A colloquio con Giuseppe Colombo sugli aspetti concreti della Settima Arte
UN PRODUTTORE CHE PRESERVA LE VARIABILI STRATEGICHE E IL CARATTERE D’INGEGNO CREATIVO DEI FILM DI POESIA
Una conversazione con MASSIMILIANO SERRIELLO
Mettere in pratica le variabili strategiche contemplate dagli esperti di economia dei beni artistici, in cui rientra a pieno titolo la cosiddetta fabbrica dei sogni, non è certo una passeggiata di salute. Il cinema, come parte integrante sia dell’industria culturale sia del settore dell’entertainment, impostosi all’attenzione dell’intero pianeta grazie alle prospettive finanziarie stabilite oltreoceano, resta un’arma a doppio taglio.
Lo sa bene Giuseppe Colombo (nella foto con Dario Argento), produttore di versatile cultura, affezionato alle rilevanti dinamiche tra immagine e immaginazione in grado di cogliere l’aura contemplativa. Cara al pubblico più avvertito che all’ovvia impressionabilità delle masse privilegia il cortocircuito dell’autentica poesia.
Contemperare diktat commerciali ed esigenze autoriali richiede fulgide doti organizzative. Nella sana consapevolezza che il cinema resta una comunicazione che deve essere comunicata di nuovo nel momento in cui il film, inteso come un prodotto in tutto e per tutto, si posiziona nella mente dei potenziali acquirenti. Le fasi ex ante, in itinere ed ex post possono, per dirla come il sommo Dante, far tremare le vene e i polsi se la persona chiamata a sobbarcarsi la responsabilità dell’auspicabile boom, o del temuto fiasco, non sa ricavare vigore dalla massima di Vittorio Alfieri.
Giuseppe Colombo ha sempre fortissimamente voluto lasciare il segno sin dai tempi in cui riusciva a imprimere alla notizia il giusto peso informativo nelle vesti di giornalista del Corriere della Sera.
La giovinezza trascorsa nei cineclub di Genova, oltre a cementarne il gusto per i film capaci di cogliere l’aura contemplativa distinguendosi da quelli usa e getta, è servita a chiarirgli le idee. Per affrontare una carriera tanto rischiosa quanto affascinante.
Con la moglie Gabriella Giorgelli (insieme nella foto), musa di Bernardo Bertolucci nell’inobliabile La commare secca e dell’alfiere della commedia all’italiana, Mario Monicelli, nell’affresco storico in chiave dolceamara I compagni, formano una coppia sempre pronta alla battuta stemperante.
Le cene nella loro casa sulla Cassia, nella zona nord della Città Eterna, con il calore umano trasmesso dai quadri appesi alle pareti, che mandano in brodo di giuggiole i collezionisti a caccia di manifesti rari, sono scandite dall’inesauribile passione per la fabbrica dei sogni. Alla gioia di vivere dell’energica dolce metà corrisponde da par suo una signorile pacatezza.
Nondimeno, quando il bandolo della conversazione cade sulla questione delle sale d’essai, dei circuiti commerciali, sui prodotti di maggior riscontro popolare, disapprovati dagli spettatori ansiosi di apparire ricercati, sul “minimo comune denominatore stilistico” del settore, secondo anche Fabrizio Perretti, docente di Strategia Aziendale e di Economia della radio e della televisione presso l’Università Bocconi di Milano, per scongiurare il rischio d’insuccesso alle opere frutto dell’estro, lo sguardo s’illumina.
Argomentatore sagace, Giuseppe sa sintonizzarsi sulla stessa lunghezza d’onda dei critici cinematografici. Ne apprezza le doti argomentative. Dispositio ed elocutio fanno parte anche del suo eloquio. Incline a infarcire il discorso con una farmacopea di sapidi aneddoti per rendere partecipe l’ascoltatore tanto degli strumenti di fidelizzazione dei film chiamati oggi art-house quanto dello sforzo necessario ad affrontare certe criticità. Che non sono mai mancate. Né mai mancheranno.
