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Libia e Italia: è tempo di essere franchi, fare chiarezza anche sul colonialismo italiano

Durante gli anni del governo Berlusconi, in occasione delle visite del Colonnello Gheddafi a Roma, si è detto delle atrocità compiute in Libia, a partire dal settembre 1911, quando gli italiani sbarcarono per liberare i libici (osservazione geopolitica vista da italiani, del Regno d’Italia, e degli anni dei governi giolittiani). Libia, allora, infatti divisa in Tripolitania e Cirenaica, ancora sotto il giogo dei turchi ottomani.
Una copertina della “Domenica del Corriere” del tempo illustra un reparto di Ascari eritrei, quindi regolari del Regio esercito italiano, all’assalto con la baionetta contro le trincee degli ottomani. Gli eritrei affiliati a Roma combattevano per l’Italia. A Losanna, nel 1912, venne sancita la pace. L’Italia si annetteva le due provincie dell’impero turco-ottomano, e le isole dell’Egeo, il Dodecaneso. Poi, “fatta” la Libia, anche l’annessione del Fezzan, in accordo con i francesi, per la Grande Libia, una volta portato il confine verso il massiccio del Tibesti, la “Striscia Aozou”. Tutti accordi avvenuti ovviamente sotto il “respiro” delle potenze del Concerto europeo. Anche in Francia infatti, correnti di pensiero erano a favore della Libia italiana manu militari per mettere anche fine alle scorrerie barbaresche.
Parigi del resto ci aveva anticipato: nel 1880, due anni dopo il congresso di Berlino del 1878, passò all’occupazione della Tunisia, contro il bey di Tunisi.

In quel Paese gli italiani, bene organizzati e classe dirigente economica e culturale, erano in rapporto di circa 1 a 4 con i francesi; organizzati in Reggenza italiana di Tunisi, con eccellenti Logge massoniche, ricche di personalità, elementi di tutte le arti e mestieri (medici e muratori, farmacisti e notai, agricoltori e commercianti). Ancora una volta, il solito vecchio, e purtroppo ancora attuale, adagio del complesso di inferiorità dovuto a ben vedere alla palla al piede dei cattolici, durante le fasi delle guerre d’indipendenza del Regno di Sardegna prima e d’Italia poi, grazie al cinquantennio circa di non expedit papale – in Latino, quanto agli inizi del XXI secolo, a Roma ancora una voce, bonaria ma devastante ai fini della vita politica della Repubblica italiana: semo de Roma volemose bene damose da fà (di Giovanni Paolo II) in romanaccio. E la capitale però da allora, vedetela un po’ oggi, com’è ridotta, roba da Terzo Mondo senza se e senza ma e senza risultati e applicazione alcuna del damose da fà.

Tornando a noi, dai corsi e ricorsi storici, dalle Mani nette a Berlino 1878, alla Manomorta ecclesiastica, alla Mano Nera delle prime organizzazioni criminali nelle Americhe, alle Mani pulite e alle attuali Mani tese, tutto ritorna alla presunta inferiorità dell’Italia, per i sempre pronti a quell’uso del cilicio, indossato or ora anche dai catto-comunisti e oggi da estreme loro propaggini odierne e indefinibili …
Le foto, esibite durante gli incontri del Trattato d’Amicizia tra il popolo libico e l’italiano, mostravano scene simili a quelle avvenute 50 anni prima del 1911, cioè nel 1861 e negli anni a seguire, nel Sud Italia. Non a caso, la conquista della Libia avvenne nel 1° cinquantenario dell’Unità nazionale. L’emorragia di uomini, donne e nuclei familiari italiani verso la “Merica”, come allora si diceva nella vulgata, era senza limiti.
Manodopera, spesso anche qualificata, andava a formare le nuove “parlate” degli emigrati nel Nord America: le Italy al Nord, negli Usa; nel Sud America nei grandi quartieri di capitali chiamati “Genova”, “Napoli” di lingua spagnola, e in Brasile le parlate dei cosiddetti “Talian” con sfumature portoghesi.
Atrocità, migliaia e migliaia di vittime, sempre vedute quando popoli si incontrano nello scontro (come tra piemontesi e calabresi).

