“Uccidete lo Zar”: un libro di Luciano Garibaldi
“Uccidete lo Zar”- il parricidio che cambiò la Russia
La guerra civile tra bianchi e rossi fu ferocissima, perciò il «punto di riferimento» andava decapitato come Luigi XVI, sennò la rivoluzione, come quella giacobina, sarebbe stata monca: le rivoluzioni ideologiche non possono fare a meno del parricidio.
Un libro di LUCIANO GARIIBALDI, analizzato da RINO CAMILLERI*
La loro prigionia a Ekaterinburg ricorda, per laidezza, quella di Luigi XVI, di sua moglie Maria Antonietta e dei loro figlioletti nelle mani dei sanculotti parigini. Le granduchesse Romanov, le delicate quattro figlie femmine di Nicola II e della zarina Aleksandra, erano costrette a fare i loro bisogni sotto gli occhi delle sghignazzanti guardie bolsceviche, puzzolenti di vodka e tabacco da pochi copechi.
Nel centenario dell’eccidio, avvenuto il 17 luglio 1918, un bel libro di Luciano Garibaldi (Uccidete lo Zar! Lo sterminio dei Romanov, Gingko Edizioni, pp. 94, €. 14) ne ripercorre le vicende fino ai giorni nostri. Sì, perché sul luogo della strage oggi sorge il votivo «Tempio del Sangue Versato», diventato meta di pellegrinaggi da tutto il Paese. Fu l’allora presidente Boris Eltsin a chiudere per sempre quella sanguinosa pagina facendo riportare con tutti gli onori le spoglie dei Romanov nella cattedrale di San Pietroburgo intitolata ai Santi Pietro e Paolo, dove riposano tutti gli Zar russi da Pietro il Grande in poi.
Quella notte, nella cantina di casa Ipatev a Ekaterinburg negli Urali, l’ultimo Zar fu assassinato a sangue freddo insieme a tutta la sua famiglia, compreso lo zarevic tredicenne Alekseij, che il padre teneva in braccio perché affetto da emofilia. Con loro furono uccisi il cuoco, due domestici e il medico. Nel 2000, nella cattedrale di Mosca dedicata al Salvatore, i vescovi russi all’unanimità canonizzarono quei poveri morti, perché martiri della fede. Con loro anche l’attendente Alekseij Trupp che, sebbene tedesco e battezzato luterano, aveva voluto seguire lo Zar fino alla morte.
L’ordine venne da Lenin in persona. L’Armata Bianca era alle porte di Ekaterinburg e bisognava evitare che riuscisse a liberare i prigionieri. L’Izvetsija, il giornale dei bolscevichi, diramò la notizia dell’avvenuta esecuzione e, come previsto, fu una mazzata per il morale dei «bianchi», che l’anno dopo vennero definitivamente sconfitti. Era stato Kerenskij, capo della Duma, a far trasferire la famiglia imperiale a Tobolsk in Siberia per evitare che i bolscevichi attaccassero la loro residenza di Zarskoje Selo. Lo Zar aveva 49 anni, la zarina 45, lo zarevic tredici, Olga 21, Tatiana 20, Marija 18, Anastasia 16.
Nessun governo europeo mosse un dito per i Romanov, nemmeno i reali inglesi con cui erano strettamente imparentati. Il 25 ottobre (secondo il calendario russo) 1917 Lenin prese il potere con un golpe a Pietrogrado (che aveva mutato nome, dopo aver perso il «San» troppo religioso, perché «-burgo» era troppo tedesco) e il primo pensiero fu per lo Zar, che venne spostato a Ekaterinbug e sorvegliato a vista dai bolscevichi locali. I quali addirittura tolsero a Nicola II i libri che aveva portato con sé. Nicola aveva abdicato a favore del fratello Mikajl Aleksandrovic, ma questi aveva rinunciato quasi subito, perché il potere era ormai in mano alla Duma. Così, la Russia era diventata di fatto una repubblica e l’ultimo Zar un punto di riferimento per i «bianchi».
La guerra civile tra bianchi e rossi fu ferocissima, perciò il «punto di riferimento» andava decapitato come Luigi XVI, sennò la rivoluzione, come quella giacobina, sarebbe stata monca: le rivoluzioni ideologiche non possono fare a meno del parricidio. Tutta la famiglia andava eliminata, perché anche un solo sopravvissuto sarebbe stato lo Zar o la Zarina che i bianchi speravano di rimettere sul trono imperiale. Dice Luciano Garibaldi: «La canonizzazione dei Romanov era stata sollecitata dallo stesso Putin, riavvicinatosi alla fede nel ricordo del suo padre spirituale, l’archimandrita Tichon del monastero di Sretenskij, che in epoca sovietica era stato trasformato in commissariato di polizia, ma oggi, splendidamente restaurato, è tornato alla sua storica missione di fede».
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* Rino Camilleri, saggista e romanziere nato a Cianciana in provincia di Agrigento nel 1950, è uno dei più noti apologeti italiani è l’autore di questo pezzo trasmessoci in Redazione dal nostro amico Massimo Mariotti. L’articolo è già stato pubblicato martedì 12 novembre su “LA NUOVA BUSSOLA QUOTIDIANA”, editata a Monza e diretta da Riccardo Cascioli. La Testata è portata avanti da un gruppo di giornalisti cattolici, accomunati dalla passione per la fede, che vogliono offrire una Bussola “per orientarsi tra le notizie del giorno”, tentando di offrire una prospettiva cattolica nel giudicare i fatti: certi che l’esperienza cristiana è in grado di abbracciare e rispettare pienamente la dignità dell’uomo.