A colloquio con Maximiliano Hernando Bruno sul valore etico del cinema
LO SLANCIO CREATIVO DEL REGISTA DI RED LAND: UN CAPOLAVORO CHE APRE LE STANZE BUIE E SCALDA IL CUORE
Una conversazione con Massimiliano Serriello
Aprire le stanze buie della Storia significa mettere in luce le pagine d’atroce violenza ritenute necessarie, quantunque biecamente nascoste, da chi scambia le discipline di fazione e le coscrizioni dottrinali per i diritti inalienabili dell’Uomo.
Farlo attraverso la cosiddetta fabbrica dei sogni, che grazie alla forza significante della scrittura per immagini snuda gli incubi peggiori scorgendo nell’ordine naturale delle cose l’unico antidoto possibile, comporta l’assurdo diniego di quanti, all’epoca della celebre condanna al rogo ai danni di Ultimo tango a Parigi, rivendicavano a gran voce la facoltà da parte del pubblico di giudicare in piena autonomia quali film vedere.
Le contraddizioni dei mendaci paladini della libertà, che ancor oggi mandano a carte quarantotto i già fragili precetti del livellamento ugualitario con una censura preventiva intenta a distinguere i morti di serie A da quelli di serie B, non hanno impedito a Maximiliano Hernando Bruno (nella foto) di tirare dritto per la sua strada. Per rendere onore alla vittima principale d’ogni conflitto: la verità.
Un concetto importantissimo sin dai tempi in cui ha frequentato l’Actors Studio per trarre linfa, in nome del carattere d’autenticità da garantire ai vari personaggi sulla scorta di una cospicua gradazione d’indoli ed empiti significativi, dalle composite pratiche dell’esistenza. Ma pure dallo sviluppo motorio dei neonati, dai gesti che accompagnano le cerimonie liturgiche, dagli oggetti tangibili e dai valori intangibili connessi alla molla dell’azione.
La sua prova nei panni dell’irrequieto Spartaco (nella foto) ne Il leone di vetro, diretto dallo scrupoloso Salvatore Chiosi, cementa l’egemonia dello spirito sulla materia. L’eloquenza degli sguardi, che sembrano catturati nell’esatto istante prima che il feroce ribelle balzi selvaggiamente sulla preda, ovvero il fratello reo di anteporre l’amore per l’Italia unita ai vincoli di sangue e di suolo, svela l’aura contemplativa congiunta alle attese. Lungi dal divenire oggetto di spettacolo. Concordi, piuttosto, al valore di rappresentazione assicurato dalle diverse componenti del reale. L’assoluto fatto predominante.
Il ricorso alla componente parlata, assai sgradita all’epoca del cinema muto da Charles Chaplin, che equiparava la postilla del sonoro alla bizzarra improntitudine di mettere del rossetto sulle labbra delle statue, lo giudica prezioso. Sebbene scelga una sana via di mezzo per prendere le debite distanze sia dalle anomalie arcaiche sia dal tasso iperpopolare di dialettalità. La semplificazione, con buona pace delle dispute gerarchiche tra i seguaci degli aristocratici (da ἄριστος, i migliori), per stare ed ergo sentirsi “al di sopra”, e i vani alfieri dei presunti umili, per promuovere l’atomismo sociale partendo dal “di sotto”, non è affatto un mero compromesso. L’equidistanza dalle parti in perenne contrasto dovrebbe metterlo in riparo dagli attacchi ad personam compiuti dall’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) nei confronti dei registi intenzionati a dar voce agli sconfitti. L’accusa di lesa maestà per il mito resistenziale rintuzza, invece, contro la voglia di portare a galla, “al di sopra”, le verità sepolte. “Al di sotto”.
A Maximiliano le guerre tra spettri, che attribuiscono le patenti di nobiltà ai caduti per un fronte condannando all’oblio i negletti oppressi dell’opposto schieramento, non interessano. Gli preme, piuttosto, sfruttare ad hoc le chance creative del mezzo artistico. La buona e la cattiva fede non c’entrano nulla con la miriade di opzioni profilatisi nel momento in cui occorreva fornire, su carta, tutte le indicazioni per le riprese. Sul set, in cabina di regìa, a guidarlo è stata la peculiare sensibilità. Sulla medesima stregua dell’intuito.
