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A colloquio con Mavina Graziani e Vittorio Hamarz Vasfi su 3 attori in affitto

L’ARTE E LA PARTE DI DUE PUNTIGLIOSI SEGUACI DELL’INGEGNO MALINCOMICO

Una conversazione con Massimiliano Serriello

Il carattere d’ingegno creativo non si trova a buon mercato. Non abbocca all’amo delle furbizie levantine. Non smacchia i leopardi. Né gioca a basket coi puffi. Il carattere d’ingegno creativo trascende l’impasse della bellezza dell’asino e il tallone d’Achille delle inquadrature lusinghiere che spesso gli interpreti con poco talento, ma molti santi in paradiso, impongono ai registi provvisti d’estro. Ma a corto di personalità. Con buona pace della scrittura per immagini che veicola, nel buio della sala, una volta portato a termine il lavoro, ad hoc, l’inarrestabile combinazione di associazioni di pensiero ed emozioni profondissime. Mavina Graziani e il suo regista nonché attore Vittorio Hamarz Vasfi  (nella foto col sottoscritto) sul palcoscenico del teatro, come nella vita di tutti i giorni, si capiscono al volo. Senza pagare dazio ad alcun tipo d’incomprensione. 

Il rapporto tra immagine e immaginazione in 3 attori in affitto, che domenica torna a Velletri al Teatro Tognazzi per rinverdire la virtù della commedia dell’arte di far ridere amaramente e di far riflettere ironicamente, passa attraverso l’affiatamento. Ringrazio Mavina per avermi presentato Hamarz. 

Non ho ancora visto niente. Il Covid ha rotto le uova nel paniere a chi svolge la professione dell’interprete e del regista sulle tavole del palcoscenico. Tuttavia l’attitudine a stemperare nell’ironia le scorie dello stress per gli appuntamenti covati palmo a palmo e rimandati alle calende greche costituisce l’antidoto migliore contro l’ansia da prestazione. Hamarz questo tipo d’ansia non sa cos’è. Je rimbarza, come si dice nell’Urbe. Quello che gli preme è sottolineare gli sforzi compiuti da chi vuole guadagnare da vivere recitando senza mettere l’arte da parte. 

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1). D / Alberto Moravia, caro Hamarz, riteneva il gioco fisionomico della recitazione qualcosa di limitato rispetto alle soluzioni espressive ad appannaggio dei registi. Sei sia un attore sia un regista. Quindi la tua opinione al riguardo è doppiamente stimolante: è un luogo comune o, come dice mia moglie Carina, è Verdade (Verità)?  
R / La mia opinione è che un attore debba avere carta bianca quando gli propongono un personaggio. Ovviamente il regista ha una sua idea: deve portare lo spettacolo e i personaggi nella direzione prefissata. Coordinando le mille sfumature che caratterizzano un personaggio. E gli consentono di andare in profondità. Il compito del regista consistente nel mettere l’attore in condizione di tirar fuori queste sfumature. Che fanno la differenza. 

2). D / Il regista coordinando i fattori tecnici, creativi ed espressivi è eleggibile ad autore tout court. Ritieni che gli attori e le attrici, come persone, che lavorano su se stessi, ancor prima che sui personaggi da interpretare, siano a modo loro dei co-autori?
R / DEVONO essere co-autori, certo a modo loro. Un regista eletto ad autore, senza il supporto degli attori e delle attrici nelle vesti di co-autori, rema unicamente da una parte. La co-autorialità non è un diritto: è una necessità. 

3). D / Lavori per il cinema, la televisione e il teatro. Giusto?
R / Così dicono.

4). D / Allora mi hanno informato bene. Lavorare su te stesso e sul personaggio a teatro ti permette di afferrare nelle battute, o nel sottosuolo dei gesti, cose che al cinema e in televisione sfuggono?
R / L’esperienza di vita mi ha insegnato a trarre partito da ogni cosa che faccio. E a farla con impegno ed entusiasmo. Senza mai dare nulla per scontato. Le sfumature sono senz’alcun dubbio, come ho detto prima, una componente fondamentale per quanto riguarda la riuscita dello spettacolo sul piano complessivo. In tal senso il teatro con le prove e l’atmosfera che si crea, senza nulla togliere al piccolo e al grande schermo, si presta parecchio. 