I trascorsi da attore – interpretando Theophile du Viau in Cartesio di Roberto Rossellini ma anche il galeotto Spartaco nello stracult Farfallon insieme a Franco Franchi e Ciccio Ingrassia – lo hanno reso disincantato in merito alle dispute degli intellettuali sulla supremazia élitaria. Al pari di Giampiero Mughini, consapevole che i diecimila lettori di un libro non possono né devono competere con la quantità sterminata di fruitori del piccolo schermo, Giuseppe conosce le regole del gioco care a Jean Renoir. L’improntitudine dei falsi esperti, emuli involontari del ridicolo Professor Guidobaldo Maria Riccardelli di fantozziana memoria, la lascia volentieri ad altri.
D’altronde dinanzi ai fan che fermano Gabriella per strada, riconoscendola per il ruolo di Cinzia Bocconotti in Delitto sull’autostrada di Bruno Corbucci, ennesima avventura dello sboccato ma sincero commissario Nico Giraldi, il marito fa spallucce. Sorridendo con nonchalance. Prendere il mondo con filosofia, dopo aver recitato tra le braccia di Edwige Fenech in Quel gran pezzo dell’Ubalda tutta nuda e tutta calda, per poi distribuire Le fantastiche avventure del deserto della giungla di Jerzy Kawalerowicz – artefice pure del forbito apologo Faraon – e L’enigma di Kasper Hauser di Werner Herzog, è una forma d’intelligenza aliena allo snobismo.
Inutile, perciò, ricordare ai fan del trash che la sua avvenente ed eclettica consorte è stata diretta, tra gli altri, da Christian-Jaque, vincitore del Prix de la mise en scène al Festival di Cannes per Fanfan la Tulipe, e dal visionario Federico Fellini (nella foto con Giuseppe sul set di Prova d’orchestra).
C’è spazio per tutti nella Settima Arte. Ad eccezione dei film di qualità bocciati dall’assurda censura del mercato. È quindi un motivo di legittimo orgoglio, sia pure celato dal diktat del decoro, estraneo all’iperbole degli sfoggi, essere riuscito a trovare la via d’intesa con gli esercenti per far scoprire agli appassionati autentiche chicche. Nel quadro di un’estetica tutt’altro che fine a sé stessa. Benché bisognosa di una persona competente disposta a combattere affinché i progetti più ambiziosi si trasformino in realtà. Passando dalla marginalità dei circuiti alternativi alle luci della sala dove la tenuta stilistica, di autori incapaci però di promuoversi da soli, carica di senso il modo di guardare alla scrittura per immagini delle platee allergiche ai dispendi di fosforo. Chi ha l’arte, infatti, spesso non ha la parte. Ed è là che Giuseppe Colombo si è ingegnato. Lottando per l’accesso al credito garantito, fino a un certo punto, dal Ministero dei beni culturali. A costo di rimetterci la salute. Perché occorrono perseveranza e personalità per pensare in grande ed eludere imprevisti che possono rivelarsi inesorabili.
«Povera e nuda vai, Filosofia
dice la turba al vil guadagno intesa.»
Persino l’aforisma dell’immenso Petrarca può cedere il passo a una lieta inversione di tendenza se all’impasse dell’inerzia di non correre mai rischi è anteposta una profonda conoscenza dei costumi culturali, degli sbocchi di mercato, del settore dell’erudizione e delle arti. Nonché dell’intrattenimento. Senza giudicarlo un elemento blasfemo.
Dirigente dell’Euro American International Film, capo della distribuzione e direttore commerciale della Cannon Italia, amministratore unico della International Cinema Company e presidente della giuria al Fantafestival, Giuseppe Colombo ha un bagaglio di esperienze che gli consente non di grandeggiare (chiunque abbia il dono dell’autoironia se ne guarda bene) ma di afferrare l’interazione tra stilemi operativi ritenuti agli antipodi. All’interno dell’industria culturale le bestie nere sono i pregiudizi. Le antinomie non esistono. Istruzione e informazione vanno a braccetto. L’apprendimento è divertente quando c’è di mezzo la capacità del cinema di assorbire al meglio gli stilemi delle altre sei arti maggiori. Sennò che Settima Arte sarebbe?
Produrre Il volo di Theodoros Angelopoulos e distribuire la miniserie televisiva Il placido Don di Sergei Bondarcuk (nella foto con Giuseppe) non capita tutti i giorni.