La cultura postmoderna, consolidata nelle sale cinematografiche dall’anarcoide Quentin Tarantino, mettendo sullo stesso piano Jean-Luc Godard ed Enzo Girolami Castellari (nella foto), funge da fulgido pungolo. Per non formulare alcun tipo di discriminazione. Nella consapevolezza che la cultura alta e la cultura bassa creano una contaminazione perlomeno curiosa. Caribbean Basterds (Caraibi & bastardi), quantunque non rappresenti il fiore all’occhiello del decano Castellari, affabile galantuomo, in ogni caso, e irraggiungibile esperto delle ostiche tecniche di ripresa, resta un valido esempio di come la location, l’Isla Margarita nell’action movie in questione, serva a collocare i personaggi in un luogo dall’identità specifica. Aliena ai pleonastici valori pittorici.
Maximiliano, nelle vesti dell’audace José, disposto a diventare una maschera di sangue pur di far breccia nel cuore dell’avvenente ma capricciosa Linda, ha potuto beneficiare delle fulgide perle di saggezza d’un Maestro distaccato dalle infruttifere elucubrazione teoriche. Care ai falsi esperti convinti che un giudizio critico, viziato per altro d’intellettualismo, abbia lo stesso peso di una sentenza della suprema corte di Cassazione.
Ad ambire al rigore della scienza, restando schiavi dell’impressionismo soggettivo, sono spesso e volentieri i mitomani troppo condizionati dall’impasse dell’autoreferenzialità per cogliere il senso compiuto della parola aletheia (ἀλήθεια). Lo svelamento, la rivelazione della verità, provoca la morbosa intolleranza degli estremisti, forti coi deboli e deboli coi forti, che rimangono consapevolmente avvinghiati alla prigionia delle fallaci sicurezze.
La congerie dei richiami citazionisti – dagli spaghetti western ad Arancia meccanica – mandati ad effetto da Castellari lascia il segno del timbro ludico. Giocondo. Che dà il benservito agli inutili approcci sistemici dei seriosi censori odierni. Ostili, sei lustri or sono, alle sentenze dei magistrati, bardati di toga e tocco, contro i film d’autore considerati lesivi del comune senso del pudore. Le punture di spillo riservate alla sistematica denigrazione del frutto dell’ingegno creativo avulso dai diktat ideologici, per cui è meglio tagliare le gambe a chi le ha lunghe invece di allungarle a chi le ha corte, vanno di pari passo con l’opportuna fragranza della sincerità impiegata per restituire la giusta pietas alle vittime innocenti. Specie quelle dimenticate.
L’esordio dietro la macchina da presa avvenuto con Red Land – Rosso d’Istria ha pagato dazio al malanimo del pregiudizio. Lo squallore delle accuse lanciate in direzione di un film da vedere in piedi nelle scuole è da pernacchie. Il vigoroso slancio dell’argomentazione appassionata, scevra dall’ansia di convertire gli infedeli alle empie ragioni di partito, non costruisce un ponte ideale tra more geometrico ed elocutio. Ai discorsi inutilmente magniloquenti sfugge la spaventosa palingenesi della foiba, da meraviglia fiabesca agli occhi del romanziere Emilio Salgari al funereo punto di raccolta dei patrioti martirizzati.
La nozione di visibilità all’estero di “Red Land – Rosso d’Istria“, che ha ottenuto riscontri favorevoli nelle varie rassegne internazionali e il contratto con Rai Com per una distribuzione nei circuiti commerciali fuori dello Stivale, è un elemento di amara riflessione: Nemo propheta acceptus est in patria sua (Nessun profeta è gradito nella sua patria)? Purtroppo le recenti polemiche nei dibattiti intavolati in televisione parlano chiaro: il professor Mario Canali, ordinario di storia contemporanea all’Università di Camerino, ha giudicato aberrante paragonare le Foibe alla Shoa.
Forse al docente, che considera l’ondata di foga omicida, farina del deprecabile sacco di Tito, la diretta conseguenza delle iniquità commesse durante il ventennio a discapito degli istriani d’origine slava, servirebbe ricordare l’esempio del proprio mentore: Renzo De Felice. Disposto a perdere la cattedra pur di raccontare l’indispensabile verità storica senza eseguire inchini alle celebrazioni partigiane scambiate per unanimi orientamenti popolari.