Ma, allora, c’è da chiedersi perché questa mono distorsione degli eccidi? Ovvero, perché sempre la coscienza italiana ne porta il peso sulle spalle e le cosiddette stimmate così care, come il cilicio, ai cattolici?
Se pensiamo che la conquista militare del Sud Italia ha visto molti più eccidi che in Libia, molta più resistenza e i morti son stati migliaia e migliaia in più? Solo l’annessione dell’Albania avvenne senza spargimenti di sangue durante quella breve, certo effimera, ma imponente espansione dei confini della patria avvenuta tra il 1911 e il 1939. Dai 250mila chilometri quadrati circa del Regno d’Italia ante guerra (24 maggio 1915) si giunse fino a sfiorare i 4 milioni prima del 22 maggio 1939, firma del Patto d’Acciaio (con i crucchi, roba da cretini! Come l’attuale globalizzazione qualcuno ci tradisce, popolo italiano, e ci troviamo alleati con il peggio). Ma, non è appunto, il macabro bilancio, il suo sventolarlo, di qua e di là, a destra e a manca, come litania di morte, come sudario fotografico, a dover porre l’attenzione a noi eredi di quell’avventura, eredi sì italiani, ma altrettanto libici, eritrei, somali, abissini, e in Europa, slavi, tedeschi-sudtirolesi e ladini, albanesi, e montenegrini, o greci delle isole?
È per il loro futuro di popoli capaci di vedere il proprio avvenire che tutti debbono far rinascere i legami di progresso e di sviluppo interrotti dalle tragedie delle guerre, anche, soprattutto allora, di quelle fatte da noi italiani! Con tutte le nostre responsabilità! La storia si decompone e si ricompone; ma è proprio nella sua struttura interna psicologica, nella ricorrenza del ricordo, nella memoria, che si chiude un’epoca di lutti e si apre un’età di crescita e sviluppo.

Come è stato, in questi centenari, ricorrenze, e di cinquantenario in cinquantenario, l’incontro tra l’Italia ricomposta dal suo mosaico di Stati e città Stato pre-unitari – ben oltre una ventina – e le antiche provincie del Nord Africa, dagli italiani “fatta Una” da più provincie ottomane e ribattezzata col favore dei nostri vicini amici libici, appunto Libia, tanto antica quanto moderna.
Ci hanno distrutto due ricorrenze in una, tanto i 150 anni di Unità nazionale dal 1861, quanto il centenario della guerra di Libia e finalmente il trattato d’Amicizia tra il popolo libico e l’italiano premessa di prosperità comune; quindi nel 2011 ricorrevano i 150 d’Italia Una e i cento anni di legami riannodati dai tempi di Leptis Magna ossia 1911-2011 con la Libia. A Tripoli a sostegno della pace e del non intervento dei cosiddetto “volenterosi” scesero in piazza ben 1.700.000 persone su poco più di 6 milioni di libici, come se in Italia vedessimo in piazza circa 17 milioni di italiani a difendere la patria dalle bombe degli Alleati volenterosi.
Il bilancio dunque, è il Nadir della coscienza di nazione “degli italiani” che ha portato non degne circostanze nell’area di quel respiro di coscienza italiana, di relazioni geopolitiche culturali fatte di trame e relazioni di lunga durata, incontri e scontri. Libia, cara vecchia Libia, prima di quell’intervento dei “volenterosi” per infrastrutture civili e industriali e prodotto interno e pro-capite era un tesoro di crescita civile. Paese avanzato, e di tutto rispetto, non solo nel continente Africa ma nel bacino dell’antico Mare Nostrum, proprio e nonostante le tragedie belliche di questi ultimi cent’anni, Libia tendi ancora la mano alla tua vicina amica Italia.

 

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