IL TIRO AL PICCIONE DEI FRATELLI D’INNOCENZO
I CORSI E I RICORSI STORICI DEL TIRO AL PICCIONE: I FRATELLI D’INNOCENZO E IL CRITICO DA COMPRARE
Tiro al piccione è un libro bellissimo ma negletto. Scritto da Giose Rimanelli. Ed è divenuto un film altrettanto bello e altrettanto negletto. Diretto da Giuliano Montaldo. Il più bel film sulla Repubblica Sociale Italiana. Insieme alla miniserie televisiva Notti e nebbie. Diretta da Marco Tullio Giordana. Ma al di là dell’eccezione che conferma la regola sia sul piccolo sia sul grande schermo (certi argomenti in Italia sono tabù), i corsi e ricorsi storici del classico tiro al piccione confermano che chi «se la sente calla», come si dice a Roma, maramaldeggia con chi conta poco e niente o con chi in quel momento, per un motivo o per l’altro, non si difende o non può difendersi. Sarà mia premura approfondire l’argomento per la Consul Press.
Mi riferisco al tiro al piccione compiuto dall’universo social nei confronti di Pietro Castellitto (nella foto), che a Sette, il settimanale del Corriere della Sera, edito da RCS MediaGroup, ha dichiarato: «Non credo esista un posto più feroce. Chi è cresciuto a Roma Nord, ha fatto il Vietnam. Ma è un mondo anche tremendamente delicato e crepuscolare. Un mondo dove i valori basilari dell’esistenza – voglia di potenza, di bellezza, di soldi e successo – sono ancora in voga. Dinamiche indicate come negative dal mio mondo di provenienza e da buona parte della società civile» (l’intervista di Pietro Castellitto a Sette, il settimanale del «Corriere della Sera»). Il secondo tiro al piccione lo ha compiuto il regista romano Fabio D’Innocenzo ai danni di un hater su Instagram.
L’hater è un utente aggressivo, insolente, che dà giudizi lapidari. Nascondendosi dietro l’anonimato. Questo vero o presunto hater in particolare ha scritto su Instagram: «Vediamo se i grandi fratelli D’Innocenzo sono riusciti a fare un film più brutto del primo, ma soprattutto più brutto del secondo». Ora l’uscita è certamente poco elegante. La risposta è stata penosa. Tralasciando le pusillanime bestemmie tipiche di chi non crede in Dio e di conseguenza nemmeno nei santi in paradiso perché li cerca sotto forma di raccomandazione sulla terra per avere le spalle coperte. Poi ci si chiede, senza pagare dazio ad alcun tipo d’incongruenza sulla falsariga della celebre favola La volpe e l’uva di Esopo, come mai il 95 per cento dello spettacolo dal vivo e del marketing sia museale sia artistico risulti «sotto diretta papagna» a livello economico delle lobby che da una parte si fanno allegramente i fatti loro e dall’altra danno moralisticamente (sic!) del reazionario a chiunque la pensi o agisca diversamente. E quindi autonomamente. Per quanto possibile. Con buona pace del diritto al merito. Che diventa una chimera. Se non una barzelletta. Ragion per cui non merita una menzione a parte il ritorno a Canossa con la cenere in testa del buon Fabio cicchettato dal fratello gemello Damiano. Chiude sostenendo di voler ascoltare le critiche nei suoi riguardi in merito alla mancanza totale di stile e coraggio. Che si acquistano nella vita, sui banchi di scuola e nella ressa delle strade: un marciapiede, si sa, può uccidere o insegnare a vivere (chi vive la strada non ha bisogno di guardare sul divano di casa American History X: pochi giorni fa a Grottarossa, sulla Cassia, cadendo dopo aver ricevuto una testata in seguito a uno dei tanti alterchi il malcapitato ha battuto l’orecchio perforandosi il timpano). Dubito, anche se me lo auguro, tornando a bomba, che il diretto interessato (Fabio D’Innocenzo insieme al fratello gemello Damiano) leggerà questo articolo. Che non è comunque scritto a noura perché suocera intenda. In merito ad America Latina, l’ultima fatica dei fratelli D’Innocenzo (per chi non lo sapesse Fabio i film li dirige con Damiano), dirò la mia più in là. Ho recensito il loro film d’esordio, La terra dell’abbastanza: lo considero un apologo sull’università della strada degno di nota. L’ho recensito sulle pagine del quotidiano Il Roma. E ci ho messo il nome e il cognome nell’articolo. Com’è normale che sia. Ho poi recensito il loro secondo film, Favolacce: lo considero con tutto il rispetto che si deve avere per uno sforzo più grande di qualunque recensione un modesto noir che diviene un noir spurio. Senza arrivare nemmeno alla caviglia di Amarsi un po’ (nella foto) dei fratelli Carlo ed Enrico Vanzina. In grado col sorriso di comunicare molte più cose sulle classi sociali, sulla tensione che le domina, sul bisogno di vivere una favola anche se si è romanacci. E ci ho (ri)messo il nome e il cognome.