Nondimeno i rimandi panteisti, con la pace del bosco scossa dal sordo rumore dello sparo funesto, le magistrali performance di Geraldine Chaplin (nella foto con Maximiliano sul set di Red Land), nel ruolo della sorella ormai anziana della povera Norma Cossetto, che rivede i luoghi della memoria aprendo le stanze buie della storia, percorse dai simbolici tagli di luce, e Franco Nero, nei panni dell’insegnante avverso a qualsivoglia forma di dittatura, restituiscono il netto vigore poetico di aletheia lontano dalle direzioni convenienti. A favore, soprattutto, degli spettatori ignari della questione adriatica. Per anni celata nelle idonee sedi scolastiche.
La conta dei morti, con le stime che cambiano drasticamente quando il progetto di sterminio attuato dai soldati colpevoli di credere nel materialismo al posto del Paradiso è sminuito al rango di una mera parentesi, grida vendetta al cielo. Tuttavia la cifra dell’amore deve prevalere sull’odio, sull’acredine, sul diritto al comando confuso con quello alla felicità.
La crescita intellettuale del pubblico, rispetto ai danni inflitti dalle trascuratezze, viene dopo i palpiti del cuore. Maximiliano, forte dell’espressività della mimica facciale dell’impagabile figlia di Charles Chaplin, dell’onesta ispirazione, del nitore mitopoietico riposto nella capacità del territorio di riflettere i modi d’agire, persino i più crudeli, è riuscito a mettere d’accordo, una tantum, cuore e cervello. L’espulsione di massa dalla terra natìa, in seguito al massacro delle foibe, degli italiani d’Istria non è più impunemente ignorato dalla Settima Arte. Ed è il merito maggiore di un autore con la “a” maiuscola. Accusato dapprincipio dai detrattori del previo Il leone di vetro d’ingenerare l’implicita rivendicazione d’identità dei veneti a onta del mito risorgimentale. Incolpato in seguito di costringere i fiancheggiatori dell’idolatria resistenziale a prendere atto di massacri ed eccidi consumati dagli alfieri dell’indegna pulizia etnica.
Lo attende un apologo sull’immigrazione nostrana in Brasile. Saranno ancora molti a storcere il naso? Ubi Consistam. Il punto d’appoggio, per sollevare il mondo, non per spaccarlo, risiede nella Memoria. Quella affettiva facilita l’aderenza alle ubbie, allo scoramento, all’euforia, alla linearità della mente dei personaggi rappresentati sull’onda della dinamicità interiore. Quella storica, che riscatta i nomi ingiustamente coperti di polvere restituendo pan per focaccia ad abietti blocchi interpretativi, attiene alle dinamiche in seno al cinema tra immagine e immaginazione. Il riscatto degli esuli autoctoni, accolti con inverecondi insulti nel Bel Paese del dopoguerra, non passa attraverso roboanti attestati di stima, né tramite gli elogi a buon mercato che sanno di contentino, al pari dei capi cosparsi di cenere soltanto per obbligo di circostanza, ma trae linfa dalla liberazione poetica. Ad appannaggio di Maximiliano Hernando Bruno. Formuliamo l’augurio, a poche ore dall’inizio del 2020, che il nuovo anno illumini le coscienze e preservi i valori sempiterni stabiliti dall’Altissimo.
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1). D/ Hai frequentato la famosa scuola di recitazione Actors Studio. L’aderenza al personaggio di Spartaco nel film storico “Il leone di vetro” nasce dal controllo della realtà oggettiva o dalla realtà immaginaria contemplata dal guru Lee Strasberg?
R / Il lavoro dell’attore sul personaggio, come ha spiegato a suo tempo Konstantin Sergeevič Stanislavski, spingendo poi Strasberg a rielaborare motu proprio gli indispensabili processi di conoscenza e reviviscenza, dipende anche dalla sfera delle emozioni personali. Inoltre il percorso che è scelto per analizzare la verità delle passioni permette di conferire un’ampia gamma di sfumature attingendo ad autentici sentimenti emotivi. Per quanto riguarda la delineazione delle caratteristiche esteriori e dell’azione interiore che anima Spartaco Biasin, fedele al Leone di San Marco, simbolo della Repubblica di Venezia in procinto di essere annessa all’Italia al termine dei moti risorgimentali, ho agito d’istinto. Tutto quello che ho assimilato negli anni di apprendimento, per approfondire il processo conoscitivo del personaggio, si è tradotto in uno spontaneo trasporto creativo basato sulla sottrazione. Allo scopo di dare spazio all’input iniziale, dinanzi alla scoperta di questo temperamento così fiero e introverso. Accumulare elementi espressivi comporta, viceversa, il rischio di cadere nei cliché della recitazione meccanica. Gli ammaestramenti dell’Actors Studio mi sono perciò tornati molto utili per associare a Spartaco un animale particolarmente ferino. Conforme ai suoi silenzi carichi di senso e ai feroci soprassalti che lo caratterizzano.
