La tragedia del Vajont … 9 Ottobre 1963, quasi 57 anni fa
Vajont: una diga da primato, ma coi piedi d’argilla
___________Francesco Leccese
Nella notte del 9 ottobre 1963 si consuma una delle più gravi tragedie nella storia delle costruzioni. Quello che doveva essere il vanto dell’ingegneria italiana nel mondo passerà alla storia con tutt’altro primato e sarà ricordato come il Disastro del Vajont.
Alle ore 22:39 del 9 ottobre 1963 una massa rocciosa di circa 270 milioni di metri cubi si stacca dal fianco sinistro del monte Toc e frana nel serbatoio idroelettrico formato dalla diga del Vajont. L’impatto provoca un’onda di 50 milioni di metri cubi e alta centinaia di metri, che scavalca lo sbarramento della diga. In tre minuti l’apocalisse si abbatte sul territorio circostante sconvolgendo la vita di migliaia di persone causando quello che le cronache dell’epoca hanno definito come «l’olocausto di duemila vittime».
Una diga al confine
Il monte Toc si erge al confine tra le regioni di Veneto e Friuli-Venezia Giulia.
Sul versante occidentale del Toc, a valle, scorre il fiume Piave, al di là del quale si trova il Comune di Longarone, in provincia di Belluno. Da Longarone, una strada di curve e tornanti si arrampica sul monte Toc. VPercorrendola, dopo circa 7 chilometri si raggiunge la diga del Vajont, nel Comune di Erto e Casso, in provincia di Pordenone.
Un progetto faraonico più volte rimaneggiato
La storia della diga del Vajont, opera ingegneristica realizzata da Carlo Semenza per conto della SADE (Società Adriatica di Elettricità), risale al 1926. Il progetto, rispetto alla struttura originaria, aveva subito, nel corso degli anni successivi, una serie di interventi di aggiornamento fino ad arrivare al 1958. Nel 1960, a lavori ultimati, la diga del Vajont deteneva un primato mondiale: era la diga più alta del mondo, con uno sbarramento di 261,60 metri, e un serbatoio con un volume di 168,75 milioni di metri cubi.
La SADE e la nascita del progetto
La Società Adriatica di Elettricità (SADE) fu fondata nel 1905 da Giuseppe Volpi, conte di Misurata. Egli aderì al fascismo e fu ministro delle Finanze dal 1925 al 1928: durante tale periodo, fece approvare misure a sostegno delle società impegnate nella realizzazione di nuovi impianti idroelettrici. In virtù di tali leggi, società come la SADE ebbero la possibilità di usufruire di finanziamenti a fondo perduto fino al 60% per la costruzione di tali impianti.
Nel 1926, i dirigenti della SADE decisero di costruire un bacino artificiale sfruttando le acque del torrente Vajont. Il progetto, affidato all’ingegnere Carlo Semenza, si avvalse delle relazioni e degli studi del geologo e paleontologo, nonché docente universitario Giorgio Dal Piaz.
L’idea era di convogliare nel bacino le acque del Piave e dei suoi affluenti per ottenere una riserva idrica in grado di compensare i periodi di siccità. In questo modo, attraverso il posizionamento di tante piccole centrali idroelettriche in punti strategici, sarebbe stato possibile sfruttare una soddisfacente quantità di energia idroelettrica anche nella stagione estiva.
Nel corso degli anni Trenta la SADE costruì sette impianti idroelettrici lungo il corso del Piave e dei suoi affluenti. Il bacino idrico derivante dalla costruzione della diga del Vajont avrebbe funzionato come una banca dell’acqua: il serbatoio, con una capacità di 58 milioni di metri cubi, avrebbe uguagliato da solo la portata degli altri sette impianti più piccoli.
Il progetto iniziale subì nel corso degli anni diverse modifiche sempre accompagnate dalle relazioni del professor Dal Piaz.
Dallo scoppio della Seconda guerra mondiale al 1943
L’influenza del Conte di Misurata durante il periodo fascista fu notevole. Dal 1934 al 1943, Volpi fu il presidente della “Confederazione generale fascista dell’industria italiana”. Nonostante ciò, il progetto dell’ingegner Carlo Semenza, indicato col nome di Grande Vajont, inoltrato agli uffici del ministero dei Lavori Pubblici, si arenò con lo scoppio della Seconda guerra mondiale.
Il 15 ottobre 1943, nei giorni di drammatica confusione che seguirono l’8 settembre, mentre gli uffici dei ministeri a Roma erano pressoché vuoti, la IV Sezione del Consiglio Superiore del ministero dei Lavori Pubblici si riunì per approvare il progetto del Vajont. Al voto parteciparono 13 dei 34 componenti il Consiglio: non raggiunsero il numero legale dei consiglieri, ma il progetto fu comunque approvato.