5). D / Per cogliere le sfumature, rinvenibili appunto nel sottosuolo dei gesti e nelle cose che non si dicono ma si sentono, occorre la calma dei forti al timone di regìa. Per tenere la barra dritta. Secondo Mavina non perdi mai la bussola. È questo il segreto?
R / Nessun segreto, Massimiliano. La calma mi permette di giudicare con l’opportuna lucidità le situazioni man mano che lo spettacolo prende piede. Di dare il giusto peso a queste situazioni. Affrontando il problema per capire subito quale possa essere la soluzione affinché il mondo interiore del personaggio, le incombenze della regìa, la verità di emozione, il testo, il sottotesto, il cast, le luci, i sentimenti richiesti funzionino. Cerco di arrivare sempre preparato alla vigilia di un debutto teatrale. Curando ogni minimo particolare. Così da trasmettere energia positiva alla mia squadra. Nei cui confronti nutro una grandissima fiducia. A teatro succede di dimenticarsi una battuta, di prendere una papera. Ma sono convinto che quando c’è fiducia, impegno ed entusiasmo si stabilisce un’alchimia talmente forte da poter rimediare a qualsivoglia tipo d’intoppo.

6). D / È la consapevolezza la chiave di volta, Hamarz?
R / Senza di quella non si va da nessuna parte.

7). D / Sei consapevole anche che oggi i provini per il cinema pagano dazio alla mancanza di competenza dei casting director. Un tempo a decidere in tal senso, se un attore e un’attrice possedeva i requisiti giusti per un determinato ruolo, erano gli aiuto-registi. Gente che ci capiva. Ora come ora non si va davvero da nessuna parte senza santi in paradiso o è giusto stare sempre sul pezzo?
R / L’immagine dorata degli attori e delle attrici porta fuori strada. È un’immagine che ha chi vede il mondo dello spettacolo, specie quello del cinema, dall’esterno. Mi sono sentito dire dai casting director di essere troppo abbronzato, troppo scuro di carnagione per interpretare un determinato ruolo. Quando poi l’italiano è mediterraneo. Basta vedere la carnagione di Alessandro Gassman. È una scusa accampata per le ragioni che dici tu. Ed è inaccettabile. Perché non è una ragione: è illogica.  Oltre che ingiusta. 

 

8). D / Dalla serie: se ne inventassero un’altra. In 3 attori in affitto sottolinei come l’ambiente professionale degli interpreti tenda diversi calappi e l’ansia di accrescere la competenza per invertire la rotta sfavorevole sia una soluzione che paga dazio talvolta al ridicolo involontario. Ma sprigiona pure umanità ed empatia. Sulla scorta dell’ironia. L’ironia serva a indorare la pillola?
R / L’ironia per me è una bellissima medicina. Serve a dare il giusto peso alle cose. A valutarle per quello che sono. Vedendo anche il lato appunto ridicolo. Comico. Divertente. Seppure in modo spesso involontario. E l’autoironia è ancora più importante: è una forma d’intelligenza che impedisce al vittimismo, al disfattismo e all’arrendevolezza di avere la meglio. L’inquadramento degli attori e delle attrici nel loro ambiente è tutt’altro che agevole. Affrontare con l’autoironia le incombenze, le incertezze e persino le cose meno giuste, o che giuste non lo sono affatto, aiuta moltissimo. 

9). D / Senza curarsi del bisticcio di parola la giusta dose d’ironia rimedia alle ingiustizie connettendo la malinconia per l’iniqua egemonia dell’appartenenza sulla competenza alla sana comicità?
R / Sono partito dalla storia di un uomo che si è trasferito in Italia all’età di tredici anni dopo aver subìto il trauma lacerante di un colpo di stato. E quindi il punto di partenza è tragico. Chiaramente il ragazzo lì per lì avverte la nostalgia del passato. Si porta dietro un dolore profondo. Nell’aria dapprincipio preme, come si dice, la malinconia. Però la malinconia anche di non parlare la lingua italiana cede il passo alla gioia di vivere a Roma. La città dei gladiatori. A quel punto intervengono prima l’ironia e poi la comicità. L’appartenenza come sentimento è qualcosa di bello. Come convenienza è una cosa brutta. La competenza è basilare. Cercare di perfezionarla è giusto. Ridirci sopra è una forma di catartica autoironia. 