2). D / Recentemente, alla proiezione stampa di “The Two Popes“, Jonathan Pryce, nel rispondere a una domanda del sottoscritto in merito all’ascendente che ha esercitato, sul suo modo di recitare, la psicotecnica di Al Pacino, ha posto l’accento sugli stage intensivi del Metodo Strasberg finalizzati a scorgere nello studio dei balzi animaleschi un valore aggiunto. Vale, quindi, pure per te?
R / Decisamente sì. Come attore, in primo luogo. Per impreziosire la partitura sotterranea del testo associando le normali capacità motorie, i gesti quotidiani, al comportamento animale. Soprattutto agli intensi, velocissimi sguardi dei predatori. Che precedono appunto i balzi, come giustamente li hai definiti, all’origine di scontri al cardiopalma. Ed è l’elemento genuino, spontaneo, istintivo ad assumere il ruolo di maggior rilievo. Quando mi sono ritrovato a esordire come regista, ho fatto tesoro di questa esperienza spingendo ogni attore a scegliere un animale capace di corrispondere nello sguardo rapace, nel modo di sentire ed eludere lo scontro inevitabile, o di cercarlo senza sosta, all’idea del personaggio da interpretare. Per convertire al meglio l’idea in prassi.
3). D / Anche la componente parlata ricopre un ruolo degno di nota. L’impiego del dialetto e dei segnali discorsivi fa la differenza?
R / La modalità comunicativa del parlato filmico contribuisce ad accrescere lo spessore espressivo di un film dandogli nerbo ed estro. È stato il lavoro più difficile sotto quest’aspetto. Ho dovuto affidarmi a un coach per assimilare i segnali discorsivi, le parole pronunciate a mezza bocca e l’intera cadenza venata.
4). D / Perché avete evitato le punte d’integralismo?
R / In virtù delle mie molteplici incombenze, oltre che come attore, anche in veste di produttore, insieme ad Alessandro Centenaro, e sceneggiatore, al pari di Renzo Carbonera, il bisogno di non eccedere nella ricercatezza ha favorito la modalità comunicativa del film. La comprensibilità dell’accento tipico dei veneti, lontano dagli eccessivi gergalismi e dai fatui poeticismi, non è piaciuta ai fautori dell’integralismo. C’è parecchia ignoranza in questo. Un film, sia pure accreditato dagli elementi costitutivi delle opere d’impegno e di particolare pregio culturale, deve arrivare a tutti.
5). D / Anziché alle cerchie ristrette che blaterano di uguaglianza per poi sentirsi più intelligenti degli altri. Senza capire di cadere, se non sprofondare, nel ridicolo involontario. Un pericolo da cui sono immuni gli scrittori intenti ad anteporre le parole piene a quelle vuote. Come sceneggiatore, abituato a collaborare con altri colleghi molto attenti alla cura dei particolari, fornisci subito delle appropriate indicazioni sulle componenti tecniche o preferisci dargli spazio solo sul set, una volta dietro la macchina da presa?
R / Cambia tutto secondo le diverse e specifiche circostanze. Con “Il leone di vetro“ non sono entrato nel merito delle indicazioni tecniche. A quelle ci ha pensato egregiamente sul set Salvatore Chiosi (nella foto). Io mi sono concentrato solo ed esclusivamente sulla densità contenutistica dei dialoghi e sull’attendibilità storica della vicenda da filmare. Le radici contadine della famiglia Biasin, dei viticoltori estremamente legati alla terra, costituivano la priorità. M’interessava mostrare il trauma dell’annessione che spinse molti veneti, privati in qualche misura di quel vincolo esclusivo, a immigrare. Tracciando il precipuo carattere di ciascun personaggio anche sulla scorta dei proficui confronti al riguardo con Salvatore. Nel caso di “Red Land – Rosso d’Istria” ho redatto una sceneggiatura dapprincipio di ferro. Per poi lasciare un risolutivo margine di manovra, però, all’improvvisazione. Si può anche scrivere in maniera accuratissima, fornendo con impeccabile precisione i dettagli di una determinata location. Quando hai concretamente a che fare con quella location, sia essa avvolta nella natura, all’esterno, o dentro un’abitazione, all’interno, cambia comunque tutto. A fare la differenza può essere anche una scala in più o in meno.