Colombo non ha scoperto l’America, al pari del suo celebre, omonimo concittadino, ma ha saputo raggruppare un cast coi fiocchi. Composto da Fahrid Murray Abraham, Rupert Everett, Delphine Forest e Ben Gazzara. La trasposizione del romanzo dello scrittore russo Michail Aleksandrovič Šolochov, unitamente al reclutamento al timone di regìa di un Maestro del calibro dell’austero ed estroso Bondarcuk, testimonia l’assoluta padronanza degli indicatori più significativi agli occhi di qualunque tipo di pubblico. Dal target attratto da una fiction dalla durata fluviale d’oltre dieci ore a quello sensibile nei confronti dello star system sino ad arrivare ai fruitori dal palato fine. Contenti di vedere tradotti nei canoni dell’arte in movimento il tema dei vincoli di sangue e di suolo frammisto dall’alacre romanziere all’epico eroismo scevro dalle pecche patetiche della retorica dei condottieri attaccati alla terra. Congiungere l’inventiva di un premio Nobel per la letteratura con quella di un premio Oscar equivale a trarre partito dal potere promozionale e attrattivo.
Con Dario Argento, a dispetto delle bizze unanimemente attribuite all’autore capitolino, ha stabilito un proficuo sodalizio per consentire al cinema horror di allargare le proprie prospettive e trascendere i limiti del genere. Bollato dai soliti “secchioni di turno”, che prendono lucciole per lanterne, alla stregua di un sottogenere. La sindrome di Stendhal (nella foto, sul set, Giuseppe, divertito dall’atmosfera sdrammatizzante, insieme ad Asia Argento in vena di scherzi) è un fiore all’occhiello che ha comportato sudore, sacrifici, spiegazioni secche, decisioni pugnaci. Riuscendo comunque ad appaiare i motivi d’angoscia dei thriller canonici con un risoluto innesto fantasy.
Fornire i capitali richiesti, fare da intermediario tra figure professionali composite, cercare le nicchie di mercato, proporre soluzioni ardite al fine di allargarle è già una ‘faticaccia’. Le eterogenee strategie di finanziamento, il credito agevolato, il versamento dei minimi garantiti con la cessione dei diritti alla distribuzione, il contributo statale, gli obblighi della controparte sono obiettivi da conquistare palmo a palmo. Step by step. L’ipotesi che qualcosa vada storto è uno spettro col quale fare i conti. In veste di componente della giuria del David di Donatello, Giuseppe Colombo conosce a menadito l’effetto positioning. Alla base delle decisioni di acquisto da parte degli spettatori, dei contenuti chiarificatori forniti dagli uffici stampa, degli slogan, delle campagne di marketing e della valenza comunicativa dei tributi più ambìti.
La produzione del film low budget, riconosciuto d’interesse culturale nazionale, La leggenda di Eleonora D’Arborea di Claver Salizzato, è stata un’ennesima avventura. Condotta in porto col solito fiuto. Per dare vita a un’opera in costume, ambientata nel 1300, ed esaltare il timbro mitopoietico della geografia emozionale. L’elezione della location sarda ad attante narrativo è un’altra tappa che cementa il punto di convergenza tra habitat ed esseri umani. La sfida di compiere scelte temerarie simili nell’humus dell’autorialità è oggi raccolta da poche compagnie produttive. Come Sirius Films. Che ha portato alla rassegna romana l’insolito dramma storico Little Crusader (Czech: Křižáček) di Václav Kadrnka. Mai arrivato, ahinoi, nelle sale commerciali. Giuseppe Colombo nell’arco della sua carriera ha invece conferito le indispensabili cauzioni di commerciabilità ai film pensati per piacere a pochi. Averli fatti amare da tanti è la vittoria più rimarchevole.
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1). D / Per distribuire in Italia “L’enigma di Kasper Hauser“, diretto dal visionario Werner Herzog, ritenuto allora un illustre sconosciuto nel Bel Paese dagli stessi che oggi lo venerano, hai tratto linfa dall’ascendente di Giovanni Grazzini e Gian Luigi Rondi nei confronti degli esercenti. Le strategie vanno a braccetto con il posizionamento sul mercato primario di sbocco dei film d’autore?
