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Pandemia e il “diritto del Mare”: l’Italia sommersa dalle migrazioni

LA LUNGA NOTTE delle IPOCRISIE 
IN UN PAESE SENZA REGOLE 

Torquato Cardilli

Per anni l’Italia è stata sotto schiaffo da parte dell’Europa in materia di profughi e rifugiati che approdano sulle nostre coste con l’aiuto di Ong non limpide o con ogni mezzo e sotterfugio possibile, profittando anche di connivenze o complicità di italiani disonesti e infedeli verso il proprio paese.


Quando il nostro Governo ha timidamente cercato la radicale riforma dell’accordo capestro di Dublino e la solidarietà dei 27 partner europei, la maggioranza di essi si è girata dall’altra parte, una minoranza ha mostrato la faccia feroce contro di noi ed un’altra esigua minoranza è rimasta silenziosa, sicura di non essere coinvolta.
Il risultato che da Bruxelles abbiamo portato a casa su questo fronte è stato irrilevante, anzi dalla Francia e dalla Germania abbiamo dovuto subire anche il regalo della restituzione forzata di migranti che erano entrati in Italia come terra di passaggio per recarsi oltre frontiera e dall’Austria la temporanea chiusura delle frontiere sorvegliate militarmente .
Sono stati anni di chiacchiere inutili e di ipocriti tentativi di pattugliamento con le varie operazioni marittime congiunte da Mare Nostrum a Sophie ecc., oppure di finte redistribuzioni degli immigrati a livello europeo come da ultimo concordato a Malta.

A livello bilaterale con la Libia c’è stata una commedia degli inganni pazzesca: da una parte le nostre anime belle chiedevano la chiusura dei campi lager libici, luoghi di maltrattamenti, soprusi, abusi, estorsioni e torture, dall’altra insistevano che bisognava rafforzare il sistema di controllo delle acque territoriali da parte della marina libica che andava aiutata in mezzi navali, soldi e addestramento e infine chi chiedeva il sigillo ai nostri porti.
Risultato? I soldi sono finiti ben presto nelle grinfie delle milizie che controllano i flussi, i mezzi navali vengono impiegati solo se saltano gli accordi spartitori del bottino tra i trafficati di carne umana e i guardiacoste libici, il sigillo ai porti è impraticabile.
Da epoca non sospetta ho sostenuto che l’Italia, vista la incapacità o impossibilità o mancanza di volontà libica di impedire le partenze di barconi e gommoni, avrebbe dovuto dichiarare il temporaneo limite delle proprie acque territoriali sulla battigia del golfo della Sirte e impedire con il sabotaggio a terra di ogni natante per evitare che prenda il largo. Piccolo inciso: quando Gheddafi dichiarò l’estensione delle proprie acque territoriali dalle 12 miglia riconosciute dal diritto internazionale alle 200 miglia chi osò obiettare? Nessuno.
E questa è un’ulteriore dimostrazione che in politica estera vale il fatto compiuto fino a quando non sono minacciati gli interessi diretti di una grande potenza.

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In altre parole è arrivato il momento per l’Italia di operare un blocco navale serio e non all’acqua di rose. Del resto i nostri servizi di intelligence sanno benissimo dove sono le basi dei trafficanti, quali sono i mezzi a disposizione, quali i rifornitori, quali i canali del contrabbando di petrolio, quali le banche e i canali finanziari, quali le complicità italiane ecc., mentre i nostri reparti specializzati del Comsubin (incursori e palombari), un’élite a livello mondiale, sono perfettamente in grado di rilevare anche un micro canotto da diporto familiare. Gli incursori possono avvicinarsi a bordo di un sottomarino, servirsi di droni e elicotteri ed operare in assoluta segretezza. Efficacia e rapidità. Estendere il proprio mare territoriale fino a lambire l’Africa non significherebbe violare i principi del diritto del mare che non possono essere applicati alla terraferma.
L’Italia non insegue avventure, però ha il diritto di salvaguardare la salute dei propri cittadini e la protezione degli interessi strategici. Il sud del Mediterraneo è affollato: la flotta americana si muove come nel laghetto di casa, quella francese accompagna i giochi di influenza di Parigi, i russi hanno basi in Siria e flirtano con Haftar, i turchi non solo litigano con i Greci per Cipro e le isole, ma sono arrivati sulle coste africane che una volta facevano parte del califfato ottomano ed intendono rimanervi.

