A colloquio con Debora Scalzo sulla sicurezza, l’informazione e la giustizia
IL MIX DI CUORE E CERVELLO DI UNA DONNA CHE RENDE GIUSTIZIA ALLE FORZE DELL’ORDINE
Una conversazione con Massimiliano Serriello
Chi usa, citando Jim Morrison, le scorciatoie del cervello può evitare di emettere sentenze senza neppure conoscerla: Debora Scalzo (nella foto) non mette le mani avanti; al posto del livellamento ugualitario, che ha fatto più danni della grandine sovvertendo i diritti in valori e viceversa, antepone La livella di Totò. Contraddistinta dalla capacità di riuscire ad appaiare all’aura contemplativa la fragranza della saggezza popolare. Estranea agli intellettuali avvezzi alle elucubrazioni teoriche. Incapaci di andare oltre lo scoglio dei partiti presi.
La forza discreta lontana dal trionfalismo appartiene secondo Debora a chiunque vigili sulla sicurezza della collettività mettendoci la faccia, il corpo, l’anima come scudo protettivo. Col rischio di essere additato ed ergo frainteso persino dai leoni da tastiera convinti di sfoggiare la stessa sicumera di una Corte di Cassazione. La sua grinta muliebre ma pugnace richiama alla mente quella di Demi Moore (nella foto) in Codice d’onore di Bob Reiner. Il botta e risposta dell’attrice americana nei panni del tenente comandante in gonnella JoAnne Galloway col collega Sam Weimberg, con cui forma il collegio di difesa dei due marines accusati di aver applicato il codice rosso ai danni di un commilitone lavativo, colpisce al cervello, alla mente, allo stomaco:
JoAnne: Ma perché li odi così tanto?
Sam: Hanno massacrato un debole. Ecco cosa hanno fatto. Insomma, tutto il resto della causa sono chiacchiere fumose da caffè. Hanno torturato e perseguitato un ragazzo più debole. Gli stava antipatico e l’hanno ammazzato. E perché? Perché non riusciva a correre più veloce… Tu, invece, perché li ami tanto?
JoAnne: Perché stanno in cima a un muro e dicono: nessuno ti farà male stanotte; ci sono io qui di guardia.
L’aroma della sincerità, il miglior antidoto possibile contro i miasmi dell’incorreggibile ipocrisia che caratterizza i forti coi deboli e i deboli coi forti, traspare dall’intenso scambio di opinioni. Non in chicchera. Bensì sulla scorta dello slancio dello spirito. Che trascende qualunque crasso materialismo. Coi tempi che corrono, infestati da un nemico invisibile ma spietato, intento ad aggirarsi senza tregua né pietà, è preferibile riconoscere a Cesare quel che è, è sempre stato e sempre sarà di Cesare.
Nel Bel Paese, che commemora Anna Frank senza riconoscere tuttavia a Norma Cossetto il martirio subìto rifiutandosi di rinnegare i vincoli di suolo, che intitola una piazza a Carlo Giuliani ma ignora il coraggio dimostrato da Quattrocchi, quando prima di dover coniugare la propria giovane vita all’imperfetto disse agli assassini: guarda come muore un italiano, la legittimità dell’adagio latino Quot Capita Tot Sententiae cede il passo all’inopportuno Mors Tua Vita Mea.
Debora Scalzo va dritta per la propria strada. È meglio non saltare alle conclusioni. Lei, catanese trapiantata a Milano, è una donna cortese ed energica, ironica e puntigliosa, instancabile e comprensiva. La gente, quella che a dispetto delle (auto)attestazioni di stima, davvero a buon mercato, giacché se la fanno da soli, le chiama dicotomie. Sono, all’opposto, un tratto d’irrinunciabile linearità d’animo.
L’infallibilità la si pretende unicamente dal buon Dio. Alle persone munite di coscienza è lecito chiedere di contemplare ed ergo riflettere sugli sforzi compiuti in condizioni proibitive dai tutori della legge e dell’ordine. Che certamente possono sbagliare. Perché sono umani. Al pari degli eroi del momento in ospedale allorché prendono decisioni necessarie ed estreme a causa dello scarto nefasto fra misure per fronteggiare le urgenze nosocomiali e i posti letto in terapia intensiva.
