A colloquio con Elena Bonelli sulla forza della tradizione e sullo slancio dell’avvenire
IL SENSO D’APPARTENENZA DI UNA CORIACEA ARTISTA CHE VIVE DI VERITÀ
Una conversazione con Massimiliano Serriello
Domani – 25 luglio – Elena Bonelli (nella foto) presenterà il suo ultimo libro a Forte San Gallo di Nettuno, dopo averlo disquisito alla Feltrinelli di Euroma2. Certamente non ci si annoierà. Poco ma sicuro.
Premere sull’acceleratore non le serve. Né l’interessa. Anziché mordere il freno, in cerca di confortanti ed ennesimi consensi, lei guarda con serafica tranquillità alla forza della tradizione. La calma delle persone forti come la cantante romana de Roma, divenuta legittimamente ambasciatrice della Città Eterna in giro per l’intero globo, non esclude i palpiti della commozione e l’indomabile grinta della goccia capace di bucare l’ostica roccia sulla scorta dell’indefessa ostinazione.
Puntare i piedi è un atteggiamento vanesio; tenere fede, invece, ai vincoli di sangue e di suolo è indice di lodevole caparbietà. Riuscire ad appaiarli all’ampia gamma di stimoli, intellettuali ed emotivi, rappresentati dall’approfondimento storico, dall’inesausta voglia di apprendere e comunicare, senza mai pagare dazio alle secche dell’inane retorica, o peggio alle pose vanesie dell’improntitudine delle false dive, equivale a chiudere il cerchio. Il palcoscenico Elena Bonelli l’ha saputo conquistare step by step, palmo a palmo. Grazie al talento, alla schiettezza dei modi “pane al pane, vino al vino”, alle eclettiche virtù ad appannaggio d’ogni artista sia da bosco che da riviera.
Aver insegnato l’inno di Mameli ai giocatori della Nazionale italiana di calcio, dapprima bloccati dall’alta densità lessicale dell’ode alla rinascita dell’antico sentimento patrio e poi trionfatori al Mondiale del 2006 coi trascinanti versi cantati con fierezza a squarciagola prima dei match vinti sulle ali del ritrovato entusiasmo, è motivo di soddisfazione.
Che l’accosta per certi versi al professor Keating del cult movie L’attimo fuggente di Peter Weir. Lo spettacolo pirotecnico delle frecce tricolori all’aeroporto militare di Pratica di Mare, dove atterrarono gli azzurri freschi vincitori del titolo di campioni del mondo, la gioia della gente lungo le strade e l’inno cantato dagli atleti ubriachi di felicità al Circo Massimo, guidati dal capo-ciurma Fabio Cannavaro (nella foto), non diverranno mai ricordi coperti di polvere.
Aliena al profluvio di fronzoli od orpelli con cui molti esponenti dello spettacolo cadono nel ridicolo involontario, cercando di nobilitare la perenne battaglia di apparenza ed esteriorità, Elena punta al sodo. Alla sostanza, alla polpa, alle cose che non sono scivolose. Bensì corrispondono all’ordine vigente in natura. Impreziosito dalla perenne sete di sapere, dal piacere di scoprire, dalla fiera consapevolezza di emozionare concittadini, compatrioti, uomini introversi ma sensibili, donne all’antica, moderne. Avvinte dall’ammaliante linea melodica dei sonetti, dai polmoni alieni alla stanchezza, dalla profondità della musica cosiddetta leggera, dalle radici popolane. Che cementano l’orgoglio di unire incanto e disincanto, cinismo bonario e trasporto poetico, sarcasmo congenito ed empatia sincera.
