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A colloquio con Alessandro Bernardini sulla forza liberatoria della recitazione

IL CARATTERE D’AUTENTICITÀ DI UN ATTORE AFFEZIONATO AL LEGAME TRA INTERPRETAZIONE
ED ESPERIENZA DI VITA

Una conversazione con Massimiliano Serriello

Le esperienze di vita, anche quelle da detenuto di Rebibbia coinvolto nell’arte della recitazione dalla sensibile ed energica Valentina Esposito, fondatrice della factory Fort Apache Cinema Teatro, costituiscono davvero un bagaglio nodale per Alessandro Bernardini. Dietro il verso roco, un po’ alla Califano, i lineamenti vigorosi, l’aspetto da duro, destinato, in apparenza, a vestire, più ché altro, le parti delle figure di fianco, si cela, invece, un ragazzo buono, generoso, dal cuore d’oro, deciso al contempo ad acquisire sempre più padronanza della psicotecnica per animare l’universo superficiale ed esteriore dei segni di ammicco e degli ovvi colpi di gomito con la profondità della dimensione interiore. Che deriva dal cervello, dal cuore, dalle viscere.
Ed è sinonimo, pure, di libertà. Indispensabile per sopperire al gap della distanza dal mondo che, mentre i peccati sono scontati tra quattro mura sinistre, prosegue imperterrito per la propria strada. E rappresenta un’irrinunciabile ragione d’orgoglio, una volta inserito nel “mucchio selvaggio” della Settima Arte, in virtù dei risultati raggiunti. Non sulla scorta di sfide perentorie, sbandierate ai quattro venti, né di pose ed elevazioni compiaciute della voce, facile preda dell’infeconda brama dell’iperbole, bensì grazie al dono dell’indispensabile umiltà. Che lo spinge ad anteporre al vacuo frastuono degli accenti la natura sobria ed essenziale dei semitoni. Ad Alessandro, non gli interessa, perciò, fendere l’aria con i gesti, o battere i pugni sul tavolo con superflue insistenze per poi farsi largo a spallate. Sa stare, piuttosto, al suo posto. Consapevole del propizio, quantunque fortuito, legame tra le peculiari forme somatiche e la capacità di scrivere con la luce ad appannaggio dei talentuosi registi che lo hanno diretto finora. Con il compianto Claudio Caligari sugli scudi. In Non essere cattivo, insieme al valore sempiterno e anch’esso liberatorio dell’umorismo, dispiegato nell’acuminato sarcasmo del gergo romanesco, alberga la poesia della strada. La stessa che è riuscita ad appaiare il gusto del cinema plebeo con i bagliori visionari di quello intellettuale. Basti pensare a capolavori come Rusty il selvaggio di Francis Ford Coppola.
Anche se Accattone, opera prima del poliedrico ed erudito Pier Paolo Pasolini, resta il nume tutelare per antonomasia. Allora la fotogenia di Alessandro si è potuta congiungere con la spontaneità frammista all’inopinata destrezza dei gesti introspettivi. Tanto cari ad Anton Pavlovič Čechov. Il teatro, per l’appunto, rimane la sua più grande passione. A motivarne l’istintiva preferenza, dovuta certamente al reinserimento sociale congiunto alla relativa consapevolezza di saper trarre linfa dalla sfera delle sensazioni personali, è il contatto col pubblico. Nonché la gioia di convertire l’altalena di scoramento ed entusiasmo del passato in una base costruttiva, aliena ai vani voli pindarici dei neofiti.
Il piglio cordiale con cui risponde alle domande del sottoscritto, seduto insieme a lui sulle sedie di legno di un bar nei pressi di viale Regina Margherita, vicino all’Anica, si va ad amalgamare ai palpiti dell’intenerimento quando il bandolo della conversazione scivola sulle vicende di amore, odio, caduta e rinascita recuperate dai meandri della mente per riportarle sulle tavole del palcoscenico. 

