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L’induismo e i suoi concetti più conosciuti

“Non è un investimento se significa distruggere il pianeta” Vandana Shiva

L’induismo, denominato Sanātanadharma, è una religione o piuttosto un insieme di credi religiosi, tra le più diffuse al mondo e tra quelle con le origini più antiche; conta nella sola India 1 milione di fedeli su 1 milione e trecentomila abitanti in India nel 2011. Con oltre un miliardo e cinquecento milioni di credenti, nel 2015 l’induismo era al terzo posto come religione nel mono dopo cristianesimo e Islam.

Il termine italiano “Induismo”, deriva dal termine anglosassone Hinduism, quest’ultimo termine a sua volta utilizzato, a partire dal XIII secolo, dai turchi di fede musulmana per indicare coloro che non si convertivano alla loro religione nonché, con il termine arabo al-Hind, che occorre nei testi arabi ad indicare l’intero popolo dell’India.

Le divinità induiste sono le forme divine adorate nell’induismo, la religione dominante del subcontinente indiano e viene considerata la religione più antica (Ur-religion) esistente al mondo e i suoi praticanti si riferiscono ad essa come all’eterna legge, il Sanātana Dharma.

La parola Dharma è un termine sanscrito che può avere più significati (e ovviamene ne prende di differenti a seconda delle religioni e delle correnti al loro interno). Le parole che traduce possono essere legge cosmica, dovere, legge naturale, il modo in cui le cose sono: la parola Dharma è usata sia nelle religioni di origine indiana che nelle filosofie religiose, quindi il termine occidentale a cui equivale potrebbe essere religione. Questa religione, nella sua forma moderna, si compone di tre grandi tradizioni: shivaismo, visnuismo e shaktismo, i cui seguaci di queste tre correnti considerano la loro divinità essere la divinità suprema (vedi Alain Daniélou, miti e dei dell’India).

Con la composizione dei Brāmana (1000-700 a.C.), commentari sacerdotali dei più antichi Veda, il termine Dharma si impone a significare le azioni corrette che consentono al Cosmo di mantenere il suo ordine. Il mantenimento dell’ordine del Cosmo non può non riflettersi nel destino dell’individuo che se ne faceva portatore, ovvero nel suo karman (Gianluca Magi).

Quindi rispettare il Dharma diviene il rispetto di una serie di norme che sono alla base dell’universo naturale e di quello sociale il cui ordine va sempre garantito. L’individuo inserito in questo contesto deve accertarsi di rispettare le norme dharmiche della propria casta sociale (varṇa) e del proprio periodo di vita (āśrama).

In sostanza ogni induista sa quale sia il proprio compito e i suoi doveri a secondo della propria casta:

  1. La casta brahmanica sa che il suo compito è compiere i riti per sollecitare la benevolenza dei Deva (le divinità) nei confronti dell’intera comunità.
  2. La casta Ksatriya è consapevole del suo ruolo di amministratore e difensore del popolo.
  3. La casta Vaishya mercanti e artigiani, coloro i cui mestieri sono dovuti alla produzione.
  4. La casta dei Shudra servitori, coloro che usano la forza fisica nelle loro occupazioni professionali.
  5. Infine viene la casta dei Dalit o “intoccabili”, che si trovano al di fuori del sistema delle caste (si trovano in questa casta coloro delle caste superiori che hanno sposato qualcuno della casta dei Shudra e altri che si sono resi colpevoli di atti simili contro le caste).

Il codice di Manu dice che le varie classi nascono dalle varie parti del corpo del Signore Vishnu: i Brahmini dalla testa, gli Ksatriya dalle braccia, i Vaishya dalle gambe, i Shudra dai piedi.

Ed è certo che in alcune circostanze eccezionali (ad es. calamità naturali) l’intera normativa dharmica può essere sospesa (āppadharma), come nel caso di un brahmano che assume i compiti di uno ksatriya.