Debora, come JoAnne, ama chi è di guardia in cima a un muro, lungo le strade deserte, a causa dell’inopinata pandemia che sta mandando a carte quarantotto la patetica improntitudine dei grilli parlanti, incatenati alle false sicurezze. Ama altresì l’arte, la scrittura, le parole piene da anteporre a quelle vuote, il cinema, la moda, la famiglia, Dio e la Patria. Non mette, però, troppa carne al fuoco.
Si occupa d’ogni cosa le scalda il cuore con la scioltezza delle persone appagate. Certo la situazione attuale è preoccupante. Ed è perciò doveroso fermarsi. Almeno rispetto al tran tran. Riponendo maggiore attenzione alle cose che si davano per scontate. Tra queste ci sono i reati commessi giorno per giorno ai danni del diritto al merito.
Lei la ribalta nel mondo dello spettacolo ha saputo conquistarla step by step. Con tenacia. Ma non con alterigia. Con fermezza. Ma non la cocciutaggine ottusa. La materia grigia le piace metterla all’opera. Men Sana in Corpore Sana. Ed è innegabile che l’eclettismo vada a braccetto con le buone intenzioni care a Edmondo De Amicis in Cuore.
Tutt’altro che un testo languido, smielato, senza spina dorsale. È un capolavoro pieno di polpa, sostanza, sentimenti ed emozioni in grado di anteporre alla cifra dell’0dio quella dell’amore. Ed è con l’amore, col cuore che Debora Scalzo ha scritto il libro Io Resto Così (nella foto la copertina). Per far rigirare lo stomaco al lettore, per spingerlo a spremersi le meningi, oltre a tirar fuori il fazzoletto, a farlo sorridere tra le lacrime, a crescere dinanzi all’ingiustizia commessa a discapito di un poliziotto leale nell’anima. Deceduto mentre svolgeva con purezza, appunto, di cuore l’ingrato incarico assegnatogli. Dimenticato dai padroni del vapore. Con la memoria selettiva. Capace di ricordare soltanto quello che gli conviene. Il resto per chi ha il coltello dalla parte del manico conta poco o niente.
La giustizia, al contrario, conta infinitamente per Debora che si è compenetrata nella protagonista femminile, Stella, con la sana cognizione di compiere uno sforzo notevole. Per ricavare ispirazione dai meandri dell’inconscio, dal groviglio di solito inestricabile dei ricordi, dall’intimità custodita con maggior riserbo. Onde dare un caro caldo saluto ai luoghi comuni.
I luoghi conformi alla visione mitopoietica, viceversa, li ritiene dei pungoli per mostrare la magia del territorio che riflette il mix di scoramento ed euforia insito in ognuno. Spinto ad agire dal legame con l’habitat. Gli elementi ambientali illuminano un’ampia gamma di stimoli ed echi compositi. Per andare al punto ed essere nel cuore delle cose.
Debora ha redatto con la consueta verve Fuoco freddo (nella foto la copertina insieme all’attore Michele Rosiello), il seguito di Io Resto Così, per conferire alle componenti del reale il valore di rappresentazione dello scandaglio introspettivo. L’elaborazione del lutto per Stella, infuriata col Padreterno, a causa della sofferenza patita sin dai primi vagiti, non teme di annoiare. Anzi, l’implicita pace col Rettore dell’intero creato chiude il cerchio. Alla freddezza replica il calore umano. Frutto della voglia di vivere, sorprendere ed emozionare.
Rosiello è stato quindi ben lieto di firmare la prefazione di Fuoco freddo. Il lavoro sui personaggi da interpretare – attraverso le fasi cruciali (la reviviscenza in primis) – riguarda l’aspetto determinante del carattere d’ingegno creativo. Chiamato in causa da Debora per travalicare i limiti imposti dai Gendarmi della Memoria. Li chiamava in questo modo il compianto giornalista Giampaolo Pansa.
Debora, in veste di art director della casa di produzione Aiò, non ha mai fatto fatica ad abbinare il soddisfacimento degli obiettivi prefissi, la cura dello spirito e il bene collettivo.