10). D / Autoironia significa pure andare oltre il disappunto se non il dolore per un’ingiustizia perpetrata ai propri danni. Fare le vittime non è dignitoso. Hai ragione. Meglio zappare la terra piuttosto. Come ti poni quando vai a fare un provino come attore?
R / Quando mi arriva via mail un provino non vado mai a indagare su chi sia o chi non sia il casting director. Non amo farmi il sangue amaro né mettere il carro davanti ai buoi. Le scuse le accampassero loro dopo. Se vogliono. Come quando dicono che devono ancora capire che tipo di personaggio stanno cercando. Io invece preferisco concentrarmi sul ruolo, prepararmi come si deve. Per provare il sentimento richiesto, per studiare il personaggio. Per aderire in tutto e per tutto al personaggio da interpretare. 

11). D / Che tu così trovi. Mentre loro lo stanno ancora cercando. Messa così in effetti il paradosso rende comica la situazione. Chi agisce in questo modo di cinema, di spettacolo e arte ci capisce poco. Ma di reimpiego tantissimo. Mettere i puntini sulle “i” aiuta? 
R / Dipende dalla situazione. Dai contesti. Nella tua professione è giusto, quando lo concedono, mettere i puntini sulle “i”. La comunicazione e l’informazione beneficiano della schiettezza di chi dice e scrive le cose come stanno. Quando lavoro come attore-regista e mi rapporto con altri attori e attrici come Mavina, che ha grinta da vendere, metto i puntini sulle “i”. E sono contento che loro facciano altrettanto. Quando si allestisce uno spettacolo teatrale esistono delle gerarchie. Il diritto al comando, che significa anche prendersi le responsabilità della riuscita o meno dello spettacolo, non è una cosa ingiusta. È una cosa giustissima. Però chi si prende questo tipo di responsabilità se dà grande importanza, come poi è giusto uguale, alle capacità e al talento degli attori e delle attrici che dirige semplifica le cose difficili. In quel caso mettere i puntini sulle “i” non significa essere pignoli, autocrati, autoreferenziali. Bensì vuol dire essere comprensivi, sereni, solidali.

12). D / La competenza si arricchisce perciò con la comprensione, la serenità, la solidarietà?
R / E anche con la decisione. Mavina Graziani, e non lo dico solo perché le voglio bene ed è una mia attrice, come io sono il suo regista nello spettacolo che riporteremo domenica al Teatro Tognazzi, è una professionista: decisa, sensibile e ironica. Sarebbe davvero l’attrice perfetta per Carlo Verdone. Il suo sogno non è campato in aria: ha delle basi reali. E so che tu la pensi allo stesso modo. Ne abbiamo già parlato per telefono. È un dato oggettivo: Mavina riassume nel suo modo di fare come persona e di recitare come attrice le caratteristiche principali di tutte le (anti)eroine verdoniane. Ed è per questo che gli attori e le attrici di talento devono essere perseveranti. Possono realizzare i loro sogni. Penso ad attori bravissimi. Ma che non hanno uffici stampa importanti dietro di loro. Poi è chiaro: un conto è provarci; un altro paio di maniche, riuscire. Per riuscire, insomma, al di là dell’egemonia come giustamente sottolinei tu dell’appartenenza al pensiero e al modo di agire dominante sulla competenza, serve pure un po’ di fortuna.

13). D / Certo, la Dea Bendata. Chiudo con una battuta: il diritto al merito ha perciò bisogno di Gregory Peck?
R / Assolutamente, Massimiliano. 

14). D / Che te possino, Hamarz. Hai capito la battuta. Allora sei italiano?
R / No. Ma sono ironico. Come lo sei te. Il gregorio in romanesco è il fondoschiena. Sinonimo di fortuna. Serve perciò Gregory Peck. Un mito!

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Sono andato a vedere a teatro Shake Fools diretto dalla bravissima Manuela Tempesta e Giovanni Maria Buzzati circa due anni e mezzo fa.  Il Grande Bardo, come è chiamato William Shakespeare, ha sempre esercitato un ascendente profondo. Tra i film più belli della storia del cinema annovero inoltre Accattone di Pier Paolo Pasolini, con l’università della strada di Roma sugli scudi, Qualcuno volò sul nido del cuculo di Miloš Forman, col manicomio che innesca l’anelito di libertà, e Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme. Con l’immagine dell’insetto che diventa farfalla a mo’ di bavaglio sulla bocca della donna piena di coraggio che rifiuta il ruolo della vittima. Ho ritrovato gli echi e i controechi di questi lavori, congiunti ai fatti di cronaca nera trasfigurati ad arte, in Shake Fools. Che gioca col diminutivo di Shakespeare. Significa shakerare la follia in pratica. Conoscevo già la cifra stilistica di Manuela al cinema. Nel passaggio al teatro la bravura nello scuotere, nell’agitare, nel combinare vari stilemi non mi ha sorpreso. Rientra nelle sue corde. Parlammo di stilemi diversi anche quando la intervistai qualche mese prima. Ecco il link di quell’intervista. : https://www.consulpress.eu/manuela-tempesta…intervista-a-360/

