A colloquio con Ciro Ferrara sul valore dell’amicizia nel mondo del calcio
IL PIACERE DI STARE INSIEME PER VINCERE COL SORRISO SULLE LABBRA E LE ALI AI PIEDI SECONDO CIRO FERRARA
Una conversazione con Massimiliano Serriello
L’immagine dell’abbraccio conclusivo, al termine della lotteria dei rigori, tra Roberto Mancini e Gianluca Vialli (nella foto), gli ex gemelli del gol in grado di rinascere come un’Araba Fenice, trascende l’enfasi manieristica delle arcinote ostentazioni di stima, i pistolotti edificanti in merito all’apporto dell’intesa genuina nello sport di squadra, gli applausi fragorosi dietro di cui si nasconde il pretesto di uscire dal senso d’estraneità dovuto all’impietosa pandemia con canti e schiamazzi superficiali ed esteriori.
Il campionato europeo di calcio vinto lo scorso 11 luglio dalla Nazionale italiana grazie anche, se non soprattutto, alla sapiente guida tecnica dell’alacre Mancini detto Mancio, supportato nelle vesti di Capo delegazione dal carismatico Vialli, richiama alla mente per alcuni versi l’indimenticabile trionfo del Napoli nella gara di ritorno della Coppa UEFA 1988-1989 contro lo Stoccarda. Sotto le abbaglianti luci dei riflettori, in mezzo ai canonici flash delle irrequiete macchine fotografiche, dopo la finale conquistata buttando davvero il cuore oltre l’ostacolo, al microfono di Italo Kuhne, affabile cantore televisivo dell’epopea compiuta lontano dall’ombra del Vesuvio, re Diego Armando Maradona baciando con fraterno affetto la testa riccioluta dell’emozionatissimo Ciro Ferrara (nella foto), artefice della rete dell’atteso sorpasso su assist proprio dell’inarrivabile Pibe de oro, gli riconobbe la piena paternità dell’impresa. Rinvigorita dal legame col suolo natio, dalla vertigine del sogno di bimbo divenuto realtà, dal rapporto alla pari instaurato col miglior calciatore dell’intero globo. Sulla scorta del sano scambio d’inobliabili soddisfazioni ed esperienze costruttive, d’intensi scoramenti, per gli obiettivi sfuggiti all’ultimo sprint, ed esaltanti riscatti.
Nel prodigioso universo del cinema, specchio creativo ed empatico dell’esistenza, il sentimento di condivisione, la capacità di divertirsi, la fiducia reciproca eletta ad antidoto all’impasse dell’infecondo egoismo hanno ispirato profonde note intimiste, solenni promesse, scherzi esilaranti, colossali sbornie, ansie febbrili, spirito cameratesco e determinanti prese di coscienza.
Basti pensare ad Amici miei di Mario Monicelli, con la goliardica sequenza degli schiaffi alle vittime di turno affacciate ai finestrini del treno sugli scudi, a Mariti di John Cassavetes, imperniato sul terzetto di fedifraghi quarantenni intenti a elaborare il lutto in chiave godereccia, a Il cacciatore di Michael Cimino (nella foto), impreziosito dalla fedeltà ai princìpi venatori e alla norma d’appartenenza dell’affiatamento sincero, a Balla coi lupi di Kevin Costner. Western revisionista che sbocca nell’aura contemplativa palesando l’inno alla fiducia ghermita step by step dall’atipico yankee a contatto col popolo Sioux.
La condivisione del gioco, preso comunque molto sul serio, e dell’obiettivo di squadra moltiplica il piacere di stare insieme. Riscontrabile in particolare nelle celebri prime volte. Come il tricolore acciuffato dal Napoli di Maradona, scucendolo alla Juventus del ieratico Platini in declino, o quello della grintosa ed estroversa Sampdoria. Guidata dal capobranco per antonomasia Vialli.
A rinsaldare gli sganciamenti dei terzini, biglietto da visita del coriaceo Ferrara sui rettangoli di gioco all’epoca dell’età verde, il recupero palla dei portatori d’acqua, i lanci millimetrici dei registi provvisti di fosforo ed estro, le manovre corali dei team cementati dall’identità collettiva, le chiusure categoriche, la verticalizzazione, i tocchi felpati, le incornate all’incrocio dei pali, i sinistri diabolici, i destri fulminei fu il patto d’onore stabilito dagli outsiders. Intenzionati a invertire la tendenza avversa alimentando a dovere l’autostima. Rinvigorita dalle risate complici, dall’unione guascona, dalla granitica dedizione alla causa, dall’insolita virtù di ritrovarsi e di scegliersi.