Conscia dell’acume al riguardo di Oscar Wilde (L’arte non deve mai tentare di farsi popolare, mentre il pubblico deve cercare di diventare artistico), l’inesausta siciliana trapiantata nel Nord dello Stivale, duramente colpito ma non certo sconfitto dall’incedere del virus a forma di Corona che rammenta l’omonima birra ai buontemponi ansiosi di stemperare nell’ironia l’angosciosa incertezza, al marchio Italia tiene veramente. Lo scorso anno, di questi tempi, all’Arab Fashion Week di Dubai, la linea di occhiali Dstyle for Debora Scalzo Collection raccoglieva successi concreti ed effettivi. Materiali.
Chi glie lo faceva fare alla pur alacre ed efficiente Debora d’imbarcarsi in un’impresa contraddistinta da un alto grado d’incertezza come la trasposizione sul grande schermo di Io Resto Così? È semplice: l’egemonia dello spirito sulla materia. Una tantum. La deontologia dell’informazione rientra nelle dinamiche previste dall’interazione tra immagine e immaginazione. Sembra che non sia stato lasciato nulla al caso. Nessuno può dire quando avremo modo di vederlo questo film. L’editore Kimerik crede nella forza di volontà di Debora. Se ne è guadagnata appieno la fiducia. I lettori del libro possono diventare spettatori desiderosi d’identificarsi con la trama.
Il fascino della divisa non paga lo scotto alle pinzillacchere concesse dall’enfasi di maniera. Al Pacino (nella foto), in stato di grazia nelle vesti a lungo andare sdrucite, da hippy, del poliziotto sboccato ma dall’onestà cristallina che viene isolato dai colleghi corrotti in Serpico di Sidney Lumet, spiega alla perfezione cosa vuol dire il fascino della divisa: «Tutta la vita ho desiderato fare il poliziotto. Mi pare che non mai pensato ad altro. Mi ricordo che una volta, vicino casa, non so bene che era successo, una lite in famiglia, non so che, qualcuno aveva avuto una coltellata. E c’era una gran folla tutta intorno al palazzo. Io avrò avuto otto o nove anni, non più alto di così, ero corso a vedere che succedeva e vedevo quella luce rossa che girava, girava. E tutta quella folla. E non riuscivo a capire. E domandavo a tutti: sapete che è successo? Lo sapete? Nessuno sapeva. E c’era un enorme mistero dietro a tutta quella gente. E all’improvviso, la folla si divide in due. Come il Mar Rosso. E arrivano gli uomini in blu. E io dico: loro sanno!».
Debora Scalzo ha preso spunto dall’idealismo di un bimbo di nove anni, destinato a scontrarsi con l’amara realtà? O ha saputo cogliere, lontano dal fiele della scorretta informazione, delle campagne denigratorie, dei disvalori scambiati per valori, il fanciullino del Pascoli che davvero alberga nel cuore degli uomini in blu? Quelli, per capirci, che sanno. Ma non salgono in cattedra per pontificare con un tono perentorio. Quelli, senza cadere nel tormentone caro a Jannacci, che preferiscono, il più delle volte, parlare con gli occhi.
Certamente la notizia che il Maestro Marco Werba (nella foto con Dario Argento) comporrà la colonna sonora per il film tratto da Io Resto Così l’ha resa felicissima. Il celebre compositore, dopo averlo letto con schietto trasporto, ha scritto una recensione in musica. Trovate come questa provengono da coloro che padroneggiano il carattere d’ingegno creativo chiamato in causa. Debora è onorata di beneficiare del contributo di un esperto che ha già messo sulla buona strada registi del calibro di Argento e attori della levatura di Adrien Brody. Vincitore a sorpresa dell’Oscar 2003 come miglior attore protagonista, sbaragliando l’agguerrita concorrenza di Nicolas Cage, Michael Caine, Daniel Day Lewis e Jack Nicholson, per la prova fornita nell’intenso film sull’Olocausto Il pianista di Roman Polański.
Comunque il tributo massimo sarebbe il consenso del grande pubblico: il destinatario ideale. In attesa che la morsa del Coronavirus si allenti e spuntino, da copione, i raggi del sole. In Codice d’onore, quando, seppur assolti dall’accusa principale, giacché frutto di un marchingegno del colonnello Nathan R. Jessep, che ha scaricato in seguito la responsabilità su loro, i due ufficiali vengono congedati con disonore dal corpo dei marines, il vice caporale Harold W. Dawson prende coscienza degli sbagli compiuti quantunque in buona fede: «Era nostro dovere batterci per i più deboli. Era nostro dovere batterci per William».