Rimasi invece sorpreso dall’interpretazione di Mavina Graziani (non la conoscevo) nei panni di Ofelia e Desdemona (nella foto). 

Ne nacque, anche su sprone di Manuela che ci mise in contatto, un’intervista formale (ci davamo del “lei”) e forse curiosa. Anche se non spetta a me stabilirlo. Questo è il link per chi volesse leggerla. https://www.consulpress.eu/a-colloquio-con-mavina-graziani-sulla-forza-ispirativa-della-recitazione/

Adesso con Mavina ci diamo del “tu”. Anche se non ci siamo più visti. La comunicazione via telefono, con WhatsApp, sui social, una seconda intervista che le feci per il quotidiano Il Roma, proprio per il debutto di 3 attori in affitto a Napoli, si vanno ad appaiare alla congerie dei ricordi della fase pre Covid. Dopo, con la pandemia e gli avvilenti strascichi ivi connessi, mi sono immerso nel lavoro. Negli affetti. Mavina presumo abbia fatto più o meno la stessa cosa. Ci siamo rivisti ieri. Per la terza volta (compreso Shake Fools) e per una terza intervista. Il ruolo dell’Acting coach, ovvero dell’insegnante di recitazione che aiuta gli attori spiantati a perfezionare l’arte d’interpretare personaggi diversi, le calza a pennello. Ma devo ancora vedere 3 attori in affitto. Anche se me ne ha parlato tanto. Con trasporto. Non sarà facile in ogni caso sostituire l’immagine di quell’Ofelia dolce, innocente ed eterea e della Desdemona romanaccia. Come me. Tuttavia il giudizio critico prescinde dall’impressionismo soggettivo, dalle affinità elettive, dai presupposti. Anche se la simpatia è un buon viatico. Lo spiega bene il professore di medicina in La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana: significa condividere il pathos. Ed è il pathos l’input di Mavina. Brava ragazza. E bravissima attrice. Ripartiamo da dove eravamo rimasti. È sveglia dalle sei di mattina. Richiama alla mente la canzone Bella senza trucco. Un hit del personaggio interpretato in Sono pazzo di Iris Blonde da Carlo Verdone

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1). D / Mavina, ci eravamo lasciati col debutto a Napoli di 3 attori in affitto. Ricordo il tuo post: Napule è mille culure. È la saggezza dell’università della strada, delle cose che i guagliuni ‘e miez ‘a via imparano sul suolo patrio, ad affratellare romani e napoletani?
R / Ma sì, dai. Forse romani e napoletani non sono proprio fratelli. Però cugini, per così dire, lo sono di sicuro. Poi io la napoletanità da romana ce l’ho in famiglia. Lo sai. Ne abbiamo parlato. Da parte materna. Ci accomuna la voracità. L’essere entusiasti della vita. Chi in un modo, chi in un altro. La fame millenaria, la grinta e anche l’università della strada, sommata alla cultura che si apprende nello studio, sui libri, sono analogie innegabili. Siamo gente de core, come si dice. E non è solo un modo di dire.

2). D / Ma de che?! È verità. Il buon senso che si apprende grazie al sacrosanto senso di appartenenza, di cui ha parlato Hamarz, è un valore aggiunto agli anni di studio matto e disperatissimo alla Giacomo Leopardi, che non si smacchiano, o è un antidoto contro la prosopopea di chi parla e si occupa di cose che conosce poco?
R / Nella mia generazione quel buon senso, che appartiene alla Roma trasteverina, schietta, sanguigna, popolana, alla Roma dei vicoli con gli artigiani, le trattorie, i trafficoni, la gente de core appunto, era ancora presente. Oggi sta scomparendo. La ritroviamo solo nella malinconia verdoniana. Questa perdita mi fa paura. Ma non per me: qualcosa sono riuscita a portarmi a casa. E riesco perciò a riconoscerla e ad apprezzarla in artisti che hanno lasciato una traccia indelebile e rappresentano la romanità nella sua accezione più ampia ed empatica oso aggiungere: Alberto Sordi, Carlo Verdone e Claudio Amendola