Ora, strano a dirsi il Coronavirus è venuto in nostro soccorso perché di fronte ad una pandemia che appare inarrestabile, e che lo sarà sempre di più soprattutto in Africa ove le misure igieniche e sanitarie sono assolutamente deficitarie, sono saltati i richiami ai principi del “diritto del mare”.
Se è un dovere morale salvare la vita di chi è in pericolo [Convenzione ONU sul diritto del mare (UNCLOS); Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita in mare (SOLAS), che impone agli Stati l’obbligo di adottare disposizioni “per la sorveglianza delle coste e per il salvataggio delle persone in pericolo”; se c’è un obbligo dello Stato di indicare il place of safety (POS)], esiste a monte l’obbligo primordiale e superiore a tutti gli altri dello Stato, che funziona solo grazie alle tasse dei suoi contribuenti, di proteggere in ogni modo la vita dei propri cittadini.
Non si tratta di stabilire la chiusura dei porti che violerebbe il diritto internazionale, ma di proteggersi a monte da un’immigrazione clandestina senza controllo, portatrice anche del virus. Del resto che senso ha sospendere i voli con certi paesi, impedire a determinate compagnie aeree di fare scalo nei nostri aeroporti, quando non si chiude il colabrodo delle frontiere marittime? Quale senso di equità può essere ravvisato tra la durezza nei confronti di cittadini solitari sulle spiagge inseguiti dai droni e dai vigili o contro i dimostranti pacifici che vengono multati perché protestano per le condizioni commerciali e poi si permette, senza alcuna forma di repressione, che immigrati portatori del virus approdino o addirittura scappino dai centri di raccolta? Quale giustizia è quella delle severe restrizioni di movimento nei treni, negli esercizi commerciali, nelle scuole quando agli immigrati si lascia libertà di scorrazzare senza limiti?

In epoca di Covid-19, lo Stato non può essere travolto dall’emergenza, cui invece bisogna reagire, ben sapendo che gli intenti criminali degli scafisti e la disperazione delle persone che fuggono dalle persecuzioni o cercano una vita migliore non sono impediti da un virus, anche il più letale.
C’è un regolamento sanitario internazionale, firmato a Boston il 25 luglio 1969 ed entrato in vigore il 1 gennaio 1971 che può essere invocato per tutelare la salute dei propri cittadini perché all’art. 84 dispone misure cautelative addizionali proprio nei confronti degli emigranti, dei nomadi, degli stagionali.
Questo regolamento è stato liberamente sottoscritto anche dai paesi, fonte della immigrazione in Italia, come Algeria, Burkina Faso, Burundi, Camerun, Centro Africa, Ciad, Congo, Costa d’Avorio, Etiopia, Gabon, Ghana, Guinea, India, Kenia Libia, Egitto, Niger, Nigeria, Mali, Marocco, Ruanda, Siria, Somalia, Sri Lanka, Tanzania, Togo, Tunisia, ecc., che sarebbero tenuti a riprendersi i propri fuggiaschi.
Il rapporto con la Tunisia è di tutt’altro tipo: è un paese che sta sprofondando in una drammatica crisi economica acuita dalla rarefazione turistica con milioni di disoccupati e i tunisini lasciano la propria terra con mezzi di fortuna (zattere, gommoni, barchini ecc.). Anche qui un blocco navale con l’obbligo di riportare al traino da parte di mezzi della nostra marina nelle acque territoriali tunisine ogni natante proveniente da quei lidi. Il capitolo della cooperazione con il rubinetto degli aiuti economici e commerciali dovrebbe essere la carta da giocare per indurre il Governo di Tunisi a riprendersi i fuggiaschi.

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