Debora Scalzo, moglie premurosa, madre solerte, impegnata ora a tempo pieno con la sua inesauribile creatura, intenta ad adempiere a casa le innumerevoli mansioni lavorative, considera la presa di coscienza un punto d’onore. Per toccare le coscienze nel libro si è servita dell’inafferrabilità speculativa tipica della poesia. Afferrandola col carattere di presa immediata. La narrativizzazione dello stile letterario lasciando spazio al regista e alla convergenza parallela stabilita con l’autrice intenta anche a rendere onore al piglio delle donne decise a uscire dall’impasse dei traumi, dovrà dare l’acqua della vita alla confluenza tra vedere e guardare. Nella speranza di allargare le prospettive delle platee più refrattarie facendole entrare in empatia con la reviviscenza. Che dà il benservito alla cinica indifferenza. Condividere recupera emozioni che si credevano smarrite nella subcoscienza. Portarle a galla, col rispetto per i caduti della Polizia di Stato, è un atto di giustizia. Fortissimamente voluto.
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1). D / “Io Resto Così” comincia con una citazione dell’aforisma di Emily Dickinson (nella foto) in merito alla forza comunicativa della parola. Anche i silenzi eloquenti, cari nella scrittura per immagini al guru francese Robert Bresson, sembrano starti molto a cuore. Occorre, quindi, coniugare le parole piene al cosiddetto lavoro di sottrazione per chiudere il cerchio?
R / Adoro Emily Dickinson ed era per me doveroso renderle omaggio rilevandone l’acume e la grande sensibilità. Per quanto riguarda quelli che tu hai argutamente definito i silenzi eloquenti, è vero: spesso e volentieri valgono più delle parole; il libro l’ho scritto di getto, come se fosse un flusso di coscienza. È per questo motivo che inizio tutti i capitoli con una poesia, che composto allo scopo di raccontare attraverso ogni singola parola lo stimolo che mi animava nel profondo dell’anima. Tante emozioni presenti nel testo appartengono, infatti, alla mia reale sfera dei sentimenti. Che sono riuscita a comunicare grazie alle parole colme di significato e ai silenzi pieni di senso. Eloquenti. E hai ragione: sono loro a chiudere il cerchio. Perché coi silenzi, riflettendo sulla forza significante della parola, sono diventata psicologa di me stessa. Un modo per scrivere ed esporre la sofferenza, la gioia, rileggere e poter stare meglio dopo. Rielaborando.
2). D / Quanto conterebbe un supporto psicologico per chi, come carabinieri, poliziotti e poliziotte, oltre a dover fare la guerra in tempo di pace, deve fronteggiare tante incombenze difficili ed eterogenee senza seguire dei corsi di specializzazione?
R / Il poliziotto è tutto, fa un lavoro che ne comprende mille altri. Non è un lavoro e basta: è una vocazione. Un po’ come i medici: ci si nasce. Con il desiderio di aiutare la collettività e sacrificare la propria vita. Perché è davvero una vita fatta di sacrifici quella del poliziotto. La figura istituzionale di uno psicologo che lo assista effettivamente manca sul serio ed è grave che non ci sia. I poliziotti e i carabinieri sono dei ragazzi, come ogni essere umano. Con gli alti e i bassi che li condizionano. L’altalena degli stati d’animo, esacerbata dalla difficoltà dei compiti assegnati per cui a secondo delle circostanze i poliziotti e i carabinieri sono tenuti ad ascoltare i problemi dei cittadini, a sostenerli, a svolgere il compito degli psicologi, degli assistenti sociali, dei giudici, dei tutori dell’ordine, richiede l’opportuno sopporto.
3). D / Ricordi cosa diceva Al Pacino nella parte del tenente Vincent Hanna alla moglie in “Heat” di Michael Mann?: «Ho capito… insomma, dovrei tornare a casa e dire: «Ciao tesoro, sai una cosa? oggi sono andato in un appartamento dove un coglione di drogato aveva infilato il suo bambino in un microonde perché non la smetteva di piangere e ora volevo condividerlo con te. Avanti, condividiamo e così facendo, in qualche maniera, esorcizzeremo tutta la merda che sono costretto a vedere». Va bene così? No. E sai perché? … Perché devo tenermi la mia angoscia, la devo proteggere, perché mi serve, mi mantiene scattante, reattivo, come devo essere». L’angoscia, invece di tenerla dentro, va quindi comunicata?