L’approvazione del progetto e l’espropriazione dei terreni
Il 18 marzo 1947 Vittorio Cini, conte di Monselice, componente per quasi vent’anni del consiglio di amministrazione della SADE, fu nominato presidente della società, sostituendo Volpi. Il 21 marzo del 1948, con decreto firmato dal presidente della Repubblica Luigi Einaudi, il ministero dei Lavori Pubblici accordò alla SADE la concessione per i lavori del Grande Vajont. Il progetto prevedeva la costruzione di una diga alta 200 metri e di un serbatoio idrico di 58,2 milioni di metri cubi.
Nel 1956 cominciarono i lavori. I dirigenti della SADE iniziarono a trattare con il Comune di Erto e Casso per l’acquisizione dei terreni necessari alla realizzazione del progetto «di pubblica utilità». Anche i contadini e gli abitanti della Valle furono costretti a vendere le terre valutate a un prezzo inferiore all’effettivo valore, sotto la minaccia di un esproprio forzoso. Il malcontento era alimentato anche dal senso di impotenza di fronte a un potere che appariva al di sopra delle leggi di quello stesso Stato che lo aveva legittimato. Da diversi anni, infatti, i tecnici della SADE effettuavano sopralluoghi e sondaggi sulla roccia. Le operazioni comportavano franamenti, divieti al transito, oscillazione di case e terreni, con conseguenti danneggiamenti alle proprietà degli abitanti. Nessun dirigente della società, né il Comune, né altri, tuttavia, tennero conto di ciò che la popolazione era stata costretta a sopportare.
L’inizio dei lavori e le prime avvisaglie
Nel gennaio del 1957 i dirigenti della SADE iniziarono i lavori di scavo preparatori alla costruzione della diga, prima ancora di aver ottenuto tutte le autorizzazioni necessarie. Questo fu un tratto distintivo delle modalità operative della SADE: prima iniziavano i lavori, anche a fronte di cambiamenti progettuali, e poi arrivavano, puntualmente, le autorizzazioni ministeriali.
Fin da subito, le caratteristiche geologiche del monte Toc si presentarono difformi da come erano state valutate in sede progettuale. La roccia appariva friabile, poco compatta a causa della sua formazione sedimentaria. I paesi della Valle del Vajont poggiavano su antiche frane assestate nel corso dei secoli.
Si ritenne necessaria un’ulteriore consulenza, questa volta accordata allo specialista austriaco professor Leopold Müller. Lo studio del professore, completato in agosto, evidenziò il pericolo di frane di grandi dimensioni, causate dalle operazioni di invaso e svaso del futuro serbatoio idrico.
Nel frattempo, il 2 aprile 1957 l’ingegner Carlo Semenza firmò un nuovo progetto per l’innalzamento della diga da 200 a 266 metri e della quota del lago artificiale da 677 a 722,50 metri slm. La capacità massima dell’invaso sarebbe aumentata fino a 150 milioni di metri cubi: quasi il triplo rispetto al progetto iniziale.
Persino il fidato consulente del progetto, il professor Dal Piaz, espresse dei dubbi al riguardo ma alla fine si convinse a firmare il progetto che, inoltrato al ministero dei Lavori Pubblici, fu approvato in via definitiva. Tuttavia, dato che la relazione del geologo Dal Piaz si riferiva al vecchio progetto (quello del ’48), l’autorizzazione fu accompagnata dalla richiesta di una nuova perizia geologica.
La SADE progettò anche una strada di circonvallazione panoramica, che avrebbe costeggiato il lago artificiale. La nuova strada comportò nuovi espropri. Prima di ottenere l’autorizzazione per la costruzione della strada, la SADE iniziò i lavori: gli operai impiegati nel progetto notarono insolite fessurazioni nella roccia. Intanto, l’ingegnere capo del Genio Civile di Belluno, Renzo Dessidera, ordinò l’immediata sospensione dei lavori, perché non autorizzati. Il giorno seguente, una lettera urgente firmata dal Ministro dei Lavori Pubblici, Giuseppe Togni, fu consegnata all’ingegner Dessidera, il quale fu trasferito in altra sede.