R / Ai tempi era necessario trovare l’alchimia giusta, passami il termine, per permettere al film l’approdo in parecchie sale. Grazzini e Rondi (nella foto) rivaleggiavano tra loro. L’uno, forte dell’incarico come Presidente del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici (SNCCI). L’altro, con i trascorsi da docente universitario, destinato a divenire direttore della Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia. Ritenuto, inoltre, il padre dei David di Donatello. Feci credere ad ambedue di avere l’esclusiva assoluta in Italia per visionare il capolavoro sconosciuto di Herzog che, come hai giustamente sottolineato, ai tempi nel nostro Paese non godeva d’enorme considerazione. Benché avesse già girato, oltre ad “Aguirre – Furore di Dio”, altre opere degne di encomio.
2). D/ Assolutamente. Anche nel campo documentaristico. Con “Paese del silenzio e dell’oscurità” contraddistinto dalla forza significante d’immagini ora a colori ora in bianco nero che toccano da vicino gli sforzi compiuti dalla sordo-cieca Fini Straubinger. Niente a ché vedere con il recente “Herzog incontra Gorbaciov“. Il tempo non fa sconti nemmeno agli autori con la “a” maiuscola.
R / È vero. A quei tempi, parliamo della metà degli anni Settanta, aveva raggiunto il diapason del proprio estro. Tu, allora, eri appena nato. Non sei quindi colpevole. A differenza dei cinefili di quel periodo all’oscuro del talento di un Maestro così grintoso ed erudito. Mostrai “L’enigma di Kasper Hauser” a Grazzini in un cinema di Milano. Stessa cosa per Rondi a Roma, d’accordo con il proprietario del Capranichetta che mi mise a disposizione la sala. Enormi conoscitori del cinema d’alta qualità, i due acerrimi rivali tessero le lodi del film di Herzog. Dedicando entrambi una pagina molto elogiativa sulle rispettive testate a quest’apologo sull’apprendimento che univa fermezza stilistica ed emozione visionaria. L’assenso dei due decani della critica ha sortito un effetto boomerang tanto sugli esercenti quanto sul pubblico dei film d’autore. I proprietari dei cinema hanno dimostrato perspicacia, seppur caldeggiati anche dal sottoscritto, nel comprendere le potenzialità pure commerciali di un’opera non soltanto d’essai.
3). D / La critica cinematografica ha perso autorevolezza anche nella capacità d’influenzare le decisioni di acquisto degli spettatori?
R / A parer mio gli spettatori al giorno d’oggi non danno molto retta ai critici. A parte Gianni Canova (nella foto) che ha un certo seguito. È il raid televisivo e mediatico che accompagna il lancio dei colossi dell’intrattenimento sul mercato primario di sbocco a influenzare le masse. Insieme ai trailer e ad altri elementi segnaletici predisposti attraverso attente campagne di marketing. La critica ha perso davvero autorevolezza. Tu, al contrario, non lo affermo per piaggeria, conosci profondamente il cinema: le significative tenute stilistiche dei registi più bravi, ma meno noti, la categoria dei critici, le tecniche argomentative e le diverse scuole di pensiero.
4). D / Parlando di uno poco tenero, Moravia (nella foto), che però ha sempre apprezzato il gioco fisionomico della tua dolce metà, Gabriella Giorgelli, pur anteponendo l’estro dei registi alla qualità degli interpreti, la coerenza nell’esprimere le proprie idee fa la differenza. Anche per te il cinema commerciale è privo di mistero?
R / Effettivamente Alberto Moravia apprezzava molto Gabriella. Sia nel film d’esordio di Bernardo Bertolucci, “La commare secca”, sia nell’affresco dolceamaro “I compagni” di Mario Monicelli. Per quanto concerne la distinzione tra cinema d’autore e cinema commerciale sono d’accordo con lui anche sul fatto che il primo assume una funzione maggiormente creativa rispetto al secondo ed è perciò oggetto continuo di analisi da parte degli esperti. Detto questo, non serve esecrare troppo il cinema commerciale. Specie per darsi arie da intenditori. Il cinema va conosciuto tutto. Tanto quello che punta all’incasso, corrispondendo alle attese del pubblico semplice, quanto quello più immaginifico ed elitario. Moravia era un intellettuale affascinato dalla capacità di presa sul reale dei film di particolare pregio formativo. Il cinema di genere, caratterizzato dal successo al botteghino, non l’attraeva. Credeva fosse il simbolo solo del trionfo al box office. Nel cercare di mettere in risalto i requisiti dei film equiparabili invece ad autentiche opere d’arte aveva ragione a considerare la psicotecnica degli attori, tranne rare eccezioni, uno spettacolo secondario in confronto alle scelte espressive compiute dai registi capaci di approfondire i versanti metaforici e filosofici. Ed è per questa ragione che la sua simpatia per le virtù interpretative di Gabriella costituisce una sorta d’investitura. Perché proveniva da un uomo preparato ed estremamente severo sulla componente della recitazione. Di sicuro, come sostieni tu, nell’era del web mancano critici della sua levatura intenti ad argomentare più le recensioni sui film che vedono in pochi anziché quelle sui film visti da tutti.