3). D / Con Amendola – poi lo sai: ne abbiamo parlato tante volte – sfondi una porta aperta. Rifuggo dalle attestazioni di stima (il mondo del cinema è pieno zeppo di lecchini e paraventi: così mi attengo alla regola d’onore di non scrivere parolacce ma di dirle de visu a chi le merita). Magari ci torniamo dopo. Tornando invece a Verdone – ce lo siamo già detto; lo hai già detto, ma ripetita iuvant; mo lo scrivemo; mettiamo, insomma, nero su bianco e chi è razzista si attacca – la serie tv Vita da Carlo è stata osteggiata dai ruffiani che si tengono buono chi gli fa comodo. Insomma la schiettezza di tratto del “tuo” Carlo dà fastidio agli ipocriti lacchè?
R / Massi, ne abbiamo parlato anche per iscritto. È vero. Stiamo sempre là, ribadisco: la serie tv Vita da Carlo è stata amata da chi sente un affetto profondo per lui e per la sua sensibilità. Agli occhi delle persone superficiali o degli studiosi che vanno in profondità quando analizzano testi più autoriali e film più intellettuali, o presunti tali, la serie di Carlo Verdone su se stesso è un flop. La vedono come qualcosa di narcisistico magari. O di approssimativo. E non di autoironico. Carlo Verdone, il “nostro” Carlo Verdone, perché è anche il tuo, pure se fai pochi complimenti ai personaggi famosi perché non te li arruffiani, e su questo concordo, di saggezza malincomica ne ha a bizzeffe. E in Vita da Carlo emerge appieno. Grazie a Dio, ripeto, ho fatto in tempo ad attingere da ragazza a quel tipo di saggezza che non si apprende sui libri (anche se Carlo ha scritto un libro che lui stesso ha definito il suo miglior film: La casa sopra i portici). Mi dispiace per i miei figli. Appartengono a una generazione meno fortunata.

4). D / Sordi (nella foto) è fuori categoria. Il romano che ha impersonato è più rappresentativo e cinico di quello impersonato dal suo erede artistico Verdone. Amendola, invece, rappresenta meno Roma come cultura. Però ha una bella storia alle spalle. La sensibilità verdoniana, fatta d’incertezze malinconiche, di cali di personalità, di soprassalti di dignità, di pause di riflessione, d’umanità, è un valore che, nonostante tutto, si può insegnare ai figli?
R / Certo. Diventa difficile quando non hai più materiale umano, a parte Verdone che da solo non può fare testo per tutta la gente intesa come patrimonio d’umanità, a cui attingere. Da cui trarre insegnamento. Per insegnare a tua volta ai figli. Che sono parte di te. Sono lo sguardo sul futuro. Nel rispetto dei valori del passato. Tra i quali c’è, ancor prima che l’umanità e la simpatia (lo sai, Massi: siamo tutti verdoniani; è come dire che siamo italiani oltre che romani: è qualcosa che ci connota), la sensibilità. Carlo Verdone certe cose le sente. E le trasmette. Con il valore dell’umorismo. Per i genitori di oggi insegnare ai nostri figli a condividere questi valori è molto difficile. Ma ci proviamo. Ci provo. Non perché vorrei tanto recitare in un film diretto e interpretato da Verdone. Non nego che farei i salti di gioia. Non mi nascondo dietro un dito. Ma, a prescindere da questo sogno, lontano da qualsiasi calcolo professionale, ai miei figli i film di Verdone li faccio vedere: si ride; ogni tanto si piange; ci si commuove e, cosa più importante, s’impara tanto. Senza annoiarsi. Mi piace poi raccontare e spiegare ai miei figli il senso di questi film malincomici. Come li definisci tu. E hai ragione. Vedo comunque Verdone stesso in difficoltà nel raccontarsi nel 2022. Cerca di rimanere coerente coi suoi tratti distintivi, con l’umanità d’altri tempi.

5). D / Ma i tempi so cambiati, Mavì. Questo intendi?
R / Esattamente questo. Purtroppo. Mantenere una linea di coerenza in una realtà nella quale non ti ritrovi più accresce la malinconia.

