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La parabola di un leader finita nel “cupio dissolvi”, ovvero il crepuscolo del senatore Matteo Renzi

dal “PANTA REI” al “Sic Transit Gloria Mundi”

Torquato Cardilli

Il filosofo Nietzsche, riferendosi ad Eraclito di Efeso ne magnificò il pensiero, riassunto da Platone nella formula del “panta rei” tutto scorre. 
Di questo principio non sembra aver tenuto conto nella politica italiana il peggiore rappresentante della società fiorentina, litigiosa e inconcludente, erede di un passato di congiure volte alla conquista del potere, incurante di contribuire alla decadenza istituzionale nel momento più grave per il paese, con milioni di persone sul lastrico ed un’epidemia disseminatrice di lutti che non accenna a diminuire.

Per un uomo che ha avuto un’alta responsabilità di Stato a livello di guida di Governo e che è capo di un partito politico, comportarsi in modo onorevole vuol dire agire entro binari precisi del bene pubblico che non consentono personalismi, significa essere conscio delle conseguenze per il paese delle proprie azioni, significa riconoscere come principio non negoziabile il rispetto per gli altri che non possono essere offesi impunemente, significa mantenere con onore la parola data anche a scapito della perdita di potere e di privilegi.  
La crisi di Governo innescata in funzione anti Conte ha rappresentato il punto di caduta della parabola di Renzi, durata sette anni, che ha perseguito con volontà masochistica la propria autodistruzione, condita da teatrale cafonaggine.

Dopo l’incredibile successo alle elezioni europee del 2014 (40% dei voti) che gli aveva consentito di presentarsi a Bruxelles da primo ministro, come Presidente di turno dell’Unione Europea e leader del più grande gruppo parlamentare è scivolato progressivamente in una pericolosa voragine di scelte sbagliate. Rivendicando in modo spavaldo il ruolo di Telemaco contro la generazione precedente, ha confidato esclusivamente sul suo ego smisurato, alimentato dalla cerchia di adulatori e degli ambienti economici famelici di favori e commesse.  
Ha creduto di poter superare ogni difficoltà presentandosi con spregiudicatezza e cinismo come il rottamatore-riformatore del XXI secolo, ma è incappato in macroscopici errori che gli hanno alienato le simpatie popolari all’interno e la considerazione all’estero tanto che persino il Times lo ha definito “demolition man”.

Convinto che il fallimento del referendum sulle trivelle, da lui espressamente boicottato in ossequio alle lobby del petrolio, gli avesse fatto ottenere un successo politico di proporzione storica, ha  finito per perdere il contatto con la realtà. Era sicuro di vincere e di rafforzare la propria leadership, ma ha sbagliato clamorosamente.  
Le elezioni amministrative del 2016 con le sonore sconfitte a Roma, a Torino e in 19 ballottaggi su 20, sono state l’equivalente della battaglia di Lipsia persa da Napoleone. Ha lasciato sul campo milioni di elettori, passati ad ingrossare le file dell’opposizione o dell’astensione.

Ignorando che le azioni mentono più delle parole, incline all’eloquio teatrale da comiziante del bar di paese con una gestualità e tonalità insopportabili, privo di vera cultura politica, di senso dello Stato e dell’onore, anziché licenziare chi lo spingeva verso il baratro, ha scomunicato gli oppositori interni trattandoli come eretici.

Il responso delle urne del referendum costituzionale del dicembre 2016 è stato durissimo. Un cazzotto nello stomaco che ha fatto crollare miseramente ogni sogno di gloria, di grandezza, di conquista del potere in modo totale. Sempre contornato da personaggi ubbidienti che non hanno l’ingegno, l’acume e la capacità di proporre analisi realistiche, né di accettare che la sconfitta sia la fotografia del rifiuto di qualche milione di elettori di sinistra di continuare ad appoggiare un partito schierato sulle formule del liberismo e dell’affarismo, è rimasto praticamente solo. 
Nell’incalzare delle critiche, ha rassegnato le dimissioni da primo ministro, e successivamente anche da segretario del partito, ma anziché sparire dalla vita politica come affermato e promesso solennemente in TV in caso di insuccesso referendario, ha fatto finta di ritornare con l’alterigia di sempre al villaggio natìo, convinto di poter continuare a comandare da dietro le quinte mirando ad una sua resurrezione nella gestione del potere. Se risponde a verità l’affermazione che “l’uomo vale quanto la sua parola” Renzi vale proprio poco.

Dopo appena un anno, contro candidati zoppi, ha riconquistato la segreteria del partito ma non ha fatto autocritica per i rovesci subiti, non si è liberato dei pretoriani adulanti e, con la solita sicumera, ha immaginato di riscattarsi per il ritorno a Palazzo Chigi, desiderio covato dalla sconfitta referendaria.

Nelle elezioni comunali del  2017 però i numeri hanno certificato l’ampiezza del disastro: il PD ha perso metà dei voti ed allora vedendo un orizzonte fosco ha preparato le liste elettorali per le elezioni politiche dell’anno successivo riempiendole di fedelissimi. Nel 2018 la travolgente avanzata del M5S lo ha cacciato all’opposizione come un pugile messo al tappeto che pensa solo alla rivincita. 

L’occasione di giocarsela gli è stata servita nell’estate su un piatto d’argento da Salvini che ha commesso harakiri. Sfruttando l’insperata rottura della Lega con il M5S, ha fortemente sostenuto la necessità della formazione del Governo Conte II, salvo comportarsi, il giorno dopo il giuramento come lo scorpione sulla rana. Insofferente di non essere più capo partito senza il potere di condizionare il Governo, se ne è andato dal PD portandosi dietro due ministre, un sottosegretario e una sessantina di parlamentari per fondare un partito personale.

Anche in questa nuova veste, dopo un anno di convivenza con Conte non ha sopportato più di essere un politico di seconda fila ed ha ordinato alle sue ministre di dimettersi aprendo la crisi di Governo proprio nel momento della peggiore emergenza sanitaria economica, sociale. 
Ignorando che la sua carriera politica era al crepuscolo, la prorompente voglia di rivalsa lo ha fatto assomigliare a Sansone.

L’apertura di una crisi senza avere in tasca o in mente la soluzione per il dopo è stato un azzardo, la mossa disperata del giocatore di poker sull’orlo della disfatta che gioca tutto il resto che ha davanti in un colpo solo sperando di sbancare l’avversario.  
Ma le azioni, si sa, mentono più delle parole. Pur sbandierando ufficialmente che i motivi di fondo della sua scelta di insanabile rottura con Conte sono il Mes e il Recovery plan, in realtà, stando alle robuste voci in circolazione, Renzi, che non sopporta di essere stato soppiantato da un uomo nuovo mai prima impegnato in politica, voleva a tutti i costi un rimpasto di Governo per aumentare la propria visibilità e per prendersi il ministero dell’Economia proprio in vista degli appetitosi 209 miliardi del programma di ricostruzione europeo.

Il suo bluff è stato scoperto. Il netto rifiuto di Conte e del PD di sacrificare il proprio ministro Gualtieri lo ha mandato in bestia. Poiché niente è più facile che ingannare se stessi e credere con cocciutaggine in tutto ciò che si desidera, ha perso il controllo ed ha lacerato il rapporto di leale collaborazione per avviarsi alla fine del viale del tramonto.

 

 

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