 

Lì l’assemblaggio dello spirito trascende le smargiassate dei bulli di periferia e la slavata alterigia degli attori dal sangue blu attenti solo ad accompagnarsi ai presunti parigrado. Per questioni di censo. Ai limiti del ridicolo involontario. Quelle categorie, Alessandro, le lascia cuocere nel loro brodo.
L’attaccamento protettivo agli amici del Quadraro attiene, invece, al sano senso di appartenenza. Rinvigorito dalla schiettezza della geografia emozionale che guida chiunque si guardi bene dal rinnegare la fondatezza preziosa delle radici. All’ossessività esagerata per le tecniche di straniamento, contemplate dal Metodo Stanislavskij e dall’Actors Studio di Lee Strasberg, replica con i modi spigliati connessi all’impiego della memoria retroattiva. La riconoscenza, in tal senso, nei riguardi di Valentina Esposito fa bene all’anima.
Lo slancio che lo accompagna tutte le volte che il linguaggio scenico apre nuove prospettive è una cura contro la monotonia degli atteggiamenti divistici destinati a finire in una bolla di sapone. Per toccare i massimi interrogativi dell’esistenza, nella flebile seppur legittima speranza di reperire risposte ampie ed esaustive, non serve strabuzzare gli occhi e fingere fremiti o trasalimenti con magniloquente trasporto. Cum grano salis. L’adagio latino insegna molto al riguardo.

Il discernimento accompagnato dalla sapienza risiede nella vigoria comunicativa di uno sguardo. L’intesa stabilita con Francesco Acquaroli, il Samurai di Suburra – La serie, sigilla l’accordo di consonanze ed estraneità sviscerato lontano dall’insostenibile peso del giudizio e, ancor peggio, del pregiudizio. Non ne tesse l’elogio per piaggeria. Si avverte, in maniera palpabile, il motore dell’affetto. Estraneo agli esuberi di aggettivi e ai soliti panegirici a buon mercato.
Ed è pressoché impossibile non dargli ragione. Ad Acquaroli, nei panni eleganti, ma pure scomodi, dell’economista Mario Draghi, Presidente della Banca centrale europea, in Adults in the Room, diretto dal vecchio e indomabile leone greco Costa-Gavras, bastano poche occhiate per comunicare più della superflua logorrea degli oratori da strapazzo. 

Raggiungere il diapason alla sua stregua, nel ruolo degli uomini di ghiaccio, con palesi richiami shakespeariani, sembrerebbe, a botta calda, un’impresa inattuabile.  Conforme, al limite, all’avventuroso Ethan Hunt incarnato da Tom Cruise. Avvezzo ad arrampicarsi in cima allo strapiombo. Nondimeno Alessandro conosce l’estrema punta di spina del dolore, le vertigini dello smarrimento momentaneo, la ferma volontà di riscatto, rinsaldata dalla fede nella Vergine Maria, non per mietere allori su allori, al contrario per infondere fiducia alle persone schiave dei disaccordi insoluti. Capire chi siamo, almeno per i filosofi antichi, equivale a tenerci ben distanti dall’abisso.
A ogni buon conto è giusto confrontarsi con i demoni privati per abbracciare i migliori angeli della nostra indole
caldeggiati dal 16º presidente degli Stati Uniti, Abraham Lincoln. Facendo venire a galla l’emblema del Rischio e della Minaccia ed esautorare, in seguito, l’incubo con gli strumenti della fabbrica dei sogni. L’unica, al pari della parola scritta, che, secondo il pionieristico regista americano David Wark Griffith, esibiva il lato oscuro del Male per mettere in luce il lato luminoso del Bene.