6). D / E diminuisce la comicità. D’altronde la differenza con Sordi sta tutta là. Così si risparmia la noia di piombo del raffronto. È comunque figlio dei suoi tempi pure in questo?  
R / Questi tempi bui, chiamiamoli così, li subisce. Come li subiamo noi. Però li sa raccontare. Con meno comicità. Anche se l’ironia è sempre quella. Benché più in difficoltà.

7). D / Ed è la difficoltà che Verdone snuda in Vita da Carlo la conferma che la sensibilità insegna ancora o, con tutto l’affetto, attiene ai sospiri in retromarcia come li definiva Cesare Marchi?
R / Guarda, Massimiliano capisco cosa intendi. Come dire che le cose belle sono quelle successe tempo addietro. E quelle presenti e future sono brutte. Non so se siano brutte. Però sono incerte. Verdone in fondo ha sempre fatto dell’incertezza oggetto di riflessione e di divertimento. Ridere fa bene. Come piangere. Durante la pandemia, quando non si vedeva luce sul versante lavorativo e la voglia di alzare bandiera bianca era tanta, mi sono fatta certi pianti. Mio marito e i miei figli sono stati la mia ancora di salvezza. Soprattutto mio marito. Lui è il mio sostegno. In tutto. La famiglia è una gran cosa. Verdone (nella foto) lo sa: mostra la difficoltà di adattarsi, fuori dalla sicurezza della famiglia, a una realtà che non è più la sua Roma, non è più la sua gente, non è più il suo popolo. Non ci sono più gli stessi valori.

8). D / Le chiacchiere stanno a zero. Mi vuoi rubare il lavoro di critico. Lontano dagli scherzi, forse sbaglio, credo che Sordi, anche se reazionario, guardava al futuro. Mentre Verdone, per qualcosa che attiene al suo modo di essere, al di là dell’involuzione attuale, benché non reagisca, guarda al passato. Il rammarico borbottone cadrebbe nell’enfasi dei laudatores temporis acti se non fosse per l’ironia. La sua ironia è il punto di forza. Il tuo è la puntigliosità?  
D / Sono puntigliosa. È vero. Me lo riconosco. Non sono esente dall’ansia. Dall’incertezza. Sui set a volte sono i registi a essere insicuri, a non saper governare la nave, a perdere le staffe. A mettere ansia di conseguenza all’intero cast. A cui invece il regista deve trasmettere cose buone. Come la fiducia, la sicurezza, l’umanità, la sensibilità. La cosa bella di Hamarz è che non sbrocca mai. È sempre calmo, preparato, concentrato, rassicurante. La prima volta che mi sono cimentata nel ruolo dell’Acting coach che insegna agli attori spiantati a credere in se stessi e nella professione che hanno scelto ero appanicata. Mi piace studiare il personaggio nei minimi dettagli. Punto per punto: ribadisco; ci hai preso sulla puntigliosità. Hamarz mi ha fatto capire che andavo bene per il ruolo. Che ero preparata. Mi ha levato il panico. Mi ha dato sicurezza. Essere puntigliosi non leva nulla, neanche una virgola, alla sensibilità. La concentrazione rafforza la sensibilità casomai. 

9). D / La sensibilità è dunque un valore aggiunto o è un nervo scoperto?
R / È un fifty-fifty. È un valore aggiunto per tante cose. È un nervo scoperto per altre. È un’arma a doppio taglio.

10). D / Da come ne parli credo che tuo marito se ha qualcosa fa fifty-fifty. Ma senza arma a doppio taglio. Mia moglie Carina mi spinge a insistere nella professione di critico. Quanto è stato importante lo sprone di tuo marito per insistere nella professione che hai scelto?  
R / Mio marito ha un cuore gigantesco. La gente che ha davvero bisogno di aiuto potrebbe levargli le mutande se volesse. Lui si fa in quattro per gli altri. Non dico questo perché è mio marito. Quando ci si vuole bene ci si prende anche in giro dolcemente nella vita di coppia. Mio marito è quello che crede più di tutti nel sogno. E s’impegna pure sul piano concreto affinché ciò accada. Io posso solo ringraziarlo e continuare a fare questo mestiere.  

11). D / Il consorzio domestico perciò aiuta a non dare forfait quando non si hanno le spalle coperte dagli ammanicamenti esterni?
R / Nel modo più assoluto.

