Passato e futuro dei farmaci psicoattivi
Le sostanze psicoattive vengono utilizzate dall’uomo fin dalla preistoria. Dai reperti archeologici ritrovati sotto le abitazioni del Perù nordoccidentale, risalenti a più di diecimila anni fa, si evince che gli abitanti masticassero foglie di coca. Gli alcaloidi delle foglie sono noti stimolanti, in grado di mitigare gli effetti dell’alta quota e della vita in un ambiente povero di ossigeno. Nel secolo scorso, e in particolare negli ultimi decenni, la maggiore conoscenza della fisiologia umana ha determinato una proliferazione di sostanze, lecite e illecite, in grado di migliorare l’umore, i riflessi o anche solo di tenerci svegli per giorni di fila. Molti ne assumono qualcuna tutti giorni e praticamente tutti iniziano la giornata con la caffeina o la nicotina.
Spesso chi è sano prende anche farmaci prescritti dal medico. Il metilfenidato, venduto con il nome commerciale di Ritalin, viene somministrato ai bambini con la sindrome da deficit di attenzione e iperattività deficit dell’attenzione/iperattività (Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder, ADHD), ma viene usato anche da soggetti sani per aumentare le prestazioni mentali. Il Modafinil, un medicinale sviluppato per trattare la narcolessia, riduce l’impulsività e aiuta a concentrarsi sui problemi, perché migliora la memoria lavorativa e la capacità di pianificazione. L’esercito americano lo ha già utilizzato per tenere i soldati svegli e vigili e alcuni scienziati ne stanno valutando l’utilità per i turnisti con orari di lavoro irregolari. Il propranololo, un betabloccante, viene impiegato per controllare l’ipertensione, l’angina e l’aritmia cardiaca, ma viene talvolta assunto anche dai giocatori di biliardo o di scacchi per calmarsi prima di una partita.
In un lavoro pubblicato nel 2008 su «Nature», curato da numerosi esperti di etica, neuroscienze, psicologia e medicina, viene spiegato che i farmaci contro l’ADHD, come il metilfenidato, ma anche il donepezil, che viene usato nel trattamento dell’Alzheimer, potenziano lievemente la memoria. È chiaro che, se fosse dimostrato che fossero sicuri e con trascurabili controindicazioni e dipendenze, verrebbero richiesti da individui di tutte le età che debbano sostenere esami universitari o concorsi di lavoro.
Ma a parte i farmaci già esistenti sappiamo che la scienza farmacologica è in grande sviluppo e la fetta di mercato di cui dispone è enorme e la tendenza è quella di poterla ampliare ulteriormente. Il settore del Big Pharma è in evoluzione e promette lo sviluppo di nuovi prodotti. La promessa, e l’offerta futura, è quella che un giorno i farmaci potranno risolvere tutti i nostri guai, migliorare la nostra vita, liberarci dei brutti ricordi o conferire una sana gioia all’esistenza quotidiana.
L’inevitabile difficoltà sorge dal fatto che in realtà sappiamo ben poco degli effetti a medio e lungo termine che i princìpi farmacologici hanno sul nostro corpo e sulla nostra mente. Il Modafinil, per esempio, sembra coinvolto nella modulazione di diversi messaggeri chimici cerebrali, ma nessuno sa con certezza come agisca. Con un maggior uso di stimolanti simili sorge in effetti il dubbio che a lungo termine possano crearsi danni cerebrali.
Molti studi condotti su animali hanno dimostrato che gli stimolanti sono in grado di alterare la struttura e la funzione cerebrale con conseguenti alterazioni dell’umore, aumento dell’ansia e, diversamente da quanto accade nel breve periodo, deficit cognitivi. Nel 2006 la Food and Drug Administration negli Stati Uniti ha confrontato i dati di ricerche effettuate su bambini e adolescenti trattati con antidepressivi per depressione, disturbi d’ansia e ADHD, rilevando che tali soggetti presentavano un rischio doppio (il 4% rispetto al 2%) di elaborare pensieri suicidi o di uccidersi rispetto a quanti venivano trattati col placebo.
Una società interamente controllata dai farmaci potrebbe esistere solo se tutti prendessimo medicine volontariamente e regolarmente in gran quantità. Il che non è una prospettiva del tutto assurda come si potrebbe credere. Tanto per cominciare, viviamo tutti più a lungo grazie ai progressi medici, ma nessuno sa che cosa potrebbe comportare per la nostra mente arrivare a centocinquanta o duecento anni. Forse avremmo solo più tempo per soffrire di solitudine o sviluppare forme depressive, come già suggeriscono i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e di altri enti, dai quali emerge un netto aumento dei disturbi psicologici nelle popolazioni senescenti. Se vivessimo fino a duecento anni, chi ci dice che i ricordi e le emozioni accumulati in tanto tempo non sovraccaricheranno il nostro cervello da primati, evoluto per durare soltanto per un certo numero di decadi?
Forse sarebbe meglio vivere nel modo più naturale possibile, evitando qualsiasi tipo di additivo farmacologico, ma secondo molti è ormai troppo tardi. La vita è già oggi molto innaturale: le nostre case, i nostri vestiti, il nostro cibo, per non parlare dell’assistenza medica di cui godiamo, hanno ben poco in comune con la condizione “naturale” che la nostra specie ha vissuto per decine di migliaia di anni. Visti i numerosi strumenti utili ad aumentare la conoscenza che già accettiamo, dalla scrittura ai laptop, come potremmo dire: fin qui d’accordo, ma non oltre? L’uso, e l’abuso, dei farmaci è ormai parte integrante di tutto questo. La creatività ci ha permesso di potenziare la nostra mente attraverso invenzioni come il linguaggio scritto, la stampa e internet. I farmaci dovrebbero essere considerati alla stregua dell’istruzione, delle abitudini sane e della tecnologia dell’informazione, ovvero come semplici strumenti con cui la nostra specie, unica sotto il profilo della capacità inventiva, cerca di migliorarsi.
Se avessimo la certezza che i farmaci sono sostanze sane ed efficaci per stimolare le facoltà cognitive, allora potrebbero essere un beneficio sia per l’individuo che per la società. Ma sarebbe stupido ignorare i problemi che l’uso dei farmaci potrebbe creare o aggravare. Se il nostro futuro, come sembra, sarà farmaceutico, allora dovremo impegnarci per aumentare al massimo i benefici e ridurre al minimo gli effetti negativi.
Nicola Sparvieri
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