R / Nella maniera più assoluta, Massimiliano. Un poliziotto che ha dei problemi a casa e subisce perciò maggiormente la pressione spesso è vittima d’ingiustizie. Talvolta il suo comandante gli toglie distintivo e pistola. Se ci fosse uno psicologo in grado di assisterlo, una cosa del genere non avverrebbe. Il mio desiderio, quindi, è far capire anche col film tratto dal libro “Io Resto Così” l’importanza della figura di uno psicologo affinché un poliziotto non si tenga tutto dentro, non si indurisca troppo, non prosciughi la sua umanità, non cada in depressione, non arrivi a compiere gesti estremi come il suicidio. Perché sono tanti i poliziotti che si suicidano quando non reggono la pressione. Ed è vergognoso che gli organi d’informazione non ne mettano in risalto i problemi, i crucci, l’umanità e le speranze. In “Resto così” il protagonista maschile è un poliziotto che perde la vita in servizio. Il suo collega, invece, rimane in coma. Quando rientra in servizio, non è giusto rimetterlo su una volante facendo finta di nulla. È successo qualcosa di tremendo ed estremo; d’irreparabile: fra di loro i ragazzi che fanno pattuglia sono amici-fratelli-colleghi. Un pezzo fondamentale del proprio cuore. Senza nulla togliere al collega che subentrerà e alla fratellanza che nascerà con ogni probabilità anche con lui. È comunque un dolore fortissimo che esige il supporto di uno psicologo attento e sensibile in tal senso.
4). D / Gigi Proietti (nella foto), che insieme ad altre performance degne d’encomio resta indimenticabile ne “Il maresciallo Rocca“, descrive l’arma dei carabinieri come la forza discreta lontana dal trionfalismo. Vale lo stesso per i poliziotti?
R / Sono figure importanti nel medesimo modo. Ed entrambe dovrebbero essere prese più in considerazione da chi fa informazione. Proprio perché sono una forza discreta lontano dal trionfalismo e dunque difficilmente si aprono. Sono figure che vanno scoperte. Bisogna dar loro voce. Ed è bellissimo quando avviene. A questo proposito, voglio leggerti quello che mi ha scritto un poliziotto capace di aprirsi sulla sua professione e sulle emozioni che ne conseguono: «Che cos’è un poliziotto? Un poliziotto, come tutti gli uomini, è un impasto di santo e di peccatore. È il meno desiderato. È una figura senza nome che chiamiamo signore davanti e bastardo appena ci volta le spalle. Deve essere diplomatico, capace di distinguere fra le persone e dare a ciascuno l’impressione di essere il vincitore. Ma se è cortese, è un adulatore; se non lo è, è un maleducato; se è elegante, è vanitoso; se è trasandato, è zotico. Deve prendere decisioni che un avvocato prende in un mese. Ma se si affretta, è negligente. Se indugia, è pigro. Il poliziotto deve essere il primo ad arrivare sul posto di un incidente, deve essere capace di far ripartire il respiro che si è fermato, di arrestare un’emorragia, di cucire una ferita e aspettarsi di essere citato in giudizio. Deve conoscere ogni arma, sparare di corsa, colpire dove non fa male, essere in grado di neutralizzare due uomini grossi due volte lui e con la metà dei suoi anni. Ma senza danneggiare l’uniforme né essere brutale. Se siete voi a colpirlo per primi, è un vigliacco; se è lui, è un violento. Da un cartello deve riuscire a descrivere un delitto, l’arma con cui è stato compiuto, il criminale e dove si nasconde. Ma se lo cattura, è fortuna; se non ci riesce, è un incapace. Se è promosso, ha degli appoggi politici; altrimenti, è un incapace che non vale due soldi. Il poliziotto deve essere un sacerdote, un assistente sociale, un diplomatico, un simpatico ragazzo, un gentiluomo. E deve anche essere un genio per riuscire a mantenere la famiglia con lo stipendio del poliziotto».