12). D / Che atmosfera si respira sul palcoscenico a dispetto de sto maledetto covid che gira nell’aria?
R / Il covid è una maledizione. Il palcoscenico è una benedizione. Ci risalgo adesso dopo due anni: sono molto emozionata. Non so che effetto mi farà. Non vedo l’ora di risentire l’applauso sincero del pubblico: mi dà la carica. Ne ho bisogno.

13). D / Avevi nostalgia del sipario. Temevi che fosse calato?
R / Avevo il terrore che una cosa del genere potesse accadere. Quando si alza il sipario è sempre una magia. Oggi più che mai.

14). D / Tu non sei una pittrice. Che dipinge il quadro. E sta da sola. Con la tela. E l’occorrente. Sei un’attrice. Oltre che una donna piena di vita. Ora che, dopo questa intervista, vai a fare le prove con gli attori, che sono anche degli amici, scopri cose nuove sul personaggio di cui non ti accorgi quando lo studi da sola?
R / C’è un sottotesto che va più veloce quando si lavora in compagnia. Succede sempre. Adesso, rispetto al passato, è cambiato l’attore che interpreta Nando. Sarà Valentino Campitelli (uno dei protagonisti, tra gli altri film interpretati, del cortometraggio candidato all’Oscar Il supplente diretto dal bravissimo regista torinese Andrea Jublin) a impersonarlo. Ieri abbiamo provato insieme per la prima volta.  Il ritmo passato ha preso un’altra piega: è cambiata pure la canzone che lo scandisce. È cambiata un’anima. È cambiato l’attore che aderisce allo spirito, all’io nascosto, a quello esteriore del personaggio in questione. Ludovico Fremont, l’attore che aveva interpretato in precedenza questo personaggio, si portava dietro le sue esperienze. Le sue emozioni. Sai come succede. Valentino si porta dietro la sua esperienza. Il suo modo, diverso da Ludovico, di aderire allo stesso personaggio. Il nuovo ritmo è una sfida da affrontare con impegno. E funge da stimolo per scoprire cose nuove. È vero.

15). D / Spesso chi ha l’arte non ha la parte. Il diritto al merito è una delle tematiche che affrontate con 3 attori in affitto. L’arte, perdona il gioco di parola, non va mai messa da parte?
R / No. Mai. L’arte non va mai messa da parte nella Vita. Non solo sul palco.

16). D / Impersoni una Acting coach che, pur arrabbiandosi lì per lì, perdona le bugie che gli attori allievi le raccontano. Bisogna voler più bene ai pregi o ai difetti delle persone che amiamo?
R / Prima bisogna amare i difetti. E poi i pregi.

17). D / Ti somiglia il personaggio che interpreti in 3 attori in affitto?
R / La donna che per vivere fa l’Actin coach, privilegiando alla fine il cuore al cervello, non è lontana da me. Anzi. È molto simile a come sono. La sento vicina. C’è effettivamente un carattere d’autenticità che mi ha aiutato a calarmi nei suoi panni.

18). D / Un uomo tenero e insicuro al cinema e nella vita, come Verdone dentro e fuori lo schermo, è l’antidoto agli uomini che non devono chiedere mai della pubblicità anni ’80 del dopobarba?
R / Non esiste l’essere umano che non deve chiedere mai. Se non in una pubblicità.

19). D / Che, a differenza dei film, contempla le banalità scintillanti della propaganda. Ami la sincerità oltre alla sensibilità?
R / C’è chi mette le maschere. E chi non lo fa. Io apprezzo molto gli uomini che non mettono maschere né ostentano la loro virilità. Il fatto, per esempio, che non piangono. Credo che sia una virtù la capacità di piangere da parte degli uomini. Amo comunque la sincerità. Non ci può essere sensibilità, almeno nel senso che intendo io, senza sincerità.

20). D / Chi sta dietro le quinte dà una grande mano a chi si prende gli applausi. Nel buio della sala. Sul piccolo schermo. Sulle tavole del palcoscenico. Hai presentato La Pellicola d’oro 2020. Una manifestazione pensata per dare a Cesare quel che è di Cesare. Chi è Cesare in questo caso?
R / Rappresenta le maestranze, i lavoratori infaticabili che stanno dietro le quinte, che si adoperano, lontano dalla luci dei riflettori, affinché chi è deputato a starci possa farlo nel migliore dei modi. Ed è giusto assegnare un riconoscimento a queste figure professionali.