Ciro Ferrara nel libro Ho visto Diego: E dico ‘o vero, scritto per i sessant’anni del geniale e confidenziale Maradona, deceduto purtroppo da lì a poco, è riuscito a trasmettere quel peculiare grado d’intimità. Diametralmente opposto alla naturale attrazione per il gentil sesso, ai rapporti d’amore, ai diritti e ai doveri sanciti in seno al cerchio familiare. L’aneddotica dispiegata per esibire un’ottica differente dall’analisi antropologica condotta per capire l’immediatezza tra pensiero e attuazione, alla base dei fenomenali numeri di prestigio eseguiti dal compianto fuoriclasse, palesa la forza dello spogliatoio. Nel ricordo del cocomero fresco mangiato l’estate che l’indomito capitano tornò dal Mondiale in Messico. Deciso ad aggiungere al titolo di campione planetario con l’Argentina l’attestato di campione d’Italia col Napoli. L’umanità che trapela fornisce un punto di vista utile ad accrescere il processo d’identificazione con i motteggi di presa immediata. Alla battuta dell’espansivo Diego nella premessa concernente i mezzi tecnici dell’ideatore letterario, Ciro replica ribadendogli che con il suo ingresso in pianta stabile nel team dapprincipio incerto il Napoli cambiò decisamente il passo. Toccando l’acme. Per la gioia della città e dell’appassionante umorismo dei tifosi del Ciuccio. Lo striscione esposto nel cimitero, con l’effigie “E che ve site perso!” in bella mostra sul muro, era frutto infatti dell’ingegno millenario, dell’energia venutasi a instaurare, dell’alchimia di prontezza ed empiti distesi.
La distensione costituisce invero l’assoluta chiave di volta. Ciro, passato alla corte juventina conservando intatto il desiderio di sopperire allo stress dovuto al risultato da raggiungere per entrare nella storia con la vena canzonatoria, si portò nell’aereo diretto a Tokyo una telecamera amatoriale. Battezzò, a beneficio degli spettatori del programma tv 8 mm, Tacchinardi “il bello della squadra”, Christian Vieri “il brutto della squadra”, invitò le maestranze sconosciute ad apparire sul piccolo schermo, ammonì Zizou alias Zinédine Zidane a non dormire. Per attenersi alle disposizioni del mister sul fuso orario. Infine, insieme ad Alessandro Del Piero e Angelo Di Livio, mostrò sorridente la Coppa Intercontinentale. Vinta a discapito del River Plate.
Vialli fece pressoché lo stesso qualche mese prima. Alla vigilia dei quarti di Champions League con il Real Madrid. Inquadrando il suo armadietto, l’immagine dei suoi calciatori preferiti, Del Piero e Ciro Ferrara, un nudo femminile, le scarpine, gli scatoloni. Caricò a mestiere i compagni. Strappò un sorriso propizio all’allenatore Marcello Lippi. Affetto dal mal di stomaco per il difficile scoglio da aggirare. Descrisse nel video l’afflusso dei supportes “giunti appositamente dalla capitale ispanica per assistere alle grandi mazzate che la Juventus consegnerà sulla schiena dei loro giocatori”. L’esito gli diede ragione. Come quando, dopo la sconfitta nel derby col Torino, andò in sala stampa affermando che i bianconeri avrebbero ugualmente vinto lo scudetto. “A maggio, quando ci rivedremo, mi dirai se ho visto giusto”. Il convincimento, che pur sfiorandola non traligna mai in arroganza, la frenesia dell’iperbole, il gusto per la battuta, allo scopo d’impedire all’insalubre irritabilità di nuocere al lasciapassare per i traguardi più temerari, permeano altresì le pagine del testo celebrativo La bella stagione. Redatto da Vialli, chiamato sempre Luca dal buon Ciro, insieme all’inseparabile Mancini.
Rammentando, a un tiro di schioppo dall’Europeo disputato nella Perfida Albione, le armonie, i disaccordi, i chiarimenti, gli eventi in apparenza minimi. Necessari ad assicurarsi il trionfo. A distanza di trenta primavere dallo storico podio – conseguito con la classe del Mancio, le doti da goleador di Luca, la vigoria dei compagni di battaglia – il deus ex machina è la valenza terapeutica del clima distensivo, rassicurante, ammiccante ed entusiasmante.