Il termine “casta”, (dal latino castus, puro) introdotto per la prima volta dai portoghesi, in realtà deriva dall’infelice traduzione di due concetti diversi, quello di Varna (che ha a che fare con il colore) e quello di Jat-(dal sanscrito Jāt, classificazione).

Il concetto di Jāti di per sé è invece relativo, oltre che alla nascita, anche al mestiere svolto. Vi è ad esempio la casta dei barbieri, la casta dei vasai, la casta dei suonatori e così via. Com’è facilmente intuibile esistono diverse centinaia di queste “sottocaste” ma anch’esse sono dei gruppi chiusi. Il sistema dei Jāti delinea una struttura lavorativa cristallizzata poiché trasmessa ereditariamente di padre in figlio e, in linea teorica, immutabile.

In tal senso, lo studioso francese Alain Daniélou ricorda come per gli hindū dogmi e credenze costituiscono altrettanti ostacoli allo sviluppo del sapere e della conoscenza della realtà. Gli induisti hanno sempre cercato di stabilire un sincretismo di filosofie e religioni per esprimere le varie sfaccettature delle forze cosmiche. Questo spiega come “la definizione di Induismo comprenda, in realtà, un insieme variegato di religioni e di visioni del mondo anche contrastanti sebbene questi siano espressi restando fedeli per tutta la vita a un ordine socio-culturale; motivo per il quale un induista non abbandonerà le norme, abitudini e comportamenti ed il fatto di essere nati in una casta (jāti). Il fattore etnico e culturale è determinante, in questo senso, affinché una persona si definisca hindu stando almeno alla più comune e ortodossa delle formulazioni.

Secondo Michel Delahoutre per conoscere l’induismo non bisogna solo conoscere il sanscrito, i veda o il brahmanesimo ma anche i fenomenti di adattamento con l’occidente, i nuovi guru e i nuovi swaami Quindi l'”Induismo” per lui non è solo una “invenzione” degli orientalisti occidentali ma anche l’autorappresentazione, moderna, di elementi già presenti nel passato indiano.

Nel 1966 la corte suprema indiana definì normativamente la qualifica di hindu, e quindi di induismo, con i seguenti sette punti:

  1. l’accettazione rispettosa dei Veda come la più alta autorità riguardo agli argomenti religiosi e filosofici,
  2. lo spirito di tolleranza e di buona volontà per comprendere e apprezzare il punto di vista dell’interlocutore, basato sulla rivelazione che la verità possiede molteplici apparenze;
  3. l’accettazione, da parte di ciascuno dei sei sistemi di filosofia induista, di un ritmo dell’esistenza cosmica che conosce periodi di creazione, di conservazione e di distruzione, periodi, o yuga che si succedono senza fine.
  4. l’accettazione da parte di tutti i sistemi filosofici induisti della fede nella rinascita e della preesistenza di tutti gli esseri.
  5. Il riconoscimento del fatto che i mezzi o i modi di raggiungere la salvezza sono molteplici.
  6. La comprensione della verità che, per quanto grande possa essere il numero delle divinità da adorare, si può essere induisti e non credere che sia necessario adorare le Murti (rappresentazioni) delle divinità.
  7. A differenza di altre religioni o fedi, la religione induista non è legata a un insieme definito di concetti filosofici.

La religione della civiltà della valle dell’Indo e gli indoari

Si ritiene che questa civiltà si sia sviluppata intorno al 2500 a.C. tramontando intorno al 1800 a.C.; elementi della sua cultura religiosa sono poi riverberati nell’Induism0

La generalità degli studiosi considera il vedismo praticata dagli Indoari come origine di quello che oggi è chiamato induismo.

