lontani il tormento, l’angoscia per il dolore e la morte, la paura di non essere pensati, amati, privi di certezza e di futuro: anche questa è lotta contro il male. La donna imparò cos’è l’autodeterminazione, la solitudine – se essere senza uomini può esserlo – costruttiva, cominciò a chiedersi che strada professionale potrebbe o avrebbe potuto intraprendere.

La guerra, finendo, fece ritornare le cose come prima: tutte a casa, alla spicciolata, perchè vi furono resistenze da superare, e si trovò un accordo: lavorare in caso di necessità, cioè vedove, donne sole senza sostegno economico. Era già tanto, anche se molti uomini le dileggiavano o le consideravano “traviate”, fermi nel concetto d’acciaio indoeuropeo e clericale dell’inferiorità, dell’unica sorte procreatrice e di sottomissione. Qualche pensatore scrisse perfino che erano “delinquenti”, in quanto i nervi deboli tipici del loro sesso le facevano preda di malacondotta.

A casa, con un mucchio di lodi e di encomi, il Governo parlò a voce alta, ma non concesse loro il diritto di voto. Non si capì il crudele spicchio di lezione della vita. Ancora non si riusciva a raggiungere la cultura cristiana, che vede le donne pari agli uomini con diritti e doveri eguali e diversi, ancora, – e purtroppo è così – si studia la storia pensando a chi è il primo, chi il più grande, chi sta più in alto, senza badare alle qualità umane, al carattere delle Nazioni e dei personaggi , alla collaborazione, all’amore reciproco. Speriamo che, per raggiungere questa meta, questa età dell’oro, non ci vogliano ancora conflitti.

Marilù Giannone