***** ***** ***** 

1). D /Non essere cattivo” costituisce il film testamentario di un grandissimo regista, Claudio Caligari (nella foto), che non lasciava nulla al caso. Come sei finito a recitare in un cast composto perlopiù da attori giovani, se non tenerelli, nei panni dei ragazzi di vita d’ascendenza pasoliniana, senza avvertire l’imbarazzo del divario generazionale?
R /
C’è un retroscena curioso dietro. Il cast di “Non essere cattivo” era già al completo. A una settimana dall’inizio delle riprese, però, l’attore che doveva interpretare il personaggio del “Brutto” è stato rimosso dall’incarico. Credo, se non m’inganno, per delle incomprensioni sorte all’ultimo minuto. Visto che era troppo tardi per organizzare di nuovo un casting, alla ricerca dell’attore per il ruolo rimasto vacante, hanno approfittato del fatto che a fianco della Kimerafilm, la Società di produzione di “Non essere cattivo“, ci fossero gli studi della Cattleya. Dove sono andati a pescare, con il consenso di chi dovere, il filmato del mio provino per la versione cinematografica di “Suburra“, nella parte del braccio destro di Samurai, ed è così che Caligari, con l’approvazione di Valerio Mastandrea, mi ha scelto per impersonare il “Brutto”. A dispetto della differenza d’età con gli altri attori. 

 

2). D / Mastandrea (nella foto insieme ad Alessandro) ci ha visto giusto anche nell’intuire le tue doti di palleggiatore. Tra parentesi: complimenti; je l’ammolli, come si dice a Roma. La sequenza della partita di calcetto in spiaggia è una fragrante pagina di cinema che va ad apparentare Non essere cattivo agli schietti ed eruditi apologhi sul proletariato di Ken Loach. È, insomma, un film di strada che funziona pure sulla sabbia. Com’è nata quella scena, impreziosita altresì da un richiamo citazionistico che ti riguarda da vicino?
R / Valerio mi ha domandato se ero bravo a palleggiare. L’ho subito tranquillizzato. Me la cavo piuttosto bene ed è stato assai svelto Caligari nel cogliere questa mia capacità insieme ad alcune reazioni spontanee del sottoscritto e degli altri attori coinvolti. Invece, quando mi metto la sciarpa attorno alla testa, fasciando le orecchie, per proteggerle dal freddo, anche se in realtà faceva un gran caldo, quello è un omaggio ad Alberto Sordi nel cult “I vitelloni“. Caligari ci teneva molto che evocassi, in maniera naturale, un capolavoro rimasto nella storia del nostro cinema.

3). D / Caligari, purtroppo, ha coniugato la sua intensa ma breve vita all’imperfetto prima della fine del film. Nonostante le difficoltà, dovute all’impietosa malattia, aveva il polso della situazione sul set? 
R /
Assolutamente sì. L’ultima parola era sempre la sua. Poco prima della fine fu costretto dividersi tra il set a Ostia e Bologna, dove gli prestarono le ultime cure. Aveva bisogno di qualcuno che lo aiutasse negli spostamenti, anche quelli più semplici ed elementari, dopo un po’, perché era molto provato dal tumore, ahimè, galoppante, ma teneva lo stesso ben salda nelle mani le chiavi della trama e del linguaggio delle immagini. Ha speso ogni fibra del suo essere per imprimervi completamente il sigillo della propria preziosa tenuta stilistica. Fino all’ultimo.

4). D / Non è arrivato, tuttavia, alla fase di montaggio.
R /
Eh… già. Tant’è che la scena del funerale della nipotina di Cesare non compare. Ed è un vero peccato, a mio parere. Era una scena a cui Caligari teneva molto.