6). D / L’estro spontaneo, indotto dal contatto diretto con gli habitat eletti a location, rientra nei tópoi della geografia emozionale?
R / Certo. La geografia emozionale, che incide pure nella fase di location scouting, è l’asse portante per preferire ai trattamenti superficiali ed esornativi quelli davvero concordi all’interazione dei personaggi con l’habitat. Nel prossimo film, nato come un sequel di “Il leone di vetro“, incentrato sull’immigrazione dei veneti in Brasile, l’indicazione tecnica, stabilita in fase di scrittura sulla base della conoscenza preliminare del territorio, preverrà sull’improvvisazione. D’altronde l’esperienza maturata con “Red Land – Rosso d’Istria“ mi ha insegnato a far tesoro tanto della creatività spontanea quanto della cura dei dettagli per le riprese.
7). D / In “Carrabean Bastards“ sei stato diretto da Enzo Girolamo Castellari. Un bravissimo regista, osteggiato dalla critica per l’attitudine ad appaiare cultura alta e cultura bassa. Poi è arrivato Tarantino, che lo ritiene un Maestro, e le cose sono completamente cambiate. Cosa pensi dell’oscillazione dei giudizi degli ipocriti esperti?
R / Il mio rapporto con i critici cinematografici non è dei migliori. Nel senso che ho imparato a non dare considerazione ai loro giudizi. Specie quando risultano frettolosi e poco argomentati. Il giudizio di chi sa le cose a livello teorico e le ignora all’atto pratico per me conta poco. Quello a cui tengo è il giudizio del pubblico. Che non può essere selezionato dalla critica in base alle mobilitazioni ideologiche e alla superbia intellettuale. Tipico di chi ignora il gusto e l’emotività schietta delle masse. C’è chi sostiene, non a torto, che il critico giudica il talento altrui senza averne di suo. Ovviamente esistono delle eccezioni. Che non fanno altro che confermare la regola. Invece di riabilitare film che in precedenza hanno biasimato, semplicemente perché Tarantino l’ha fatta diventare una tendenza di punta, i critici bravi non fanno distinzioni tra film d’autore e film commerciali. Inoltre hanno dimestichezza, come l’hai anche tu, con il mezzo tecnico. Perché il valore espressivo dei movimenti di macchina, delle panoramiche verso l’alto o verso il basso, non va preso sotto gamba. Sennò di cosa parla la critica? Su quali basi emette giudizi e stroncature? Parte da una posizione di superiorità, già di per sé piuttosto negativa, come se avesse chissà quale criteri di affidabilità. Che non sono certo d’alto profilo, se si va a vedere. Almeno nella maggior parte dei casi.
8). D / Nei riguardi di “Red Land – Rosso d’Istria“ l’ingiustizia del pregiudizio preventivo ha pesato in maniera negativa, come nel caso di “Katyn“ dell’impareggiabile Andrzej Wajda (nella foto), o è divenuta una cassa di risonanza sulla falsariga di quanto accadde per il discusso bestseller “Il sangue dei vinti” di Giampaolo Pansa?
R / Gli attacchi preventivi vanno ignorati a prescindere. Perché criticare un film senza averlo visto, in quanto porta alla luce una serie di omissioni considerate scomode, è segno di limitatezza. Ed è perciò inutile abbozzare qualunque tipo di confronto. Partire prevenuti è la cosa peggiore. A volte questi tipi di attacchi contribuiscono, paradossalmente, a creare curiosità, divenendo uno strano strumento di marketing. Resta tuttavia un paradosso. Più tragico che buffo. Lo schieramento politico, avvelenato dall’assurda superbia intellettuale, invalida i giudizi. Che calpestano la memoria dei caduti e gli sforzi compiuti per realizzare un’opera, al contrario, sincera ed etica. L’intento di rendere omaggio alla memoria delle vittime delle raccapriccianti azioni d’infoibamento non interessa alle persone prive d’onestà intellettuale.
9). D / Per portare in tutto il mondo la vicenda di Norma Cossetto, una martire coraggiosamente fedele al vincolo col suolo natìo dove fu inghiottita a causa della cifra dell’odio dei titini, avversi alla cifra dell’amore, preferisci che “Red Land – Rosso d’Istria“ sia visto nelle sale cinematografiche, in quelle d’essai o nelle scuole?