Vialli, colpito nel 2017 da un tumore alle parti molle, rimane un duro. Sostiene che con il cancro non sta conducendo alcun tipo di lotta. Lo ritiene un avversario troppo forte. Spera che il compagno di viaggio a lungo andare si stanchi. Consentendogli di proseguire l’itinerario del trascinatore nato. Per infondere sicurezza a chi lo circonda. Inclusi gli azzurri neo-campioni d’Europa. Nel vederlo eseguire le flessioni, ascoltando i muscoli a dispetto dell’ospite indesiderato, gli atleti di oggi sanno di poter disputare l’imminente Mondiale di domani rovesciando i pronostici contrari. Nell’esecuzione della rovesciata Ciro e Luca erano appunto sommi maestri.
Non ci è dato sapere a chi spetta la precedenza del volteggiante gesto tecnico che si presta ad appassionanti metafore. Ascoltare dalla viva voce dell’amico napoletano la sua campana contribuirà forse a chiarire la questione. Attestando la fragranza della franchezza che guida la Fondazione Cannavaro Ferrara, la Fondazione Vialli e Mauro per la Ricerca e lo Sport onlus, le risorse per segnare, difendere, crescere, ridere, piangere, reagire, gioire, sognare. A Dio piacendo.
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1). D / Nell’ambito pubblico gli spettatori, persino quelli più illustri, hanno conosciuto solo Maradona. Ineguagliabile artista della sfera di cuoio che, pure dopo aver coniugato la vita all’imperfetto, suscita ancora ondate d’amore frammiste all’astio di chi vorrebbe ridimensionarlo. Lei ha conosciuto Diego (nella foto) nei territori del privato. Lo scopo del suo libro consiste nel rendere i lettori partecipi della familiarità con il mito e travalicare l’impressionismo soggettivo?
R / Concordo pienamente con la sua valutazione. La differenza che ha reso Diego unico agli occhi d’ognuno di noi è stata senz’alcun dubbio la sua enorme generosità. Se il più grande calciatore di tutti i tempi non rimprovera mai un compagno di squadra per un passaggio fuori misura, ma anzi lo sprona, gli indica la strada da seguire, dandogli l’esempio, infondendo sicurezza, è impossibile non amarlo. Al contrario se il più grande giocatore di tutti i tempi si fosse posto con alterigia, con superiorità, con un atteggiamento spocchioso, sarebbero sorti dei problemi all’interno dello spogliatoio. Diego nella sua irregolarità, nel marcare visita ai ritiri, nel saltare spesso e volentieri gli allenamenti, ci ha fornito lo stesso stimoli incredibili. Spesso entrava in campo in condizioni fisiche precarie a causa dei suoi continui problemi alla schiena. Eppure lottava come un leone. Ci dava il cinque prima degli incontri decisivi. Ci caricava. Aveva un modo unico d’approcciarsi col prossimo. Era solito ripetermi: “Ciro, dobbiamo divertirci!”. “Diego, ti diverti solo te”. Gli rispondevo. La sua tranquillità prima dei match cruciali, quelli da dentro o fuori, era sorprendente. Specie per l’attenzione spasmodica dei mass-media nei suoi confronti. Lui ci ha sempre messo la faccia. Gente come lui, ma anche come Luca, è riconosciuta all’unanimità nelle vesti di leader al di là della fascia da capitano. È lo spogliatoio che li elegge. Ovviamente ho scritto il libro in omaggio a Diego prima della sua dipartita. Oggi ho una consapevolezza maggiore del periodo che abbiamo trascorso insieme. E del suo itinerario successivo. Contraddistinto da zone di luce e d’ombra: è inutile negarlo. Una parte del suo animo è screziata. Ma, proprio per questa ragione, lo rende oltremodo affascinante. Io ho voluto raccontare l’Uomo. Che ha commesso degli errori. Chi non li commette? È riuscito comunque a far felici miriadi di persone. La commemorazione, il lutto per la sua prematura scomparsa ha investito ogni angolo del mondo. Non solo in ambito sportivo. Il bene che ha seminato supera quindi di gran lunga gli errori commessi. Che comunque ha pagato in prima persona. Nei territori del privato, come dice lei, Diego, con il suo modo di porsi, è stato persino meglio del mito Maradona. Comunque riconosciuto dappertutto. Com’è giusto che sia. Ci mancherebbe altro!
2). D / Non a caso El Diez ha impressionato e incuriosito tutti. Al punto che quando lei arrivò a Torino, sponda juventina, Gianni Agnelli volle incontrarla per chiederle qualche rivelazione al riguardo. L’investitura di amico del cuore dell’asso argentino si è rivelata col tempo un fardello o è rimasta un fiore all’occhiello?