L’articolo in questione è uscito su MondoSpettacolo. Per quanto riguarda la questione di lana caprina sulla buccia di banana in cui è inciampato Fabio D’Innocenzo (nella foto), trascinandosi dietro il fratello Damiano (onore e onori dei legami di suolo e di sangue), ritengo che anche un illustre sconosciuto abbia diritto di esprimere dissenso. Mantenere lo stile, specie per iscritto, resta la prerogativa degli individui duri nella lotta ma leali nell’animo. Degli uomini d’onore. Che non giudicano un’altra persona in base ai soldi, all’influenza, alla disciplina di fazione, al peso politico che esercita o meno, all’utilità. Avere una bella casa o dirigere un bel film sono virtù. I critici che stroncano i registi senza santi in paradiso per poi tenersi buoni i registi con i santi in paradiso, nella speranza di guadagnare soldi facendogli da ufficio stampa, si commentano da soli. Stessa cosa i registi che maltrattano i critici del sabato sera o della domenica (che però pagano il biglietto senza beneficiare degli accrediti stampa) per poi tenersi buoni i critici che contano. I cosiddetti opinion leaders. Senza ricordarsi che i critici delle testate famose, salvo rare eccezioni, scrivono quello che vuole il padrone del giornale per cui lavorano.
Si chiama linea editoriale. Ma forse questo i registi forti coi deboli e deboli coi forti lo sanno bene. Personalmente non mi lamento: ho gli accrediti stampa; scrivo quello che penso, rifuggo dalle distorsioni maliziose e considero l’asservimento ideologico una iattura. Riporto qui sotto, per intero, il pensiero in merito a questa vicenda, su cui è giusto in seguito stendere “ettari”, mica uno, di velo pietoso, che ho scritto di botto sui social. Mettendoci nome e cognome.
I Fratelli D’Innocenzo rispondono scrivendo al termine di un botta e risposta su Instagram ai limiti del ridicolo involontario “ti compro fallito” al critico senza ammanicamenti, tipo quello interpretato da Pierfrancesco Favino in “Posti in piedi in paradiso” di Carlo Verdone, che giudica uno più brutto dell’altro i loro film e trattano bene il critico che ha una bella casa ed ergo, si presume, più soldi di loro. Io, da critico fiero di non avere né cercare santi in paradiso a discapito della correttezza d’informazione, e ancor prima come uomo, non compro nessuno né mi faccio comprare. Ed è per questo che credo nell’egemonia dello spirito sulla materia. È per questo che non scrivo parolacce. Ma, se serve, le dico in faccia. È per questo che do più credito al mio vicino di casa, il signor Michele, che ha meno soldi dei fratelli D’Innocenzo ma ha più valori, più coraggio, più onore, conosce più la strada e la terra, sulla Cassia, vicino al Parco di Veio, che da buon calabrese trapiantato a Roma sa coltivare. Senza dare due lire ai seguaci del materialismo storico e dialettico. Che ringhiano attraverso una tastiera, vorrebbero comprare la gente e raccontano una borgata senza averla mai davvero frequentata. Tolto ciò, avevano (hanno e avranno sempre) ragione Franco Califano e René Clair: il resto è noia; il silenzio è d’oro. Mi limito a fare un’ultima considerazione: il nomen omen dei cognomi e dei nomi non è automatico. Non spetta a me dire se sono una persona che fa le cose al massimo delle possibilità concesse e in modo serio. Anche se mi chiamo Massimiliano Serriello. Però posso affermare che i fratelli D’Innocenzo in questa ennesima vicenda di leoni da tastiera (è dal vivo che si ringhia ed è sempre dal vivo che si snuda l’orgoglio dimostrando di non farsi comprare) innocenti non lo sono affatto. Zero carbonella.
Ovviamente, scrivendo di getto, mi sono riferito ad ambedue i fratelli: dai tempi dei pioneristici Lumière sino ai Dardenne i fratelli di sangue e di cinema si dividono meriti e demeriti, uscite tempestive e uscite a vuoto, accordi e disaccordi per dirla alla Woody Allen. Mi riservo di manifestare in seguito, questa volta per la Consul Press il giudizio critico, alieno all’impressionismo soggettivo e all’asservimento, su America Latina. Il primo film dei fratelli originari di Tor Bella Monaca, La terra dell’abbastanza, riassumendo, ripetita iuvant, mi è piaciuto. Il secondo, Favolacce, nemmeno un po’. Anzi. Mi ricorda uno dei film visionati in Ed Wood di Tim Burton. Intelligenti pauca. Nonostante ciò, ai tempi, all’incirca due anni fa, argomentai, com’era giusto, gli appunti mossi al film in questione. Ecco il file della recensione.
https://www.mondospettacolo.com/favolacce-un-noir-puro-diviene-un-horror-spurio/
Il tiro al piccione nel frattempo continua. E non sono certo i fratelli D’Innocenzo le vittime. Pure se il vittimismo rende. Come lo schieramento ideologico a «Sinatra», l’iniqua egemonia di quel tipo d’appartenenza sulla competenza, i foraggiamenti direzionati a invertire l’ordine naturale delle cose, le strategie escogitate dal marketing della cultura, o presunta tale, le caste, i colpi di gomito, i segni d’ammicco, l’ipocrisia, la furbizia levantina, l’attitudine a lisciare il pelo dal verso giusto al potente. In tal senso forse è utile ricordare due aforismi. È stato un mio grande amico, forse il mio miglior amico, una sorta di fratello maggiore, a segnalarmeli. Il primo è di Ennio Flaiano («Se i culi dei potenti italiani fossero di carta vetrata i giornalisti in gran maggioranza sarebbero senza lingua»). Il secondo è di Leonida («Tutti dovranno vedere che abbiamo scelto di morire in piedi pur di non vivere in ginocchio»). Ho detto tutto. Per ora. Peppino De Filippo docet.
MASSIMILIANO SERRIELLO