5). D / Il diritto al merito non esiste. La solidarietà tra colleghi però esiste. Non basta a consolarsi con l’aglietto. Ma sul piatto della bilancia – oltre al male – c’è il bene dell’affinità elettiva?
R / C’è ed è tutto oro colato. I ragazzi che lavorano in polizia me l’hanno confermato: solo guardandosi negli occhi, devono capire cosa fare in un lasso di tempo brevissimo. Un istante. Serve una lucidità mentale fuori dall’ordinario per avere mille occhi. È una virtù della forza discreta lontano dal trionfalismo. Non si pavoneggiano di avere mille occhi. Ma è giusto segnalare che è come se li avessero, ribadendo quanto sia difficile quello che fanno. Senza risparmiare mai energie. Specie in questi giorni condizionati dall’emergenza del Coronavirus nei quali le forze dell’ordine contribuiscono a vigilare sulla sicurezza di tutti noi. Con forza e discrezione, per l’appunto. Anche la mancanza di meritocrazia costituisce un’ingiustizia che va segnalata: i poliziotti sono sottopagati. E non è affatto giusto.
6). D / Per provare a rendere il mondo un posto migliore vanno allora svelate storie invisibili ed emblematiche facendo entrare in empatia con le forze dell’ordine la gente prevenuta?
R / Sicuramente la letteratura e il cinema, ancor più, sono forme d’informazione e comunicazione importanti. Ci tengo però a sottolineare che non ci devono essere ragioni di partito. Ad apprezzare il contributo coraggioso ed empatico fornito dai poliziotti ci sono gente con idee politiche diverse. La sicurezza, la sensibilità, il rispetto per chi vigila in tempi tanto funesti trascendono le opinioni di schieramento. Il cuore conta più del cervello. Ed è col cuore, oltre che con il cervello, che in questo momento sto vicino alla polizia penitenziaria. Chiamata a svolgere un compito proibitivo con i detenuti che danno in escandescenze, a causa dell’emergenza del Coronavirus, e coi loro parenti che rincarano la dose. Si tratta di situazioni quasi impossibili da gestire. Eppure i poliziotti penitenziari ci riescono. I ragazzi che fanno parte delle forze dell’ordine sono lasciati soli dalle istituzioni e dalla gente. Anche nella realizzazione del mio film, per cui sto lottando da due anni e mezzo insieme ad altre persone appassionate e desiderose di sensibilizzare l’opinione pubblica su questa tematica, mi sono sentita come loro: sola. Sono conscia che è un’affermazione forte. Ma corrisponde alla verità: ho un rapporto epistolare con molti poliziotti e abbiamo constatato di condividere la stessa solitudine. Dovuta all’indifferenza delle istituzioni, dei mass media e della gente prevenuta.
7). D / Da critico cinematografico noto che impera una falsa percezione sugli attori e sulle attrici: la gente crede che siano persone frivole, privilegiate, che appartengano a un mondo dorato, che pensino solo ed esclusivamente a fare la passerella sul tappeto rosso dei festival; invece per aderire appieno ai personaggi da interpretare vanno in profondità attingendo a ricordi ed emozioni personali che gli altri rimuovono. Accade la stessa cosa ai poliziotti secondo te?
R / Certo che accade. Con le debite differenze, ovviamente. Ma ti ringrazio per quello che hai messo in risalto sulla recitazione. Perché mi dà modo di riflettere. Qualunque lavoro che si compie su se stessi per dare qualcosa agli altri è difficile e merita perciò rispetto. Ultimamente, insieme a mia sorella, ho visto un film decisamente toccante: “18 regali” di Francesco Amato. Ho trovato Vittoria Puccini (nella foto) bravissima. Mi ha trasmesso i brividi. La parte di Elisa che, prima di morire per un male incurabile, lascia al marito Alessio e ad Anna, la figlia, una lista di regali di compleanno, per seguire la propria creatura dal cielo fino alla maggiore età, le calza alla perfezione. Io la reputo una grandissima attrice: mi piace da impazzire! Nella conferenza stampa, come ben sai, ha detto di aver trovato un’alchimia speciale col personaggio di Elisa perché ha perso la mamma da giovane. È stata cazzuta. Ed per questo che sono entrata in empatia con la sua magistrale prova recitativa. Cosa che sono chiamati a fare pure i poliziotti quando, magari pur avendo una situazione difficile in famiglia o addirittura un divorzio alle spalle, intervengono in aiuto di una coppia ai ferri corti. E per farlo, riflettendoci, tirano in ballo la loro umanità. Aiutandoli sul serio ed entrando, così, in empatia. Senza coltivare l’indifferenza.