L’ammirazione per Gabriella Ferri (nella foto), inobliabile interprete della cantica capitolina, in grado d’immedesimarsi con altrettanta foga ed epidermica partecipazione nei componimenti partoriti ai piedi del Vesuvio, costituisce uno sprone infinito. La roboante certezza che la tenacia nel proseguirne l’itinerario artistico ed etico, umano ed entusiastico scaldi altresì il cuore delle nuove generazioni contribuisce a custodire i fulgidi flashback dell’altalena di sgomento e attese, di aneliti e fremiti congiunti alle composite sonorità, al ritmo, ad astuti lemmi entrati nel mito. Un mito estraneo alla zotica boria delle star lontane dai fiatoni del tran tran giornaliero.
Saper ghermire sintonie, discordanze, speranze, soprassalti d’ira, afflati di fiducia in carezzevoli inversioni di tendenza, nel rispetto della consuetudine preservata dal nuovo che avanza senza alcun rispetto per l’atmosfera d’intimità complice e rasserenante garantita dalla facoltà di ricordare, significa comprendere il senso compiuto tanto dell’aura contemplativa quanto dell’immediatezza espressiva.
La memoria è alla base degli ammaestramenti impartiteli all’Actors Studio. Le fasi di conoscenza, reviviscenza e incarnazione, indirizzate ad affinare l’idoneo processo di analisi per congiungere la sfera delle trepidazioni personali alle dinamiche interiori ed esteriori del personaggio da interpretare, hanno permesso alla determinata Elena Bonelli di capire appieno l’enorme potenziale dell’immaginazione artistica. Il teatro naturalistico appreso alla scuola dell’esperto Gigi Proietti (nella foto) ha completato l’opera. Abbinando al mezzo conoscitivo racchiuso nella ricerca della spiritualità, frammista alla materia incandescente delle perentorie azioni fisiche degli animali da palcoscenico, il controcampo mimico alla vigoria della parola. Coi risvolti tragicomici, ed esilaranti persino talvolta, posti sul medesimo piano del linguaggio aulico.
Al potere dell’affabulazione, che spinge il pubblico all’ammirazione incondizionata e talora addirittura a sprovvedute manifestazioni di esaltazione, la signora Bonelli preferisce l’antidoto contro l’inopportuno fanatismo. Individuato nella vena battagliera che la esorta a salire sul palco snudando l’anima. Col balzo in avanti della vocalist non certo priva di carisma ma munita pure di umanità, trasparenza, bisogno costante di sani confronti.
Oltre ad Anna Magnani, altro immenso punto fermo della romanità orgogliosa, accigliata, incline ad alternare l’energia vitalistica manifestata “a tutta callara”, come si suol dire nell’Urbe, ai momenti riflessivi pieni di tenebrosa inquietudine, Elena costeggia ugualmente esami comportamentistici particolari, promuove la carica fantasiosa della tecnica mimica, pronuncia versi in inglese, nel corso di serate sinfoniche dal respiro planetario, tiene lezioni sulla storia della lirica locale e lancia progetti audaci. Alcuni dei quali fanno storcere la bocca ai puristi persuasi che alcuni brani restino immortali ed ergo intoccabili.
Al cinema, dietro e davanti la macchina da presa del musical con cadenze comedy A Est di New York (nella foto), la geografia emozionale, che favorisce il passaggio dal semplice ‘vedere’ allo scrupoloso ‘guardare’, è divenuta una musa zeppa di echi e controechi. Che le hanno consentito di trascendere l’impasse delle banalità scintillanti per ricavare dalla crudezza oggettiva del territorio eletto a location, indifferente dinanzi ai sospiri e agli indugi dei sogni infranti, l’intensità morale insita nel processo formativo della fiaba.
La virtù di scrivere con la luce, garantita dall’alacre direttore della fotografia che aveva già conferito ai timbri cromatici di Nuovo cinema Paradiso il riverbero introspettivo del panegirico sul tempo perduto dall’amara esistenza di tutti i giorni e riconquistato al meglio nella magia del buio della sala, stenta però ad accorpare l’esimia fiaccola dell’arte ai tratti distintivi dei film per adolescenti.