5). D / Concordo. Sarebbe stato il proseguimento ideale dell’amorevole rassicurazione proprio sul suddetto funerale che Vittorio alias Alessandro Borghi fa con vivido pathos alla mamma di Cesare, dinanzi all’atroce notizia della dipartita della fragile ed eterea bimba. Per quanto riguarda il tuo impegno nella compagnia teatrale Fort Apache, sei riuscito a convertire la difficoltà in opportunità?
R /
Si chiama resilienza, in psicologia. Per fronteggiare con spirito ottimale eventi che altrimenti sarebbero destabilizzanti e tradurre, come dici tu, la rabbia repressa, comunque infruttifera, in benzina positiva. Energia interiore. Ho imparato questo termine quando sono andato in Sardegna dove tengono il Festival della Resilienza, appunto. La rabbia dei carcerati che scoprono l’arte della recitazione viene così usata in maniera costruttiva. Per tirar fuori qualcosa di considerevole dal proprio mondo interiore e immergersi nel personaggio imprimendovi un timbro di verità che risiede nel profondo. Quando mi sono reso conto di riuscire a portare a termine compiti che prima mi sembravano proibitivi, grazie soprattutto al supporto dei registi e degli addetti ai lavori, ho capito di aver superato un grave momento di difficoltà nel modo giusto. Anche perché gli incitamenti mi sono arrivati da persone che solitamente non fanno certo tanti complimenti. Mi è servito per acquisire consapevolezza.

6). D / I processi d’incarnazione e reviviscenza rappresentano l’asse portante del lavoro dell’attore sul personaggio elaborato da Konstantin Sergeevič Stanislavskij col suo celebre Metodo. Chi ti ha aiutato di più ad approfondire un’analisi così rigorosa ed eminentemente evocativa?
R /
È stata Valentina Esposito a farmi aderire al personaggio nella rappresentazione teatrale “Famiglia” attraverso il filtro dell’esperienza. Si tratta di un metodo che lei come regista, per altro bravissima, mette in pratica con ogni interprete per tirar fuori la giusta autenticità. Necessaria per calarsi in determinati ruoli. Contrassegnati da sentimenti ed emozioni che hanno caratterizzato anche dei momenti indicativi della vita. Fuori del palcoscenico.

7). D / Nello spettacolo “Famiglia” il tuo personaggio prende il largo per gli USA a causa degli insanabili rancori col padre. Valentina Esposito ti ha quindi spinto a trarre linfa dalle incomprensioni passate per dare ulteriore forza significante a ciò che viene definita la «ferocia degli affetti»?
R /
Il rapporto tra padre e figlio è quasi sempre conflittuale. A una determinata età, nel momento finale della crescita adolescenziale, lo scontro risulta praticamente inevitabile. Direi addirittura naturale. Ho preso spunto, grazie al suo preziosissimo stimolo, da alcuni episodi della mia vita in cui mi sono sentito come il personaggio in questione. Ed è stato perciò come avere di nuovo davanti mio padre con alcuni elementi nuovi, frutto di quella che tu stesso hai chiamato reviviscenza, che sono stati utili per dare attendibilità all’interpretazione e all’intera messa in scena. Contrassegnata in tutto e per tutto dal sentimento della verità. Ripescato dal passato per approdare al presente. Il ricordo della rabbia, ma anche della tenerezza, mi è servito per rivivere attimi decisivi e ricercare il mio io mettendolo a disposizione di una rappresentazione mentale vera in tutto e per tutto.

8). D / Onore al merito a Valentina Esposito (nella foto) per aver rintracciato l’avvenimento chiave del tuo passato e impreziosito di conseguenza la dinamica interiore del personaggio. Il contatto diretto col pubblico relativo al teatro, con tutto il rispetto per il cinema, ti dà una carica in più?
R /
Lavorando in teatro, è necessario stare sempre dentro la storia e perciò dentro il personaggio che s’interpreta. Dall’inizio alla fine dello spettacolo. Non ci sono momenti di pausa nei quali hai modo di ripensare alla scena dal di fuori e valutarla quindi con una certa distanza. Quando si prende una papera nel cinema, la sequenza può essere ripetuta. In teatro, invece, l’errore, causato magari da un’esitazione, comunque comprensibile, è sopperito con la prontezza di riflessi e l’intesa che si viene a creare con i colleghi. Il pubblico, il più delle volte, non si accorge di nulla e l’immedesimazione costante nella trama agevola la capacità di cogliere la palla al balzo senza far avvertire affatto il peso negativo di uno sbaglio. 