5). D / È anche per questo motivo quindi che oggi molti film bellissimi, tipo “Nustro Tiempo” di Carlos Reygadas, diretti da autori d’immenso talento, tutt’altro che sconosciuti, non accedono in sala, nei circuiti normali, né nel mercato secondario di sbocco?
R / Esiste, in primis, una sproporzione tra l’offerta e la domanda di film in generale. I critici di oggi sono poi molto meno preparati di quelli di ieri e quindi anche meno interessati a segnalare al pubblico e agli esercenti l’indubbia qualità d’ispirazione di autori meritevoli di essere conosciuti negli appositi circuiti commerciali da un’ampia fascia di pubblico. Anziché nei festival da una fascia assai più ridotta.
6). D / Quali sono gli altri attributi-chiave da rispettare e mettere in pratica per gestire al meglio la distribuzione dei film art-house?
R / Bisogna creare un appeal piuttosto specifico perché il pubblico vada in sala a vedere i film denominati art-house. La loro distribuzione necessita chiaramente di un’apposita strategia. Affinché attecchisca presso i target chiamati alti. Degli intenditori. Operare nel ramo della distribuzione è un’impresa ardua. Specie oggi. Nell’era delle nuove tecnologie e delle infinite piattaforme che privilegiano il mercato secondario di sbocco, ovvero l’home video, al posto del mercato primario di sbocco, vale a dire la sala, occorre ancor più unire raziocini ritenuti a torto opposti. Anche il cinema d’autore, se vuole arrivare nelle sale, lontano dai luoghi di consumo alternativi, deve seguire una logica commerciale. La pre-vendita di film già prenotati da Sky e via dicendo complica la situazione. Servono spirito d’iniziativa e un po’ d’ingegnosità. Mi ricordo quando la technicolor non aveva la velocità necessaria per stampare le copie concordate e io le feci stampare subito da altri per rispettare l’uscita prevista. Gli accorgimenti, compresi nell’attitudine ad adattarsi alle eterogenee circostanze, imprevisti compresi, per raggiungere il risultato, sono basilari.
7). D / Allora non è vero che carmina non dant panem?
R / Le poesie non danno pane solo se ci si ostina a non seguire la logica. È quasi impossibile sennò oggi distribuire film fruttuosi unicamente sul piano culturale e artistico. Ogni film, in ogni caso, anche quello meno conforme ai facili coefficienti spettacolari e più incline agli stilemi dell’arte, diventa commerciale nel momento che è distribuito nelle sale cinematografiche. A beneficio degli spettatori. E non di un’élite. A parte Medusa Film e 01 Distribution, che dispongono di un massiccio potere contrattuale, gli altri devono fare di necessità virtù per influire sulle decisioni produttive e sulle scelte del pubblico in merito al modo come impiegare il loro tempo libero. L’acquisto dei biglietti per i prodotti di qualità vale la pena quando c’è di mezzo la società di produzione e distribuzione Lucky Red. In quel caso la diffusione dei film d’autore promuove i modelli promossi dai circuiti alternativi grazie ad accordi specifici con gli esercenti portando la qualità in sala. La poliedrica natura del rapporto tra distributori ed esercenti in tal senso evidenzia l’importanza di alcune scelte affinché il pubblico di riferimento, munito di curiosità intellettuale, spenda i suoi soldi nell’acquisto dei biglietti nelle sale invece di aspettare l’uscita dei film in dvd o avvalersi dell’abbonamento ai canali a pagamento. Il livello di rischio è alto per la politica dei film d’autore. Quella posta in essere da Lucky Red con la partnership per la distribuzione theatrical di certi titoli piuttosto esclusivi del proprio listino tramite Universal rientra nelle ingegnose collaborazioni strategiche capaci d’invertire le tendenze più implacabili. Come quella secondo la quale il cinema d’autore è deleterio sotto il profilo finanziario.