Il primo aprile 1958, il presidente della IV Sezione del Consiglio Superiore del ministero dei Lavori Pubblici designò i componenti della Commissione di collaudo, incaricati di monitorare l’avanzamento dei lavori. Di questi, i commissari Frosini e Greco non avrebbero potuto ricevere la nomina, perché facevano parte della Commissione che approvò il progetto; il commissario Francesco Penta, inoltre, lavorava come consulente privato della SADE. Il regolamento sui lavori di competenza del ministero dei Lavori Pubblici fu approvato in aperta violazione della normativa con evidenti anomalie anche per la neocostituita Commissione di collaudo.
Il Consorzio per la rinascita della valle ertana e il processo a Tina Merlin
Il 22 marzo 1959, domenica di Pasqua, l’operaio Arcangelo Tiziani, guardiano del bacino artificiale di Pontesei, distante cinque chilometri in linea d’aria dalla diga del Vajont, viene travolto da una frana di detriti rocciosi. La diga e l’invaso idroelettrico di Pontesei furono realizzati dalla SADE su progetto dell’ingegner Semenza. La notizia destò preoccupazione tra i dirigenti della SADE, ma ancor più preoccupati furono i valligiani del Vajont. Il 3 maggio 1959, nella casa del CRAL a Erto, centoventisei famiglie del luogo si riunirono per formare il Consorzio per la rinascita della valle ertana.
Tina Merlin fu l’unica giornalista a dar voce ai timori di queste persone: sarà lei a scrivere sull’Unità, ben prima del 9 ottobre 1963, in seguito ai risultati di una perizia geologica indipendente, dell’esistenza di un pericolo incombente. Fu ipotizzato che una massa di decine di milioni di metri cubi di roccia avrebbe potuto franare dal monte Toc e precipitare nel bacino artificiale del Grande Vajont, con conseguenze catastrofiche soprattutto per la popolazione del Comune di Longarone.
A causa di questo articolo, Tina Merlin e il direttore responsabile dell’Unità furono citati in giudizio il 25 agosto del 1960, per aver pubblicato «notizie false e tendenziose, atte a turbare l’ordine pubblico». Nel novembre di quell’anno, entrambi furono assolti.
Intanto, il 2 dicembre 1959 un altro tragico evento allarmò i valligiani e gli uomini della SADE: lo sbarramento della diga di Malpasset, in Francia, cedette provocando un’onda di 50 milioni di metri cubi d’acqua che travolse l’abitato di Malpasset e raggiunse la cittadina di Frejus. Le vittime accertate furono 421.
Verso la nazionalizzazione
La SADE decise di proseguire i lavori alla diga del Vajont nonostante le relazioni allarmanti del professor Leopold Müller e gli esiti delle ricerche dei geologi Franco Giudici ed Edoardo Semenza (figlio del progettista) che confermarono l’esistenza di una paleofrana in movimento sul fianco del monte Toc.
Il 4 novembre 1960 il livello dell’acqua del bacino artificiale raggiunse i 650 metri slm. Nello stesso giorno, sul monte Toc si formò una fessura a forma di “M”, lunga circa 2,5 chilometri. I lavori, tuttavia, dovevano proseguire in vista della nazionalizzazione. Il 12 dicembre 1962 fu pubblicata in Gazzetta Ufficiale la legge che nazionalizzò la produzione dell’energia elettrica, istituendo l’ENEL. La SADE, le sue attività e i suoi dipendenti furono trasferiti all’ENEL il 14 marzo 1963. In questa occasione, i contributi a fondo perduto che la SADE percepì per la realizzazione del progetto non furono contabilizzati.
La notte dell’ “olocausto di duemila vittime”
Il 9 ottobre del 1963, alle ore 22:39, una massa rocciosa di circa 270 milioni di metri cubi si staccò dal fianco sinistro del monte Toc e franò nel serbatoio idroelettrico formato dalla diga del Vajont. L’impatto provocò un’onda di 50 milioni di metri cubi e alta centinaia di metri, che scavalcò lo sbarramento della diga. Longarone, un piccolo Comune nella valle del Piave, fu travolto e spazzato via dalla imponente massa di acqua e fango. Sempre in terra bellunese, vengono distrutti anche i paesi di Pirago, Faé, Villanova e Rivalta.
Un’altra onda si riversò a monte della diga, in terra friulana, abbattendosi sui villaggi di San Martino e Spesse.
La sera del 9 ottobre si giocava la finale di Coppia dei Campioni tra Glasgow Rangers e Real Madrid. Alle 22:39 la terra a Longarone e nella valle del Vajont iniziò a tremare. Un bagliore illuminò la notte, poi il buio. La frana, rovesciando nel bacino artificiale, aveva provocato l’interruzione della corrente elettrica. Si avvertì un boato. Poi l’onda d’urto, seguita dall’onda d’acqua mista a fango che aveva scavalcato la diga. La potenza dell’onda d’urto dovuta allo spostamento d’aria è stata paragonata a quella sprigionata dalla bomba atomica sganciata su Hiroshima nel 1945, la Little Boy.