9). D / Si crea una sorta di fratellanza che cementa pure la mutua solidarietà reciproca.
R /
Non c’è dubbio. È come con la resilienza: l’errore, invece di accrescere il disagio, diviene uno stimolo a far meglio. Infatti spesso gli inevitabili abbagli, che capitano comunque solo qualche volta, rafforzano l’intesa tra attori e attrici ed esprimono in modo pure più profondo, rispetto a una versione perfetta del copione, il senso della storia rappresentata sul palcoscenico. Il pubblico lo senti. Senti i rumori, gli umori. E gli spettatori avvertono i nostri slanci, le nostre lacrime, la segreta provenienza delle tristezze e delle risate.

10). D / Sei un attore abituato a parlare con gli occhi. Gli eloquenti silenzi sono di per sé soddisfacenti o il coefficiente della parola è la ciliegina sulla torta?
R /
Dipende, in primo luogo, dal tipo di ruolo che si deve interpretare. Inoltre è importante che ci sia un confronto proficuo con il regista. Se sento la necessità di dire la mia, è con chi coordina gli elementi dello spettacolo cinematografico che devo comunicare. È una figura, quella del regista, che guida la lavorazione del film comprendendo quello che i suoi collaboratori, inclusi gli attori, possono dare. Con i silenzi pieni di significato, con la disponibilità di ripetere la scena finché non viene come da copione, o anche meglio, con la virtù di dare la giusta inflessione a una battuta. Occorre farsi capire. Il set è il terreno giusto per questo confronto. Fondamentale per portare a termine il film e l’aderenza al personaggio da interpretare nel migliore dei modi. Ho appena finito di girare uno spot contro la violenza ai danni delle donne in cui non dico una parola, ma faccio leva sulla carica espressiva dello sguardo. Ed è un modo per arrivare subito a destinazione. Senza intoppi.

11). D / In quei tipi di silenzi risiede una capacità di presa immediata di notevole rilevanza. Pure Francesco Acquaroli (nella foto), che nella versione televisiva di “Suburra” impersona il boss criminale chiamato Samurai, antepone spesso gli sguardi alle parole. Quanto facilita le cose capirsi con un’occhiata?
R /
È una risorsa importantissima. Con Francesco abbiamo stabilito un’intesa che capita piuttosto raramente. Non so se sia dovuta a qualcosa d’innato o a una trasmissione di pensiero. Fatto sta che ci capiamo al volo. Lui è un attore magnifico. Ed è anche un gran signore. I registi che si sono avvicendati nella seconda stagione di “Suburra“, da Piero Messina ad Andrea Molaioli, sono stati bravissimi a cogliere questa nostra intesa professionale incoraggiandola al massimo per sveltire i tempi di lavorazione e dare un valore aggiunto all’approfondimento dei caratteri di entrambi i personaggi.

12). D / Anche Stefano Sollima, che ha diretto la trasposizione sul grande schermo del libro “Suburra”, è stato abile a cogliere le sfumature più multiformi nei silenzi colmi di senso. Uniti spesso all’acuta necessità dei campi lunghi.
R /
Hai pienamente ragione. Ci sono nella versione cinematografica di “Suburra” dei campi lunghi particolarmente efficaci. C’è anche un bel campo medio riguardante il momento nel quale, sempre nelle vesti di Saverio Guerri detto “Boiardo”, guardia-spalle di Samurai, impersonato nel film da Claudio Amendola, vado ad accogliere all’uscita dal carcere l’ex estremista di destra soprannominato “Bacarozzo”.