8). D / I registi più ambiziosi, tranne quelli muniti di un’etica molto forte, farebbero carte false pur di porre in risalto il loro status di autorialità. Cosa deve fare un produttore per sostenere un film di poesia senza pagare dazio ad alcuna incomprensione?
R / I registi innalzati ad autori riconoscono molto faticosamente il contributo chi fa il mio mestiere al fine della propria particolare elezione. Preferiscono pensare di aver ricevuto al limite un buon aiuto ma che l’elemento di richiamo del loro nome presso il target degli intenditori sia stato decisivo. E che sia dipeso solo ed esclusivamente dal prestigio che godono presso gli appassionati del cinema di poesia. È facile per un produttore spingere i registi a tagliare le scene. È più difficile cercare diverse forme di sponsorizzazione sostenendo la qualità senza apporre modifiche né sfruttare dei filoni di successo. Un vero produttore deve rilanciare i registi dotati di acume: non si rilanciano mica da soli. La Teodora Film è una casa di distribuzione che sa difendere i film di qualità e rilanciare gli autori in declino. Il suo fondatore, Vieri Razzini (nella foto), è un critico che ha saputo indubbiamente distinguersi passando con scioltezza dalla teoria alla prassi.
9). D / Razzini con la Theodora ha portato al cinema film ragguardevoli, tipo “Tomboy” di Céline Sciamma, che altri distributori avrebbero respinto giacché a corto delle cauzioni di commerciabilità richieste dagli esercenti. Ed è anche un cinefilo che predilige la visione in sala, insieme agli spettatori paganti, a quella in proiezione stampa.
R / È questo il punto: servono persone avvezze alle teorie del cinema, capaci di fare riflessioni estetiche utili, anche alla gente comune, che paga il biglietto, al fine di conferire al discorso critico l’utilità del confronto con gli autori, per poi rilanciare registi meritevoli ma inidonei da soli a capire come riproporsi sul mercato del cinema d’alta qualità in grado di garantire pure gli incassi. Razzini, fondando la Theodora con il socio Cesare Petrillo, ha dato prova di logicità. Anche se è una voce fuori dal coro.
10). D / Quando hai prodotto “Il volo” di Theodoros Angelopoulos (nella foto) sei riuscito a imporre Marcello Mastroianni come protagonista al posto di Gian Maria Volonté, più venerato dagli spettatori che associano l’amore per il cinema al concetto di militanza, ma meno conosciuto dell’attore-feticcio di Fellini. Hai dovuto sudare sette camicie per imporre questa conditio sine qua non oppure l’affinità elettiva con il presidente dell’Agis Emilia Romagna, Gino Agostini, che gestiva gli schermi di Circuito Cinema Bologna, è servita per raggiungere la giusta via d’intesa?
R / Inizialmente l’ottimo rapporto che si è creato tra me, Theodoros Angelopoulos e Tonino Guerra, sceneggiatore dotato d’incredibile arguzia, ha semplificato le cose. Loro volevano tuttavia girare il film con Volonté nel ruolo del maestro che torna con il crepuscolo al mestiere paterno dell’apicoltore. Mettere dentro, invece, Mastroianni ha dato una notevole spinta al film perché, torniamo sempre là, permise di avere pure l’opportuna forza contrattuale. Saturare il mercato con una distribuzione ad ampio raggio è tutta un’altra storia. I distributori indipendenti non dispongono della voce patrimoniale delle majors e quindi sono costretti a valutare delle alternative. Un attore come Mastroianni, che sapeva recitare in greco, in português do Brasil, come ha dimostrato in “Gabriela” di Bruno Barreto, ed era per giunta un divo, graditissimo anche al pubblico meno avvertito, rappresentava un elemento d’attrazione decisivo. Perché spesso gli spettatori dai gusti semplici, a differenza dei cinefili di provata fede, non seguono il percorso stilistico dei registi eletti ad autori, bensì degli interpreti presi a modelli di vita. Nei quali viene spontaneo identificarsi. In questo modo si evita il rischio di una distribuzione limitata garantendo al film, chiamiamolo d’arte, un cospicuo numero di schermi facendo perno sia sui fan dell’attore sia sui seguaci dell’autore. Gino Agostini, al pari dei suoi soci, che si pavoneggiavano di non dare mai minimi garantiti, a dispetto dei guadagni sicuri, aveva dalla sua il fiuto, una considerevole forza finanziaria e le sale per assicurare un’ampia distribuzione. Tutti loro garantivano una copertura quasi completa in Toscana, Lombardia ed Emilia Romagna. Hanno creduto in quest’operazione. Da parte mia ho nondimeno lottato. Mi dicevano: sì, è bello; però è un film difficile. La loro intenzione, chiaramente, era quella di rischiare il meno possibile.
