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I tre battiti di mani dei ragazzi di San Patrignano

Sabato 23 marzo, con gli amici del Lions Club Milano Marittima 100 sono stato ospite dei ragazzi della Comunità di San Patrignano, proprio 40 anni fa fondata, con tanta ostinazione e speranza, da Vincenzo Muccioli sulle dolci colline riminesi per recuperare tanti giovani, vittime della droga.
Con profonda, sincera emozione ne scrivo adesso come una delle più belle, positive esperienze della mia vita: Muccioli, persona con i suoi difetti e pregi, forse anche discutibile al pari di tutti noi, perché nessuno, santi compresi, è senza nei, ha realizzato fermamente un progetto, finalizzato al bene, comune e individuale, restituendo, così, alla società, alla dignità personale tante vite, tante storie, ognuna con un trascorso, terribile percorso di rabbia, protesta, degrado, fuga dalla realtà attraverso l’apparente, devastante evasione della droga.

Lodevole il bilancio della comunità riminese: oltre il 72% dei giovani accolti è strappato alla tossicodipendenza, poco più di 1300 sono attualmente gli ospiti con un costante ricambio tra entrate e uscite ovvero tra esistenze salvate ed esistenze appena soccorse, tutto questo attraverso un soggiorno, chiamiamolo così, che può durare sin 4 anni.
Qui si scuotono la coscienza, la mente, il corpo attraverso il lavoro e la vita comunitaria, quindi la relazione tra la propria esperienza e quella altrui, non tanto per dimenticare ciò che è stato, quanto, soprattutto, per capire come tutto sia avvenuto: qui si compie un viaggio attivo, cosciente e fattivo dentro se stessi e gli altri perché anche nella problematica della tossicodipendenza nessuna vittima è solo un’isola a se stante, ma, invece, deve riconoscersi parte di un arcipelago, di un’unione di esperienza e di lotta; qui si fa formazione lavorativa, s’impara un lavoro, si studia per nuove conoscenze, insomma si sale su un nuovo treno dopo aver provato la disperazione di aver perso, forse, l’ultimo; qui gradualmente si contribuisce a ricostruire i rapporti familiari, usurati dalla vergogna di un figlio drogato, ma ancora di più dall’indifferenza cinica, crudele di una società che troppo spesso gira il volto dall’altra parte per non vedere il gorgo sociale della tossicodipendenza.

Però, per capire davvero la presenza, l’opera della Comunità di Sanpa, così simpaticamente e in breve viene pure chiamata, per intenderne appieno la sua organizzazione, gestione, le sue stesse regole, anche ferree, bisogna assolutamente trascorrere una giornata con i suoi ragazzi che accolgono, guidano i visitatori alle tante attività, agricole e artigianali, ai tanti aspetti della loro realtà comunitaria.
Sono giovani che, fuori dalla circostanza, ti accolgono con un sorriso schietto, ti stringono vigorosamente la mano a differenza dei soliti incontri, perlopiù con strette mollicce e scialbe, ma ancora di più sono giovani che ti guardano fisso negli occhi senza mai abbassare o distogliere lo sguardo.
Questi loro sguardi, consapevoli e pure fieri, hanno colpito la mia piccolezza: i ragazzi di Sanpa mettono i loro occhi in quelli altrui con uno spirito, una bontà che ricorda le parole “Io metto i miei occhi nei vostri occhi”, rivolte da Papa Giovanni XXIII ai detenuti nella sua visita del 26 dicembre 1958 al carcere di Regina Coeli di Roma.
Stamani, mentre scrivo questo pezzo, mi piace pensare che questa volta siano stati i giovani “Sanpini”, così li voglio affettuosamente appellare, a riporre il loro sguardo nel mio, forse carcerato da pregiudizi, paure, insensate ostilità.

Ieri, in lungo e in largo, sono stato guidato alla scoperta di San Patrignano, ne ho apprezzato l’impegno, ho compreso quanto sia utile aiutarla economicamente, poco o molto che sia, considerato che su un costo di esercizio di 40 milioni di euro solo 5 milioni provengono dall’impegno della nota famiglia milanese Moratti e il resto deve recuperarsi dalle attività interne e, poi, dalle elargizioni.
Un sosta alla visita solo al momento del pranzo, sete e appetito non mancavano dopo la lunga camminata, ma io e gli amici del Lions Club siamo stati avvertiti che prima dell’inizio del pranzo avremmo potuto solo dissetarci con l’acqua delle brocche pronte sul tavolo, insomma che il pranzo sarebbe iniziato soltanto dopo che il responsabile della mensa avesse battuto tre volte le mani per farci alzare in piedi per un breve, assorto momento di raccoglimento, quasi a scuoterci dal torpore della monotonia quotidiana.
Così è stato, dunque in allegria abbiamo consumato il buon cibo delle cucine di Sanpa in una sorta di vera, reciproca comunione di pane e di vino: il primo soffice e integrale nella sua mollica, il secondo ottimo sangiovese corposo, chiamato giustamente “Aulente” ovvero profumato, perché davvero odoroso del lavoro dei giovani vignaioli che lo producono e vendono in giro per il mondo.
A lungo ho pensato con quali fotografie illustrare questo articolo, poi ho deciso per un’immagine del villaggio ed una della splendida cantina di San Patrignano dove il vino matura nelle botti e nelle barrique.
E proprio un calice di soave “Aulente” vorrei ancora levare in augurio ai giovani di Sanpa, alla loro comunità, della quale mai potrò dimenticare il messaggio di quei tre brevi, ma intensi battiti di mani.

 


Franco D'Emilio

Storico, narratore, una lunga carriera da funzionario tecnico scientifico nell'Amministrazione del Ministero per i beni e le atiività culturali