R / Un film di questo genere punta su tutti e tre gli ambiti. Come prodotto destinato a una larga fascia di pubblico, segue i princìpi economici del settore. Giacché, nonostante la lunga durata, ha un crescendo, sotto l’aspetto narrativo, a partire della seconda, che invece sovente costituisce il tallone d’Achille di diversi altri film, in grado di corrispondere all’emotività delle masse. Come opera d’impegno civile costeggia pure i tratti distintivi dei prodotti d’essai. In quanto si distingue dalla produzione corrente per il tema trattato. Un tema, quello delle Foibe, rimosso per troppo tempo ed estraneo al cinema inteso come sguardo sul mondo e anche sulle pagine buie della Storia. La sensibilità artistica trascende i revisionismi di facciata. L’elemento di distinzione, che non ha nulla che fare con lo snobismo fine a se stesso, consiste nel rintracciare un dolore negato e dargli lo spazio che merita. Quello spazio sino ad adesso preclusogli. L’approdo nel circuito scolastico è legittimato dalla scelta di raccontare con il linguaggio tipico del cinema una porzione di Storia basilare ma mai affrontata finora. Non per stimolare falsi pentimenti. Bensì per spingere gli studenti e le studentesse ad acquisire coscienza degli odi etnici, delle nefandezze e degli stermini taciuti in nome di un partito preso.
10). D / Andrea Manco, Delegato Provinciale a La Spezia dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, è rimasto profondamente colpito dalla visione del film. E anche sua madre, nativa di Pola, in virtù del suo profondo carattere d’autenticità. Alieno, sia in prassi sia in spirito, alle banalità scintillanti della propaganda. Il tuo grado di coinvolgimento iniziale, certo diverso, è servito per unire rigore ed emozione?
R / Non essendo istriano d’origine, né condizionato da un orientamento politico sordo alle reali ragioni del cuore, mi sono potuto concentrare sugli aspetti più importanti della vicenda narrata senza cadere negli errori di chi fa un film di parte. M’interessava rendere onore all’imparzialità e alla giustizia. Ed è per questa ragione che ritengo il personaggio interpretato da Franco Nero (nella foto) particolarmente indicativo: non sopporta l’egida della dittatura, dell’imposizione, dell’ingiustizia. Da qualunque parte essa provenga. L’imparzialità, intesa pure come una condotta priva di pressioni ideologiche e ambientali, rappresenta dunque il punto di partenza migliore. Dirigere un film così consente di entrare in contatto con il dolore altrui e capire la dignità dei parenti delle vittime di quelle atroci azioni d’infoibamento e degli italiani d’Istria costretti all’esodo.
11). D / La consapevolezza di aver emozionato persone tipo Andrea Manco, la sua mamma e tanti altri rappresentanti di coloro che scelsero di essere italiani due volte, citando l’esimio scrittore Dino Messina, è una soddisfazione in grado di smorzare il fuoco delle vane polemiche sulla conta dei morti ed estendere il calore umano? R / Rappresenta un’enorme soddisfazione. Vale più di qualunque tributo. Vedere quelle persone che si riconoscevano nel film, nell’intreccio degli eventi, nel trauma lacerante creatosi con l’8 settembre e i delitti commessi dal Fronte di liberazione nazionale indirizzato da Tito e diverse altre squadriglie della morte, uscire in lacrime, ripaga dei sacrifici compiuti per potare a termine il progetto. Rendendolo una realtà. È qualcosa che investe il privato, e quindi l’intimità degli individui emotivamente coinvolti per ragioni di sangue con quelle vicende, oltre al pubblico. Penso che le tavole rotonde sull’argomento caratterizzate dai toni sempre troppo accesi, e dalle opinioni diametralmente opposte, debbano cedere spazio al valore dell’intimità. Qualcosa di assolutamente, innegabilmente sincero. Che rientra, a pieno titolo, nelle ragioni del cuore.
12). D / Tutta un’altra cosa rispetto a qualsiasi ragione di partito. Ci sono registi, come Michael Cimino nella scena della roulette russa del film cult “Il cacciatore” (nella foto una scena), che mostrano efferatezze ai limiti della sostenibilità visiva. Tu hai alternato il tipico cazzotto allo stomaco con cortocircuiti visionari, colmi di poesia, come quando lo spirito di Norma Cossetto esce dal corpo martoriato dai biechi violentatori. Ritieni il lavoro di sottrazione una risorsa in contesti così delicati ed estremi?