Sebbene la cinefilia la coinvolga assai meno rispetto al teatro, inteso nella sua accezione di spettacolo dal vivo che rinsangua il mood melodrammatico, infiamma l’estro, rimedia in tal modo alla freddezza dell’intelligenza, mette d’accordo cuore e cervello, Elena Bonelli dispone d’una ricca tastiera di accenti dall’adesione tempestiva ed erudite sfumature. Conformi alla fabbrica dei sogni commemorata da Giuseppe Tornatore in Nuovo cinema Paradiso (nella foto).
Tutt’altro che paga del progetto per il rilancio della canzone romana nel mondo, frutto dell’intesa con Pippo Caruso e Carlo Lizzani, dell’avvolgente percorso psicologico compiuto con lo spettacolo teatrale dal titolo Elena, Nannarella e Gabriella, rivivendo la storia d’amore, nonché di dolore, della sofferta Anna Magnani con Roberto Rossellini, al pari dell’impasto di scoramento ed euforia dell’immensa Ferri, definita dal visionario Federico Fellini “un pagliaccio di razza”, l’indomita Bonelli non prende niente sottogamba. Scrivere il libro Dallo stornello al rap, ripercorrendo le vicissitudini dei motteggi in rima da un balcone all’altro della Roma trasteverina, verace, dalla battuta aguzza, sino all’originale soluzione di continuità ravvisata nei duelli ritmici e stradaroli di Eminem in 8 Mile del compianto Curtis Hanson (nella foto), esula dall’enfasi di maniera. Il tenerume lo lascia volentieri ad altri. La tenerezza, unitamente all’agilità d’intonare inni venerati dai seguaci del valore terapeutico dell’umorismo, mischiando sacro e profano per infondere al guanto di sfida lanciato ieri dallo stornello, oggi dal rap, l’idea sovrana dello sport, raggiunge, viceversa, il diapason.
Il fatto predominante rimane il desiderio di celebrare le radici, di comprendere le convenzioni, di anteporre ai limiti dei pregiudizi un discernimento fondato su intuizioni fulminanti, sulla prontezza di riflessi che presiede al ritratto degli antesignani. Incessanti discepoli dell’Università della Strada. Somma Maestra. Alla stregua delle università vere e proprie. Perché, Edoardo De Filippo docet, gli esami non finiscono mai. Ed è giusto che ciò continui ad avvenire: non si rischia di pagare dazio alla noia di piombo. L’unico inconveniente, secondo Alberto Moravia, realmente irrimediabile. Al Guerra & Pace Film Festival, giunto alla diciottesima edizione, sanno che Elena, in veste di ospite, saprà catturare l’interesse di tutti. Grazie alla verve della combattiva cantante adoperatasi per la pace nel mondo.
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1). D / Qual è stato il training a cui hai sottoposto i giocatori della Nazionale italiana di calcio affinché cantassero l’inno di Mameli dopo decenni d’indugi e monosillabi pronunciati a fior di labbra?
R / Li ho messi nelle condizioni di cantarlo. Con le parole e la musica. Con la musica senza le parole. Con la musica e le parole. Con la musica e i toni più bassi. Con gli appositi semitoni. In Si bemolle.
2). D / Ed è così che, si fa per dire, è avvenuto il miracolo?
R / Sì, a forza d’insistere. Cercando di fornir loro tutti gli input possibili e immaginabili.
3). D / Essere ambasciatrice di Roma nel mondo è un onore o un onere?
R / Entrambe le cose. Essere definita la voce di Roma è gratificante ma al contempo rappresenta uno stimolo per dimostrarmi all’altezza. Soffro per questa città. Simile a un uomo bello ma scapestrato che delude le attese, genera gioia e strazi, tiene chi lo ama sul filo del rasoio.
4). D / Ami Roma anche nei suoi cali di personalità?