11). D / Lo star system costituisce, infatti, una strategia di riduzione del rischio d’insuccesso, che attanaglia dapprincipio qualunque film, alla stregua della serializzazione, degli avveduti remake dei cult movie più amati e della trasposizione sul grande schermo dei bestsellers.
R / Per l’appunto. Ed è stata una delle formule che ho concepito per ridurre, se non annullare del tutto, il fattore del rischio. C’erano, sì, la cartellonistica, il lancio pubblicitario. Ma, ribadisco, non hanno dato il minimo garantito. Melina Merkourī (nella foto), grandissima attrice, come tu ben sai, connazionale di Theo Angelopoulos, per cui nutriva enorme stima, diede decisamente una mano. Allora ricopriva l’incarico di Ministro della Cultura nel governo ellenico. Ma non era un Ministro, ma un’attrice che faceva il Ministro. Un tipo fuori dalle regole. Simpatica, gradevole, intraprendente. Marin Karmitz, infine, miliardario transalpino, produttore, distributore, titolare della MK2, pigmalione di Juliette Binoche, assicurò parecchie sale a “Il volo” pure in Francia.
12). D / “Il volo“, rispetto al previo “La recita“, che tendeva ad amalgamare le tecniche brechtiane e il valore rappresentativo del piano-sequenza, che adesso Sam Mendes ha riproposto nel war movie “1917“, prende le distanze dall’oltranzismo stilistico. Le innovazioni autoriali di Angelopoulos, che danno sin dall’inizio l’acqua della vita a quel ponte traballante e al ricorso in sordina alla geografia emozionale, costituivano un rischio oppure una risorsa?
R / Theo era un autore dotato d’estro e di personalità. Non una personalità semplice da gestire, intendiamoci. Non sono state sempre rose e fiori. Quando veniva a Roma, era solito alloggiare in un albergo nei pressi di Piazza Navona. Aveva una grande passione per l’arte, una profonda cultura, una fulgida umanità e una tenacia indistruttibile. Ci capimmo bene alla fine. Lui, bontà sua, nutriva stima per il sottoscritto. Quindi, per rispondere alla tua domanda, le sue innovazioni erano una risorsa. Se adeguate, chiaramente, alle necessità produttive. Mi fa, in ogni caso, piacere che un cinefilo come te, che vede una quantità infinita di film, abbia a cuore Il volo e la cifra stilistica di Theo. Vuol dire che sia lui sia il film hanno lasciato il segno. Ed è stata per me un’esperienza molto impegnativa ma bellissima.
13). D / Pure con Mastroianni avete stabilito un’intesa significativa, altresì sul piano umano. Al punto che lui insistette per averti come produttore della miniserie tv “A che punto è la notte“. Si tratta dell’ultima fatica di Nanni Loy (nella foto). Anche in questo caso hai dovuto insistere per affiancare al mitico Marcello un altro mostro sacro: Max von Sydow. È stato un incontro-scontro con Loy?
R / Sai tutto, caspita! Ed è tutto oro colato: è stato un incontro-scontro con Nanni Loy. Ho dovuto insistere, e anche parecchio, affinché Max von Sydow impersonasse l’Arcivescovo di Torino. Lui non lo voleva. Pensa te! È buffo a pensarci. Era un combattente. Ma di un certo tipo. Quando capì che la Rai partecipava alla produzione, si legò ai suoi capi-struttura. Convinto che con l’appoggio giusto si sarebbe potuto imporre. Là, se mi permetti, sia detto con la massima umiltà, ho tirato fuori il carattere. Il personaggio dell’alto prelato era fondamentale per la riuscita complessiva dell’opera. Serviva un attore internazionale di grande carisma. Noto anche al grande pubblico.
14). D / Hai ragione: fa ridere che ti sei dovuto battere per far accettare a Loy, con tutto il rispetto, il protagonista dei migliori film di Ingmar Bergman. Da “Il settimo sigillo” a “La fontana della vergine“.