Si contarono 1917 vittime, di cui 1450 nella sola Longarone, il Comune più colpito dalla tragedia del Vajont. Giampaolo Pansa, inviato speciale per La Stampa, ricorda Longarone come un «deserto lunare». Pansa aveva ventotto anni la mattina del 10 ottobre del 1963; arrivato sul luogo del disastro, vista la sua giovane età, fu così ammonito dal collega Guido Nozzoli de Il Giorno: «tu la guerra non l’hai vista. Vai avanti che la vedrai».
Tina Merlin, autrice del libro Sulla pelle viva, nel quale ha raccontato i retroscena del “caso Vajont” e i soprusi della SADE ai danni del popolo di Erto e Casso, scriveva: «La storia del “grande Vajont”, durata vent’anni, si conclude in tre minuti di apocalisse, con l’olocausto di duemila vittime».
I processi e le condanne
All’alba del 10 ottobre 1963 i carabinieri confiscarono la documentazione riguardante il Vajont conservata negli archivi della SADE. Seguirono Commissioni d’inchiesta, istituite prima dal ministero dei Lavori Pubblici, poi dal Parlamento, nonché dall’ENEL. Le relazioni finali erano contrastanti.
Il 21 febbraio 1968 furono inviati i mandati di cattura nei confronti di Alberico Biadene, Mario Pancini, Pietro Frosini, Francesco Sensidoni, Curzio Batini, Francesco Penta, Luigi Greco, Almo Violin, Dino Tonini, Roberto Marin e Augusto Ghetti. L’ingegner Carlo Semenza e il professor Dal Piaz erano deceduti da tempo, prima ancora della catastrofe. Anche gli imputati Penta e Greco scomparvero di morte naturale prima dell’inizio del processo. Mario Pancini, invece, si tolse la vita il 28 novembre 1968, il giorno precedente l’apertura del processo.
Seguirono condanne e ricorsi. Tra gli avvocati della SADE vi fu il futuro presidente della Repubblica, l’avvocato Giovanni Leone (1971-1978). Il processo si concluse nel 1971, col pronunciamento della IV Sezione Penale della Corte di Cassazione. Biadene e Sensidoni furono giudicati colpevoli di inondazione aggravata dalla previsione dell’evento, nonché degli omicidi causati dalla frana.
Sensidoni fu condannato a tre anni e otto mesi, di cui tre condonati. Biadene fu l’unico che scontò la detenzione in carcere: fu condannato a cinque anni, di cui tre condonati. Fu un detenuto modello e si guadagnò uno sconto di pena.
Condanne di risarcimento in solido arrivarono anche alle due società Montedison (la SADE vi confluì) ed ENEL. Nel 1997 si chiuse definitivamente il processo relativo al disastro del Vajont: 22 miliardi di lire (poi rivalutati in 77) la somma, a titolo di risarcimento, da corrispondere ai Comuni danneggiati e ai parenti delle vittime.
Quel che resta del Grande Vajont
Il caso-Vajont impressionò l’opinione pubblica ed evidenziò i problematici rapporti fra i centri del potere, quello industriale e quello politico. La giornalista Tina Merlin fu l’unica, come si è detto, a lanciare l’allarme prima ancora che si verificasse la catastrofe, sulle pagine dell’Unità. Merlin continuò a raccontare e a tenere viva la memoria del disastro anche negli anni seguenti, pubblicando il libro intitolato Sulla pelle viva. Trovò un editore soltanto nel 1983.
Nel 1997 fu trasmesso su Rai 2 lo spettacolo Il racconto del Vajont del drammaturgo e attore Marco Paolini, il quale ricostruì con dovizia di particolari tutti i retroscena del caso, fino al suo tragico epilogo. In tale occasione vinse l’Oscar della televisione per il miglior programma televisivo dell’anno.
Nelle sale cinematografiche, nel 2001 uscì il film Vajont del regista Renzo Martinelli: il film ripercorre gli ultimi anni prima del disastro ed evidenzia lo strapotere con cui i dirigenti della SADE operarono.
La diga resistette all’onda di quel 9 ottobre, sopportando una sollecitazione dieci volte superiore a quella prevista dal progetto. Oggi la diga è ancora lì. Percorrendo la statale 51 di Alemagna, all’altezza di Longarone la si può intravedere.