R / Ma certo. D’altronde non è colpa sua. È colpa di qualcun altro…
5). D / A buon intenditore, poche parole. Di parole invece era prodiga Anna Magnani, detta Nannarella, che nell’incipit di “Mamma Roma” (nella foto) disputa per mezzo degli stornelli una sorta di match, alla Eminen, riuscendo ad appaiare incanto e disincanto. Gli opposti si attraggono?
R / Adoro Anna Magnani. Rappresenta la quint’essenza di una Roma che negli anni ha perso molto del suo fascino. Lei, Nannarella, ci sapeva fare con le parole, conciliando come giustamente hai evidenziato gli opposti, perché era una donna colta, preparata, istruita, legata allo stesso tempo alla tradizione romana degli sfottò, all’abitudine ad aguzzare l’arguzia gli uni degli altri con le prese in giro, all’assoluta vena ironica venata di amarezza dei carrettieri le cui voci rimbalzavano lungo i vicoli e i sanpietrini.
6). D / Con la musica leggera – mantenendo la stessa metrica – sono previste alcune varianti. È possibile giocare. Con la musica popolare romanesca occorre fare le cose solo sul serio per non incorrere in accuse di empietà oppure è possibile unire tradizione, progresso ed elementi ludici?
R / Significa esattamente questo: unire progresso, tradizione e anche divertimento. Intendo perciò far conoscere ai più giovani la canzone di ieri e ai meno giovani la canzone di oggi. La paura che la romanità venga coperta dal falso progresso come sono stati coperti i suddetti sanpietrini dall’asfalto, cancellando un pezzo di storia e d’identità, è palpabile. Io non eseguo stornelli. Li ho studiati: è diverso. La canzone popolare romana si fa portavoce del malcontento plebeo, di rabbie, di speranze, di sdegno nei riguardi dei potenti ipocriti. Il passaggio cruciale è quello appunto dallo stornello alla canzone romanesca, che ne costituisce un’evoluzione. Ed è qualcosa di giocoso, se vuoi, che tuttavia si fa molto sul serio. In modo professionale.
7). D / Cosa rispondi a chi borbotta, ritenendo un sacrilegio unire il folklore romano e americano?
R / Lo lascio borbottare. Evidentemente non capisce l’operazione che mantiene, come tu stesso hai sottolineato, uno sguardo sul futuro senza distogliere quello improntato sul passato e sul rispetto della tradizione.
8). D / Tanto lo stornello quanto il rap raccontano i sentimenti fermentati nell’Università della Strada?
R / Senza alcun dubbio. Ne colgono gli umori, la tendenza a lasciarsi dominare dalle simpatie, o dalle antipatie, a seconda delle circostanze, in relazione alla natura popolana degli ambienti dove avvengono incontri e scontri. Lo stornello è a rime baciate o alternate: sono endecasillabi. Il rap lo stesso. Gli stornelli romaneschi ricorrevano ai nomignoli. Il rap pure. Si tratta di racconti di strada, riguardanti in primo luogo la lotta per il potere e lo spettro della disoccupazione, mutuati attraverso i secoli.
9). D / Lo «studio matto», per dirla alla Leopardi, necessario ad approfondire le componenti antropologiche ed etnologiche connesse ai due mondi, messi in parallelo tramite l’attenta analisi delle varie consonanze, è un bagaglio importante?
R / Mi ha fatto crescere come persona. Prima gli studiosi pensavano alla sottoscritta come a una cantante e un’attrice. Oggi per loro sono diventata un topo di biblioteca. Al di là però delle definizioni, comunque ben accette, allargare il bagaglio culturale, partendo dalla laurea conseguita da ragazza in lettere e in lingue con indirizzo teatrale sino ad arrivare a questo lungo viaggio dallo stornello al rap, mi ha davvero arricchito intellettualmente ed emozionato profondamente.
10). D / Anche i duelli di Eminen in “8 Mile” (nella foto) con la rima rap, allo scopo di guadagnare il rispetto e imporre la propria capacità di accoppiare parole ed emozioni, ricordano le sfide di Nannarella?