21). D / Claudio Amendola, dicevo, ha una bella storia dietro le spalle. Da ragazzo abitava a Le Rughe. Vicino ad alcuni amici di mia Madre. Il padre Ferruccio (nella foto col figlio Claudio) gli ha insegnato a rispettare questi professionisti infaticabili ispirandogli pure, da uomo tutto d’un pezzo, la sua interpretazione più riuscita ne La mia generazione di Wilma Labate. Anche se lui è più affezionato al personaggio interpretato in Domenica. Sempre con Wilma in cabina di regìa. Anche la sua sensibilità funge da esempio?
R / Claudio Amendola è un romano verace. E anche un uomo sensibilissimo. Che non nasconde la sua sensibilità. Bensì ne va fiero. Quando ero bambina accompagnavo mio padre a giocare a tennis. Claudio Amendola ci giocava insieme. Al Tennis Club Capri. L’ho sempre guardato con ammirazione. La sua romanità è sana, genuina, autentica. Claudio è quello che è: non indossa maschere; non usa filtri; recita, certo, e poi preserva la schiettezza. Che gli appartiene. Al pari della sensibilità. Mi è sempre piaciuto come personaggio. Ancor più come persona. Considero una fortuna quella di averlo premiato alla Pellicola d’oro 2020. Mi è rimasto impresso quando Claudio ha reso omaggio a chi si alza alle quattro di mattina e si fa un mazzo così per portare a termine quella magia che poi ammiriamo sul grande schermo. Ha raccontato quando il padre, il vecchio Ferruccio, quando Claudio era agli esordi, lo mise in riga dicendogli: «A Ciccio, movi er culo. Stanno tutti a aspettà te. Lavorano pe er faccione tuo. E vedi de dì sempre “grazie” e “per favore”». Personalmente penso che se ho un buon rapporto con le persone con cui lavoro, specie con le maestranze, con chi si sveglia all’alba, o prima, per portare a casa il risultato, lasciando la gloria agli altri, vuol dire che sto già un pezzo avanti. Io mi metto al servizio di un progetto quando recita. 

22). D / In Shake Fools di Manuela Tempesta hai dato, come si dice a Roma, er fritto. Cosa ha il cinema in più rispetto al cinema?
R / La Verità.  

23). D / La tua Ofelia di Shake Fools è irripetibile o ce rifarai?
R / Il cinema e la televisione, torno a ripetere, hanno meno Verità: sono costruiti. Il teatro è un momento ed è irripetibile. La mia Ofelia, che tu hai visto a teatro in veste di critico, ma anche di appassionato di Shakespeare, riguarda quel momento. Appartiene a quella sera. Non si può mandare il rewind e recuperarla. Il teatro è anche questo. È fatto di sfumature, di semitoni, di piccoli grandi cose che si recuperano e veicolano in un attimo. 

24). D / Il famoso attimo fuggente. Invece per quanto riguarda i semitoni credi che alla fine il perseverare nell’anteporre le sfumature agli accenti nel lungo periodo farà come la molle acqua capace goccia dopo goccia di bucare la dura roccia o lo spirito alla fine conta davvero più della materia? R / Beh, sono sincera: mi auguro con tutta me stessa che tutto questo impegno, la passione, lo slancio, la preparazione, la voglia di lavorare sui punti di forza e su quelli deboli nel lungo periodo dia i suoi frutti anche dal punto di vista rimunerativo. Perché negarlo. Detto questo la vita dello spirito del personaggio non è una magra consolazione. Costituisce uno dei compiti più importanti dell’arte di recitare. Ma anche dell’incombenza di farlo senza ricevere grandi compensi. Io ce la metterò tutta. E se poi non dovessi farcela, chi se ne frega. Ci ho provato. 

25). D / E l’egemonia dello spirito non sarà mai un aglietto con cui consolarsi. Il tuo primogenito è il primo critico o il primo tifoso?
R / È il mio primo tifoso. Ed è la persona che mi stimola maggiormente anche quando non vuole. Solo perché esiste. Mi stimola a essere d’esempio. A non arrendermi. Se non lo faccio io a trentatré anni, non può farlo lui che ne ha dodici e tutta la vita davanti. Recitare e perseverare è importante anche per cose come questa.

MASSIMILIANO SERRIELLO

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