8). D / In “Io Resto Così” la geografia emozionale non ti è indifferente. La conduci dalla teoria alla prassi. I luoghi, specie quelli napoletani, sono come persone in carne ed ossa? R / Mi fa piacere che te ne sei accorto. E mi piace molto anche la definizione geografia emozionale per descrivere l’intesa che si stabilisce tra habitat ed esseri umani. I luoghi sono un po’ come le fotografie. Racchiudono l’emozione legata al ricordo; per cui hanno qualcosa d’immortale. Che innesca la memoria. Solo che le fotografie le puoi vedere da casa mentre i luoghi necessitano della presenza di chi li vive. È sacrosanto rimarcarlo in giorni particolari, con le strade deserte per arginare il Coronavirus, per contenerlo. C’è chi riesce a lavorare da casa. Chi deve inevitabilmente uscire per adempiere ai propri incarichi. Utili alla collettività. Ma quando potremo uscire tutti di nuovo, passata questa tempesta, da affrontare con responsabilità e a testa alta, i luoghi acquisiranno un fascino anche maggiore rispetto a quello, pur fortissimo, che hanno adesso. Napoli, in particolare, mi è cara. Hai visto giusto: sento un’emozione incredibile quando giro per i suoi quartieri, per i suoi luoghi. Da Piazza del Plebiscito al Rione Sanità. Dov’è nato il Principe Antonio De Curtis, Totò. Quando ho visitato il cimitero di Santa Maria del Pianto, la lapide con la meravigliosa poesia “La livella” (nella foto) dinanzi alla tomba del più grande attore di tutti i tempi mi ha emozionato tantissimo. Ed è un fulgido esempio di geografia emozionale.
9). D / Debora, parlando del Principe, con me sfondi una porta aperta. Lo ritengo il Pelé del cinema. Tanto ne “I due marescialli” quanto nel meno conosciuto, ma bellissimo, “Il comandante” Totò (nella foto) ha dimostrato che gli uomini d’armi sono per molti versi candidi come dei bimbi. Molti sono convinti del contrario. Lo scopo del tuo libro, nonché del film in preparazione, consiste nel rovesciare i luoghi comuni?
R / Ribaltare gli stereotipi negativi e ingiusti è uno scopo che mi sono prefissa quando ho scritto il libro “Io Resto Così”. Ed è il fine più urgente del film. Un conto sono i luoghi legati alla geografia emozionale. Quelli vanno benissimo. Un altro paio di maniche sono i luoghi comuni. Non vanno bene per niente. Sono sinceramente stufa di veder associata Napoli all’immagine eccessivamente negativa che gli ha dato “Gomorra”. Dal best seller di Saviano, il film, sino alla serie televisiva. Napoli è tanto di più di una città maledetta dal Dio del Vecchio Testamento. Non è un concentrato di malavita e di piazze con lo spaccio a cielo aperto. C’è decisamente dell’altro. È una città con un bagaglio di umanità ed erudizione che onora l’Italia. È un autentico patrimonio. Basta pensare a Totò. Un degno figlio di Napoli: geniale ed esilarante. Ma anche schietto, immediato, eppure estremamente signorile. Un fior di galantuomo.
10). D / Vincenzo, il protagonista di “Io Resto Così”, è una sorta di nipotino del Principe De Curtis?
R / Sì. Vincenzo ha un’anima pulita. È un signore. Ed è vero pure che Totò incarnandoli ha colto dal vivo lo spirito degli uomini d’armi. I poliziotti conservano il candore dell’infanzia, lo slancio degli anni verdi e dell’idealismo. Fanno presto i giovani ad apostrofarli. Se li fermano è per il loro bene e per la sicurezza di tutti. Come stanno facendo nell’era del Coronavirus. I poliziotti sanno essere corretti ma altresì decisi.
11). D / Anche tu sei dolce ma, al contempo, tosta. A una sceneggiatura di gomma hai anteposto per il film una di ferro?