R / Decisamente. Ed è giusta l’interazione che poni in risalto perché nella sua etimologia la parola stornello, che proviene dal francese provenzano, richiama ai campi di battaglia. Ed è appunto una battaglia quella che fanno Anna Magnani in “Mamma Roma” ed Eminen in “8 Mile“. Lei con l’uso degli stornelli romaneschi. Lui con il rap.
11). D / Lei, Nannarella, come si dice a Roma, nun se batte, quando, riferendosi all’ingenua sposa del suo ex protettore, intona: «Fiore de menta, fermete lingua che c’è una innocente; è meglio che nun veda e che nun senta». Aveva ragione, dunque, Anna Magnani: la messa va detta cantata?
R / Fa parte integrante della tradizione romana. Con l’improvvisazione, a braccio, e la voce che supplisce alla mancanza della musica. Il sacro e il profano coesistono con il concetto di battaglia; l’ispirazione è dettata sul momento dalla volontà di raggiungere, costi quel che costi, lo scopo prefisso. Lo stornello era usato da moglie e marito quando litigavano, dalle bande rivali. Decise a stornare. Ovvero a restituire l’offesa, il dileggio, la presa in giro ricevuta. Un modo per rendere pan per focaccia e tenere banco. Come quando s’insegna la bibbia. Senza darsi arie professorali.
12). D / Nonostante l’ammirazione e l’affetto che nutri per Anna Magnani, attrice simbolo del nostro cinema, il contatto diretto col pubblico ti accende di più?
R / Il contatto diretto col pubblico, garantito dagli spettacoli a teatro e dai concerti, mi accende sicuramente. Gli stimoli sono fondamentali per me. Costituiscono la linfa vitale per poter fare sempre meglio e sintonizzarmi sulla stessa lunghezza d’onda di chi vuole emozionarsi. Tenere vivo, per esempio, il ricordo di un’artista eccezionale, inquieta e trascinante, come la grande Ferri, in “Elena, Nannarella e Gabriella“, innalza le tavole del palcoscenico e l’atmosfera che vi si respira mentre mi cimento nei monologhi, nelle canzoni, nei richiami citazionistici congiunti all’esistenza d’una donna unica.
13). D / Il dialetto napoletano è ritenuto Patrimonio dell’Unescu. Per interpretarlo ha preso piede il sentimento dell’immaginazione artistica o è prevalsa la spontaneità? R / È prevalsa la spontaneità. Lavorando, inoltre, con il regista napoletano Roberto De Simone (nella foto) sono riuscita ad affinare tutti i punti di connessione del vernacolo romanesco con quello partenopeo. Cantare «Malafemmena» e «O Sordato Innamorato» mi viene naturale tanto quanto cantare «Sinnò me moro» e «Nina si voi dormì». Sono brani che sprigionano energia allo stato puro. Ci metto la stessa grinta, il medesimo sentimento.
14). D / Ed è un modo per far capire che la canzone romana vale quanto quella napoletana.
R / Né più né meno. Ne sono fortissimamente convinta.
15). D / Sei dunque fiera di farti portavoce di questo diritto al merito. Che merito ha l’aletheia, intesa come svelamento della verità, per chi, oltre a interpretare certi sentimenti, li prova sulla propria pelle rimarcando, insieme alla sete di sapere, il rilievo poetico svelato dal desiderio di comunicare?
R / È qualcosa d’irrinunciabile. Io vivo per la verità. Quando un domani si sapranno le mie storie di vita personali, di cui per ora non ho messo a parte nessuno, sarà ancora più lampante quanto tenga alla verità. È un valore che difendo con le unghie e con i denti: per preservarlo sarei disposta a farmi impiccare. Di norma nell’ambiente degli artisti e delle artiste il carattere d’autenticità non è invece così importante; prevale la finzione. Per me è inconcepibile, al contrario, fingere di provare dei sentimenti. Li voglio provare. Solo così posso comunicarli.
MASSIMILIANO SERRIELLO