R / Proprio perché non sono né di sinistra né di destra non volevo che la bilancia pendesse da nessuna parte tacciabile di faziosità. Ricercare la verità storica significa pure muoversi con pudore. Senza porre troppo l’accento sugli stupri, le stragi, le infamità che non potranno mai trovare giustificazione. Nonostante ciò il mio intento non era polemico, per mettere in difficoltà chi vorrebbe attenuare gli aspetti malefici di uno sterminio sistematico. Io volevo fare un film anche di poesia. Ragion per cui ho deciso d’inserire questo momento onirico nella scena dell’orribile stupro subìto dalla martire istriana.
13). D / La sequenza mi ha ricordato quella di “Sicilian Ghost Story” di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza. Quando lo spirito del povero Giuseppe Di Matteo guarda dal di fuori il suo corpo di tredicenne ridotto in fin di vita dalla barbarie malavitosa. Ne ho parlato con il regista e produttore Giuseppe Esposito (nella foto). Un uomo che bada al sodo ed è anch’egli estraneo all’enfasi strumentale.
R / Giuseppe è un’ottima persona, un regista impegnato nel sociale ed è entrato nella produzione di “Red Land – Rosso d’Istria“ portando il suo valido contributo. Ha anche diretto sul suo territorio, in Campania, dei film di denuncia davvero ben fatti. Che danno anch’essi un bel pugno nello stomaco. Penso a “Figli della Mala” e “Ignoti gli autori del delitto“. Per tornare alla scena dello stupro, in cui lo spirito di Norma prende commiato momentaneamente dal corpo, è stato come sostenere e superare un esame. Stessa cosa per la scena dell’infoibamento. Erano dei momenti decisivi ed estremamente difficili da girare. Essendo Norma un simbolo, un po’ come Anna Frank per l’Olocausto, ho voluto preservarla in un certo senso. Ed è lì che il supporto dell’antiretorica, cui fai rifermento, è giunto in mio soccorso ispirando il modo giusto di girare una scena da cui dipendeva la riuscita dell’intero film.
14). D / Quindi, da una parte bisogna tirar fuori la verità, negata dai Gendarmi della Storia, e dall’altra è giusto sottrarre, anziché accumulare effetti, per cogliere i dimessi ed etici moti dell’animo?
R / Il lavoro di sottrazione costituisce una risorsa molto preziosa. Ed è anche un antidoto contro la magniloquenza e i toni esasperati. Che appartengono ai faziosi abituati a battere i pugni sul tavolo. Che non vogliono sentire ragioni. Perché tanto si sono fatti una loro idea. E non li schiodi. A me non interessava rivolgermi alle persone di parte. Ma toccare il cuore del pubblico che non era a conoscenza dell’orrida sorte riservata ai Giuliani restii a respingere l’amore per l’Italia. Non si trattò di un eccesso di reazione al fascismo. Bensì di una caccia al fascista, all’inizio, e all’italiano in generale, da lì a poco, capace di mietere un numero impressionante di vittime innocenti: dalle donne ai bambini. Oltre all’indispensabile asciuttezza, lontana dai picchi dell’enfasi, volevo che anche i contrasti chiaroscurali, con le sagome dei carnefici, operassero una sostituzione decisiva. In tal senso devo molto all’ausilio che ho ricevuto dalla fotografia di Giovanni Andreotta. La licenza poetica che mi sono preso è stata utile. Anche per delineare il personaggio del disertore, che interpretato io stesso, facendo affidamento su quelli che hai definito i silenzi eloquenti. Pure perché in quella situazione, con i titini che lo esortano a infierire sulla sua compatriota, pena la vita, non ci sono parole. Se non la muta disperazione. Non potevo, neanche, diventare una sorta di Rambo che faceva giustizia con l’uso della forza bruta degli spietati aguzzini. Il rispetto per la verità storica, per l’attendibilità, va a braccetto con l’antiretorica. Per cogliere i moti dell’animo, dei quali fai correttamente cenno, non bisogna alzare i toni: bisogna abbassarli. Nel silenzio, frammisto al sordo caos della crudeltà, si coglie ciò che non è visibile ma si può sentire. Ed è stato lo scopo primario che mi ha animato girando questo film.
MASSIMILIANO SERRIELLO