R / Ci tengo a dedicare il film ai caduti della Polizia di Stato. Specialmente a Giuseppe Iacovone (nella foto). Era un ragazzo di ventotto anni, come il mio Vincenzo di “Resto così”. Deceduto per un incidente stradale. In servizio. È morto durante un inseguimento. Il giudice ha emesso una sentenza che assolve l’imputato perché “il fatto non sussiste”. L’imputato gira quindi a piede libero. Mentre le spoglie di Giuseppe stanno al camposanto. Il reato che “non sussiste” mi ha fatto incazzare molto. Chiedo scusa per l’espressione.
12). D / Quanno ce vo, ce vo. Come si dice a Roma. Questa incazzatura ti ha spinto pure a mettere i puntini sulle “i”?
R / La sentenza emessa dal Tribunale di Isernia mi fa imbestialire perché è come se Giuseppe non fosse mai esistito. È come se non avesse mai indossato una divisa. È come se non fosse stato in servizio. Invece c’era. Per restituire anche nell’adattamento sul grande schermo il giusto ricordo di Giuseppe, perché per noi impegnati in quest’operazione cinematografica lui sarà sempre presente in spirito, occorreva una sceneggiatura di ferro. Come l’hai definita tu. L’attore che interpreterà Vincenzo da piccolo ha proprio quel candore di cui hai parlato con il riferimento a Totò ne “Il comandante”.
13). D / Non è un caso che il film si concluda con Totò, generale a riposo, che gioca sulla sponda del laghetto di Villa Borghese coi modellini radiocomandati. Nel video in cui compare Vincenzo piccolo hai fatto però le cose sul serio bussando alla coscienza di tutti con una domanda significativa. Come mai?
R / Domando quanto valga la vita di un poliziotto. Chiedo se vale il costo di caffè. Sai perché l’ho messa in questo modo? Perché, in conformità coi turni, dalle diciannove a mezzanotte, da mezzanotte alle sette di mattina, dalle sette alle tredici, dalle tredici alle diciannove l’abitudine di prendersi insieme un buon caffè per i poliziotti, prima di entrare in servizio, è vitale. È un rito. Dopo iniziano gli interventi. Dato che sono un valore aggiunto al nostro Paese, uscire idealmente con loro sulla volante, guardare il video dedicatogli, donare un euro è il minimo. Perché equivale a contribuire, uno per uno, al film dedicato alle forze dell’ordine. Al decoro che li contraddistingue. Di cui quasi nessuno parla. Abbiamo una tematica ragguardevole, che porta allo scoperto cose poco note ma degne di essere segnalate; abbiamo un ottimo cast, abbiamo Marco Pollini (nella foto) alla regìa, che sa il fatto suo. Siamo pronti ad arrivare sul set con l’intera troupe. Chiaramente una volta finita quest’emergenza che ha bloccato tutto per ragioni di sicurezza. La raccolta fondi, nondimeno, resta legittima.
14). D / Nell’era del Coronavirus l’informazione, che rende giustizia a figure colpevolmente ignorate, e la sicurezza, garantita da chi mette a rischio la propria nell’espletamento del servizio, contano tantissimo. Il cinema fa informazione?
R / Quando è un film d’impegno, d’autore, animato dal desiderio di rendere giustizia, sì: fa corretta informazione. Secondo i migliori princìpi deontologici. Nella mia pagina ufficiale su Facebook sono solita scrivere: uniti vinciamo. Ed è vero. Per rendere giustizia a eroi che mettono a repentaglio, come hai rimarcato, la loro sicurezza, per garantirla ai cittadini, occorre strenuo impegno. Non per modo di dire. Non serve solo un autore. Bensì più d’uno. Io, come artefice del libro e dell’adattamento per il cinema, ho stabilito un’intesa con Pollini. Per informare gli spettatori attraverso il linguaggio delle immagini. Una prerogativa dell’arte e degli autori con la maiuscola. Spetterà infine a Pollini tenere tutto sotto controllo e imprimere il suo marchio stilistico. È un lavoro di squadra. Attraversiamo un momento d’incredibile pericolo. La giustizia conta più d’ogni altra cosa. Spero che si possano porre le basi per onorarla.
MASSIMILIANO SERRIELLO