Con uno dei titoli più sfortunati della stagione, ma che allude a una delle aperture più studiate e affascinanti negli scacchi professionistici, The Queen’s Gambit è la storia di formazione di Beth Harmon, la giocatrice-prodigio che si è distinta in questo sport strategico a metà degli anni ‘60. Femminile, feroce e con un’estetica impeccabile, la miniserie, basata sul romanzo La regina degli scacchi di Walter Tevis (1983), ci presenta la mistica degli scacchi come non l’abbiamo mai vista prima.
Con molti i parallelismi con la storia del Gran Maestro e ultimo Campione del Mondo statunitense, Bobby Fischer, ovvero andando contro ogni previsione e dopo aver scoperto in tenera età un interesse e un genio innato per gli scacchi, la matematica e intuitiva Beth (interpretata da Anya Taylor-Joy) mira a dominare il mondo in quel microcosmo che è la scacchiera. Per dirla con le parole della protagonista, la scacchiera “è un mondo in 64 caselle. Un posto dove sentirsi al sicuro. Prevedibile, controllabile”.
E in effetti, come già sottolineava il famoso best seller di Katherine Neville, The Eight (incentrato sulla ricerca zelante di dei leggendari scacchi magici appartenuti a Carlo Magno), nel corso della storia è sempre esistito un innegabile desiderio di padroneggiare la scacchiera, sia letteralmente che metaforicamente. In questo caso, nello sforzo di organizzare il suo caotico mondo interiore, Beth impara a disporre i suoi pezzi seguendo il suo intuito, e sviluppando uno stile di gioco unico. Come il New York Times descrisse nel suo necrologio il genio tormentato cui si ispira questo personaggio, Fischer è stato il più potente giocatore americano della storia e anche il più enigmatico:
Fischer vinse con tale talento e stile da diventare un rappresentante indiscusso della grandezza nel mondo degli sport competitivi, proprio come lo sono stati Babe Ruth o Michael Jordan.
Ed è forse proprio dal tentativo di svelare quel mistero, e affrontare la genialità e il supplizio che spesso accompagnano i grandi prodigi, che emerge il personaggio di Beth Harmon. Tuttavia, per questa giovane donna, nonostante l’ossessione e l’ambizione che il gioco le suscita, gli scacchi “non sono solo competitivi”, sono qualcosa di bello, una dimora dove trova rifugio intellettuale e che dà senso alla sua esistenza, dopo essere rimasta orfana ed essere stata spogliata, quand’era ancora molto piccola, dei suoi pochi averi e ricordi.
Dopo l’abbandono paterno e la morte della madre biologica, essendo solo una bambina, Harmon impara a conoscere e perfeziona le sue abilità giocando a scacchi con il bidello nel seminterrato dell’orfanotrofio, e intanto svilippa (sempre in segreto) una pericolosa dipendenza dai tranquillanti, che paradossalmente sembrano non solo aiutarla a evadere, ma potenziare la sua capacità strategica. Questa vita in bilico, passata saltando da una famiglia disfunzionale all’altra, condurrà la protagonista ad abusare di droga e alcol, qualcosa di inaudito per un’adolescente, ma che però spiega perfettamente come le dipendenze si trasformino sempre nello stucco con cui pretendiamo di riempire quelle crepe che sono le ferite dell’anima.
Divisa tra delicatezza e ferocia, caratterizzata da un’intelligenza acuta e non priva di eccentricità, Harmon percorrerà la sua strada verso il successo internazionale, partecipando a gare e ottenendo riconoscimenti. Senza sacrificare la propria femminilità, riuscirà progressivamente a distinguersi in un mondo prevalentemente maschile, in cui per antonomasia, negli anni ‘60, avrebbe potuto subire un doppio pregiudizio, una doppia discriminazione: come donna fuori dai canoni in un’epoca in cui i ruoli femminili erano ancora perlopiù limitati a quelli di moglie e madre; e come giocatrice femminile in un ambiente dominato quasi esclusivamente da uomini – com’era e in parte è ancora quello delle competizioni scacchistiche.
Infatti, sebbene dal Medioevo al XVIII secolo le partite di scacchi tra uomini e donne di ceto alto figurino come un tema ricorrente nell’arte e della letteratura, nel XIX secolo il mondo degli scacchi è passato a essere dominato dagli uomini. E così è stato fino al XX secolo, quando alcune giocatrici come la britannica di origini russe Vera Menchik sono riuscite timidamente a rompere l’egemonia maschile e a partecipare alle competizioni con loro.
Garry Kasparov, considerato uno dei migliori giocatori al mondo, assicura che questa miniserie a suo parere è la fiction più realistica che sia mai stata realizzata sugli scacchi, che peraltro è uno sport molto poco visivo. Magari è per via di quella brillante e golosa estetica di cui sopra, con cui è stato portato sullo schermo, o anche per la presenza guida di un personaggio carismatico e complesso come quello di Harmon, che The Queen’s Gambit è diventato in poche settimane, e grazie al passaparola, la serie tv più guardata su Netflix.