R / Ma anche, come ben sai, di film amati pure dal pubblico più vasto. Come “I tre giorni del condor” di Sydney Pollack, “Fuga per la vittoria” di John Huston …
15). D / “Dreed” con Sylvester Stallone. La lista è lunga! Nel produrre, invece, “Senso ’45” di Tinto Brass (nella foto) hai combinato in egual misura risolutezza e diplomazia per garantire, come avevi già fatto con Dario Argento, uno status d’autorialità, unitamente alle cauzioni di commerciabilità, al genere erotico?
R / Non è stato semplice. Conferire uno status d’autorialità, come dici tu, a un sottogenere, o a un genere ritenuto tale all’unanimità, richiede una circostanza di fattori diversi e imprescindibili gli uni dagli altri. Per ridare linfa al genere horror, restituendogli pure l’apprezzamento della critica, ho dovuto ottenere il permesso di girare le scene più importanti del film “La sindrome di Stendhal” nella galleria degli Uffizi a Firenze. La Medusa fu invogliata a partecipare alla produzione dalla scelta d’imprimere al plot l’appeal narrativo degli archetipi americani. Raggiungere gli accordi per i diritti dell’omonimo saggio e coinvolgere il Maestro Ennio Morricone come compositore della colonna sonora mi ha dato le giuste motivazioni. Spingendomi ad affrontare i problemi che quotidianamente sorgevano sul set con la giusta forza d’animo. La voglia di portare a termine nel migliore dei modi un’operazione predisposta con tutti i crismi alla fine ha prevalso. Stessa cosa per “Senso ’45”. Ho creduto nel progetto di realizzare un’opera a sfondo erotico ispirata alla novella di Camillo Boito. La precedente trasposizione del grande Luchino Visconti poteva divenire un elemento d’intimidazione. M’impegnai perciò a mettere le cose in chiaro. Tinto è un avvocato, conosce l’arte dell’oratoria, vuole, o vorrebbe, avere sempre ragione. Ed è soprattutto una sorta di Arpagone. Il film è costato tantissimo in virtù delle costruzioni storiche fatte alla perfezione anche per legittimare l’interpolazione scelta rispetto al testo originario. Col passaggio dal 1866, alla vigilia della terza guerra d’indipendenza di Venezia, al 1945. Con Brass sono state scintille sul serio! A differenza che con Dario Argento. Con cui c’è stata un’ottima intesa sin dall’inizio. La presenza di un collaboratore prezioso come Mario Di Biase, che aveva dato già il suo contributo nelle produzioni di Bertolucci e Fellini, mi fu comunque d’aiuto. Anche di conforto. Per far comprendere a Tinto Brass che non doveva, né poteva, gettarsi in una sfida a distanza con il defunto ed esimio Visconti.
16). D / Una sfida che avrebbe voluto vincere a furia di spese a tuo carico. Anche perché vincerla sul piano autoriale era dura. Eppure “Senso ’45” è stato elogiato dai critici più severi. Ti ha ripagato degli sforzi compiuti per portarlo a termine?
R / Eh, è stata dura sul serio. Tuttavia, come al solito sei molto ben informato, l’investitura da parte della critica più accreditata di film d’autore al cento per cento è motivo di soddisfazione. Anche la rivista “Cahiers du cinéma” ha speso parole d’encomio per un’operazione che in partenza era piuttosto rischiosa. Rispettare il programma di lavorazione fu un’impresa quasi proibitiva a causa di una serie d’inconvenienti, notte insonni, rinvii inevitabili, rimedi drastici, con lo spostamento degli arredi d’epoca ai limiti dell’assurdo. Il fatto che “Senso ’45” sia stato venduto in novantotto paesi compensa lo stress dovuto all’infinità di problematiche alle quali ho dovuto porre rimedio di volta in volta. La fissazione per l’erotismo e i profili di Venere, diciamo così, di Tinto Brass non venne considerata un limite, anche se piuttosto marcata, dai critici della prestigiosa rivista francese. Il suo talento d’autore è stato comunque riconosciuto e la distribuzione del film ha travalicato di gran lunga i confini nazionali. Ma che fatica! E va bene, dai: è il Cinema.
MASSIMILIANO SERRIELLO