Il mistero della morte biologica
È indubbiamente affascinante il mistero che avvolge la fine delle strutture biologiche viventi e, in particolare, la fine che riguarda noi, appartenenti alla specie homo sapiens e, forse non unici, ma sicuramente dotati di Coscienza. Che succede quando si muore davvero? Cosa si prova e, soprattutto, cosa succede durante e dopo? Noi tutti sappiamo riconoscere quando un uomo è morto e sappiamo benissimo che, a quel punto, non ha alcun senso parlare di una continuazione della vita. Ma il vero problema è che non sappiamo che cosa sia realmente la vita. Noi non sappiamo come si possa passare da un agglomerato di molecole organiche complesse a un agglomerato di molecole organiche vive. A questo la scienza non sa dare ancora una risposta. La chiave evoluzionistica spiega bene come si sia arrivati alle complesse strutture viventi ma non risponde alla domanda di cosa sia la vita e di cosa accade quando la morte viene dichiarata con i mezzi che oggi conosciamo. Il termine “morte” è stato definito in innumerevoli modi diversi nella storia. Oggi la morte clinica è riferita alla cessazione dei processi metabolici in determinati tessuti o organi (cuore-polmoni, corteccia celebrale, tronco encefalico, encefalo). In Italia, la Legge 29/12/1993, n, 578, (Norme per l’accertamento e la certificazione di morte) all’ Art. 1 stabilisce che come definizione di morte clinica si deve intendere “la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo”. È chiaro che qui parte un problema etico nella scelta dei test che devono certificare il criterio della morte encefalica e, anche, la scelta stessa di questo criterio invece di altri possibili (cuore-polmoni, corteccia celebrale, tronco encefalico) e dei criteri con cui la Legge sia stata approvata dal Parlamento e non, per esempio, da un ruolo più attivo dei cittadini. Tutto questo può avere implicazioni importanti in problemi quali il fine vita e l’espianto di organi. Tralasciamo in questa sede tutte queste problematiche. Supponiamo di avere davanti un individuo al quale sia stata appena dichiarata la cessazione di tutte le funzioni dell’encefalo quindi, a norma di legge, esso è dichiarabile “clinicamente morto”. Ma elettroencefalogramma piatto significa soltanto che l’attività cerebrale è talmente bassa da non essere rilevabile con i normali strumenti di misura. In queste condizioni avvengono comunque percezioni della realtà esterna che sembrerebbero non passare attraverso i cinque organi di senso. Esiste quindi qualcosa che in condizioni particolari di ridotto o comunque alterato funzionamento neuronale si attiva e consente di percepire ciò che comunemente i nostri sensi nelle stesse condizioni non sarebbero in grado di percepire.
I cosiddetti fenomeni NDE (Near Death Experiences), vengono spesso utilizzati come prova di una permanenza della coscienza dopo la morte. Il fatto è che questi fenomeni sono tipici di un encefalo in condizioni di anossia, ma non di un encefalo morto. Le cellule cerebrali sono in una condizione di funzionamento molto ridotto, ma non del tutto assente. Va notato che esistono prove che anche sostanze allucinogene provocano gli stessi effetti. Parliamo quindi di esperienze fatte da vivi, non da cadaveri. Che cosa è che produce queste esperienze? E’ qualcosa che scompare dopo la cessazione delle funzioni vitali oppure permane? La risposta della scienza è banalmente: non lo sappiamo. Se non sappiamo che cosa sia la vita, ovviamente non possiamo sapere che cosa sia la morte, cioè l’assenza di una cosa che non conosciamo.