Gli aspetti pre-vedici, pre-arii dell’Induismo derivano tuttavia dalla civiltà della valle dell’Indo, originatasi probabilmente nel periodo neolitico (7000 a.C.)Fu una civiltà agricola e urbanizzata molto sviluppata, con legami commerciali con la Mesopotamia e che ha lasciato delle importanti vestigia e delle opere d’arte. Sono documentati diversi elementi di eredità linguistica e iconografica tra la Civiltà della valle dell’Indo e la cultura dravidica dell’India meridionale. La grande quantità di figurine rappresentanti la fertilità femminile ritrovate indicano un culto ad una Dea madre, che potrebbe essere all’origine del culto della Dea propria dell’Induismo successivo. Le immagini di statuette prediligono rappresentare la divinità femminile in forma umana e quella maschile sotto forma animale (soprattutto toro, Zebù, bufalo d’acqua)

La Civiltà della valle dell’Indo decadde improvvisamente intorno al XIX secolo a.C. a causa, sembrerebbe, di mutamenti climatici come siccità o  inondazioni. Ciononostante nella zona di Mohenjo-daro sono stati rinvenuti scheletri di vittime di una morte violenta, caduti lì dove sono stati ritrovati, ciò testimonierebbe, comunque, l’invasione degli indoari. Nel 1500 a.C., l’arrivo dei conquistatori indoari nell’area del Punjab fece sì che tale cultura religiosa venisse ereditata solo dalle culture dravidiche dell’India meridionale, sopravvivendo al Nord ma solo in piccole comunità rurali e riemergendo nel periodo tardo e post vedico.

I Veda corrispondono all’ingresso degli Arii nell’India settentrionale e le prime formazioni di uno stato di diritto che si spingeva verso sud e verso est. La religione vedica è stata tramandata oralmente per secoli prima di essere scritta.

Il periodo successivo (circa dal 700 a.C.) detto del Brahamanesimo vede il progressivo riformarsi della struttura sacerdotale con il progressivo imporsi della figura del brahamano. Si passa da un officiante delle libagioni, detto hotr, a un cantore di melodie (Saamaveda), poi a un adhvaryu o mormoratore di melodie e infine al brahamana come detentore dell’ultimo veda.

Il flusso della vita di un induista

Il Varnāsramadharma , è considerato un sinonimo della religione induista ed è il percorso di vita che dovrebbe vivere un hindu e da esso sono esclusi gli appartenenti alla casta Sudra e le donne di qualsiasi casta. In sostanza dopo aver studiato i veda sotto un maestro in rigida castità il fanciullo rientra nella casa parentale dove si prepara al matrimonio dove diventerà un’uomo autonomo, questo è il periodo in cui può prendere le sue soddisfazioni, fare vita mondana. Una volta invecchiato continuerà ad officiare ai riti come capofamiglia ma comincia a ritirarsi dalla vita mondana, praticando yoga e povertà per cercare una sua ascesi per vivere di elemosine nell’ultima parte della sua vita.

Purusaarta: i quattro scopi legittimi della vita di un hindù

  • Artha ricchezza materiale, successo, benessere, potere, anche quello politico
  • Kāma inteso come piacere, soddisfazione dei desideri, anche sessuali; L’erotismo ha un posto preciso tra i legittimi scopi della vita, su di esso vi è una raccolta di letteratura religiosa denominata Kāmaśāstra L’amore è tuttavia il dovere proprio di una donna (svadharma) segnatamente indicato come strīdharma (dovere della donna)
  • Dharma come giustizia, etica, ordine, valori, anche religiosi; questo scopo deve inglobare e guidare i due precedenti di modo che essi non sconfinino nell’illegittimità, fornendo all’individuo quella necessaria armonia con la legge e l’ordine dell’intero universo (Dharmasutra, Dharmasastra)
  • Moksa(o mukti), la libertà assoluta, ovvero il fine ultimo di ogni esistenza hindu e di ogni esistenza in genere e consiste nella liberazione dalle catene del nascere-morire (samsāra, lett. scorrere insieme) obiettivo ultimo dell’ultimo stadio della vita. 

Sono differenti le “vie” di “liberazione” dal saṃsāra che il complesso religioso che va sotto il nome di “Induismo” offre al suo praticante e queste possono essere approfondite nelle voci delle relative scuole e insegnamenti.

Foto Skuola.net oriente spirituale        ©  Spuntarelli Francesco

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