13). D / Ricordo perfettamente la scena, Alessandro. Con lui che arresta la tua mossa di prendergli la borsa, come segno di gentilezza formale, con un gesto di amichevole concordia. Peccato che poco dopo lo aspetti una finaccia. Ricavare notorietà fa perdere agli attori il contatto col mondo reale o li spinge ad acquisire maggiore competenza professionale?
D /
Hai detto bene, Massimiliano: l’ansia di raggiungere il successo, e con esso la popolarità, molte volte fa perdere il contatto con le cose. Quelle che, poi, contano sul serio. A dispetto delle fatue tentazioni. È vero che recitare per il teatro, il cinema e la televisione comporta un cambiamento di vita. Di abitudini addirittura. Tuttavia non bisogna mai dimenticare le origini. Da dove si viene. Per me la produzione Fort Apache Cinema Teatro rappresenta realmente una famiglia. Mi ha aiutato quando ero sottoposto a una misura restrittiva della libertà ed è stato lo sprone decisivo per uscire fuori del tunnel e imparare, in piena autonomia, sia pure spronato, a dare a una battuta, o anche a uno sguardo, una carica incisiva. Piena di voglia di riaffermazione. Una riaffermazione sana. Anche per riscattarmi e mostrare al mondo quanto valgo. Ma l’umiltà resta il requisito fondamentale. Senza quella acquistare una professionalità di alto rango per imprimere sempre più significati alla mimica facciale e alla pronuncia delle battute diventa dura. Umiltà e riconoscenza sono i valori basilari per evitare di montarsi inutilmente la testa.

14). D / Voi della famiglia di Fort Apache vivete perciò come un successo di tutti, collettivo intendo, quello d’ogni componente della compagnia?
R /
Nel modo più assoluto. Quando Marcello Fonte
 è stato premiato come miglior attore al Festival di Cannes, per il suo ruolo in “Dogman“, è stata una gran gioia per tutti noi.  Marcellino, che ha sostituito l’attore Ruggero Palmiotto morto sul palco a causa di un malore improvviso mentre noi facevamo le prove al Nuovo Cinema Palazzo dello spettacolo teatrale “Tempo binario”, è motivo d’enorme orgoglio. Il suo successo è il nostro. Ma in senso buono. Lui girava prima con una “telecamerina”. Era una sorta di mascotte. Sapeva tutta la recita a memoria. Ha saputo cogliere subito l’occasione, benché nata da una cosa brutta come la morte, per trasformarla in una cosa bella. Ed è lo spirito della resilienza, torno a ripetere. Siamo una famiglia. Ogni componente che vince ci dona un’immensa felicità. 

15). D / Senti il desiderio d’interpretare anche al cinema una parte diversa dal solito, in modo da sottrarti al cliché dei ruoli fissi da duro ingrugnito?
R /
Certo. È quello che voglio. In “Non essere cattivo” avevo un bel ruolo. Con momenti che rimangono in testa. Alcuni basati sulla complicità dei ragazzi di vita, sulle battute grevi ma divertenti, altri su dei faccia a faccia di un certo spessore drammatico.

16). D / Non c’è dubbio. Come quello del “Brutto” con Vittorio. In merito al bisogno di tirare l’acqua al proprio mulino, anche rubando, visto la durezza dei tempi che corrono, senza però coinvolgere i familiari. Specie se piccoli ed ergo innocenti. Ti ritieni, allora, pronto per seguire quella falsariga?
R /
Sì. Senza falsa modestia. È chiaro che agli inizi i ruoli da semplice caratterista vanno per la maggiore. In relazione ai miei connotati fisici e al piglio da tipo ombroso. Da prendere con le molle. Adatto per i noir o i gangster-movie. Voglio, invece, spaziare un po’ anche coi generi. Altrimenti rischio di venir associato solo ed esclusivamente al “romanaccio” rozzo, di poche parole, che passa subito alle vie di fatto, prende a “pizze”, o peggio, i malcapitati che ha sotto tiro per riscuotere introiti illegali e spaventarli a morte. Il mio desiderio è entrare nei panni di qualunque personaggio. Anche un padre di famiglia. Un lavoratore. Una persona onesta che conduce una vita anonima. Ma ha tutto un mondo dentro di lui. Da esprimere sulla base di quello che ho imparato e continuo a imparare grazie al fondamentale legame tra interpretazione ed esperienza di vita messo a punto con la famiglia di Fort Apache. Per trasformare la rabbia in sensibilità.

MASSIMILIANO SERRIELLO

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