Esiste dunque, dopo la morte dichiarata, ancora un certo tempo in cui “la vita continua ancora”, sia pure in una forma molto ridotta, ma della quale noi non sappiamo molto, se non il fatto che le funzioni vitali residue decadono nel tempo fino a chiudersi definitivamente dopo un tempo sufficientemente lungo. Quanto tempo? Non lo sappiamo e probabilmente variabile da individuo a individuo e in dipendenza delle condizioni di “morte”. Ci sono casi di cosiddetta “morte apparente” nei quali un individuo clinicamente morto dopo anche molte ore di assenza di funzioni encefaliche, “ritorna in vita” nel senso che può riacquistare parte o anche tutte le funzioni vitali. Per questo la legge prescrive l’attesa di 48 dalla dichiarazione di morte alla tumulazione. Che cosa succede alla coscienza durante quel tempo di decadimento delle condizioni vitali nelle quali, sia pur in modo ridotto e incompleto, si continua a vivere? Noi non lo sapremo mai, o perlomeno non fino al momento in cui anche noi non saremo in quelle condizioni, e, in tal caso, non saremmo più in grado di raccontarlo a nessuno. Solo dopo un ulteriore tempo, piuttosto lungo, inizia la vera e propria decomposizione dei tessuti organici che potremmo chiamare veramente “morte definitiva dei tessuti”. Nessun cadavere in stato di decomposizione molto avanzata è mai tornato in vita. A quel punto questo involucro organico che chiamiamo “il nostro corpo” ci abbandona definitivamente ed è precisamente nella fase immediatamente precedente che si decide tutto. È nella fase che va dalla morte clinica dichiarata fino al completo decadimento delle funzioni vitali che troverà una risposta positiva o negativa tutto quello che abbiamo appreso dal catechismo. La nostra coscienza o anima, insomma l’essenza di noi stessi, quella che il nostro corpo di carne ha portato in giro per il mondo durante tutta la nostra vita muore con il nostro corpo oppure trova un modo di lasciare il corpo prima che si distrugga completamente e può continuare a vivere in un altro luogo? Nel contesto della religione il corpo fisico non è altro che una scatola, un contenitore nel quale la nostra coscienza è in qualche modo prigioniera e dal quale si staccherà al momento della morte per divenire immortale. Sappiamo che con l’illuminismo ed il positivismo, tutto questo apparato messo su da culture e religioni, ha perso credibilità. La scienza e la ragione non potevano in alcun modo avallare le varie teorie sull’anima, semplicemente perché non vi erano prove della sua esistenza e la logica non ne poteva dimostrare la consistenza. Senonché, all’inizio del 1900, la Meccanica Quantistica ha imposto una rivoluzione nella scienza e nel nostro modo di pensare. Per descrivere l’infinitamente piccolo ci si rese conto che il determinismo non bastava più e che occorreva andare oltre. L’oltre fu la fisica quantistica ed al di là della sua complessa formulazione matematica, rappresentò uno strappo nella concezione galileiana dell’ universo e pose problemi enormi nel campo della epistemologia e del senso comune. Mentre per la fisica classica, l’uomo era un osservatore distaccato dalla realtà osservata, con la nuova teoria, ne faceva parte. Ne faceva talmente parte che senza una sua presenza, l’universo avrebbe potuto anche non esistere. Se noi misuriamo la lunghezza di una bicicletta, sappiamo che essa esiste di per se e noi semplicemente ci armiamo di metro per valutarne la lunghezza. Ma quando si scende su scale molto piccole le cose non stanno così. Quando misuro la posizione di un elettrone, ad esempio, l’elettrone diventa reale soltanto quando lo osservo. Senza la mia osservazione si trova in una specie di limbo e soltanto la misura fatta da me lo farà ‘collassare’ nel mondo reale. Su scala atomica anche la materia può essere trattata come un fenomeno ondulatorio per il quale esiste un fenomeno chiamato “effetto tunnel” che consente il passaggio attraverso una barriera o muro materiale. La meccanica quantistica prevede, ed è stato non solo provato ma costituisce la base di innumerevoli applicazioni in elettronica, che un’onda può attraversare una barriera materiale e riuscire “dall’altra parte” se il suo decadimento all’interno della barriera è sufficientemente lungo da essere ancora presente alla fine della stessa. Il decadimento sopra descritto delle funzioni vitali residue dopo la morte dichiarata, costituisce una analogia piuttosto impressionante. Oltre questa mia suggestiva analogia che può essere utile per suggerire un meccanismo di quello che potrebbe succedere in quei decisivi momenti, esistono scienziati ben più qualificati di me, del calibro del grande Roger Penrose, premio Nobel per la Fisica 2020, che ha prodotto delle teorie in base alle quali, la coscienza umana avrebbe una realtà quantistica. Egli ha ipotizzato che la coscienza sia un fenomeno quantistico che avviene in zone microscopiche dei neuroni, chiamati microtubuli. E la cosa interessante è che questa coscienza non è qualcosa che termina con l’attività dei neuroni, ma permane anche dopo la loro distruzione.
Nicola Sparvieri
Foto © La civiltà Cattolica