R / Quest’investitura, come l’ha ben definita, mi rende orgoglioso. E ogni tanto me ne sono servito per fare degli scherzi goliardici. Ne ha fatto le spese anche il mio figlio più piccolo. Ho un caro amico, Stefano Ceci (nella foto con Maradona), che ha vissuto a stretto contatto con Diego e sa perciò imitarne alla perfezione la voce. Per cui qualche volta ne ho approfittato. Per così dire. La mia storia di calciatore comincia con l’approdo di Maradona al Napoli: si è creato un legame indissolubile. Ed è dunque naturale essere associato a lui. Ci siamo d’altronde sempre capiti al volo. In ogni circostanza. L’appellativo di amico del cuore di Diego è quindi motivo di estrema gratificazione. In quanto dettato dalla comprensione.
3). D / Capirsi pure con i compagni di reparto è fondamentale. Pare che nell’incontro a Wembley con l’Inghilterra, valevole per la qualificazione ai Mondiali del 1998, lei e Fabio Cannavaro (nella foto) vi parlavate in dialetto partenopeo. Tipo “Statte accorte”, “Pija a chisto”. Riferito ad Alan Shearer. Ma Paolo Maldini e Alessandro Costacurta, lombardi doc, vennero tagliati fuori in quel modo?
R / Ci guardavano straniti. Interdetti. Senza afferrare una parola. Era una delle prime presenze in azzurro di Fabio. Volevo metterlo a proprio agio. Senza fargli avvertire il peso di affrontare attaccanti ostici. Come appunto Shearer. Stavamo in Inghilterra, in ogni caso: gli avversari non ci avrebbero capito nemmeno se avessimo parlato in italiano perfetto. Prima di entrare in campo, nel tunnel, vedemmo Paul Ince. A petto nudo. Incurante del freddo pungente. Stavamo a febbraio. Eppure non ci siamo fatti intimidire: il senso d’appartenenza, il piacere di parlarci in napoletano, quasi in codice, di darci man forte, alla fine hanno prevalso. Fu una partita difensiva. Che vincemmo con un gol di Zola. Riuscimmo a respingere gli assalti avversari. Forti della gioia di giocare insieme e di capirci al meglio.
4). D / Nondimeno pure con il cremonese Vialli (nella foto), presente anch’egli all’incontro fatidico con l’Avvocato incuriosito, parlate la stessa lingua. Sul piano dell’agonismo tenace, dell’alta densità lessicale e della virtù di stemperare nell’ironia l’eccessiva tensione. Prendersi in giro in amicizia, rimarcando i punti deboli gli uni degli altri, tiene all’erta l’arguzia ed esorta ad accettare le critiche costruttive?
R / Sono perfettamente d’accordo. È una filosofia di vita. Il calcio in Italia ed Europa è una cosa estremamente seria. Affrontarlo però in modo scherzoso, ironico e soprattutto autoironico rappresenta un’ottima palestra per la mente. Impedisce alla permalosità di prevalere. Rasserenare gli animi, all’interno dello spogliatoio, quando altrimenti c’è una tensione che si taglia con il coltello, consente di tenere all’erta l’arguzia, il tempismo, la coordinazione. Scherzare sui rispettivi punti deboli rinforza le energie mentali. Insegna a digerire le critiche sollevate dall’esterno. Anche quelle ingiuste. Meno costruttive. Rientra nella capacità di gestirsi. Ed è attraverso la comprensione dei punti deboli che sigilliamo quelli di forza. Grazie alla voglia di anteporre una battuta di spirito, la complicità, i modi giocosi. Una volta alla Juventus stavamo attraversando un momento difficile. Il direttore Luciano Moggi ci chiese spiegazioni. Replicammo che, visti i pesanti seppur utili carichi di lavoro propinatici dal preparatore atletico Giampiero Ventrone, stavamo mettendo benzina nel motore. “Non è che state mettendo diesel?”, chiese Moggi. Prontissimo alla battuta.
5). D / Ai tempi del suo Triplete, nell’anno mirabilis 1987, ad Arezzo con la vittoria ai campionati mondiali militari di calcio (nella foto Ciro Ferrara con il resto della ciurma), quantunque insignito del primo storico scudetto e della Coppa Italia, venne definito un commilitone privo di riconoscibilità?
R / In effetti sulle pagine del Guerin Sportivo fui indicato come un anonimo commilitone. A differenza di Vialli e Paolo Baldieri. Luca non mancò di sottolinearlo per mettermi in mezzo. Io, oltretutto, mi sono fatto tutto il Car (Centro addestramento reclute). Da bravo soldato. Ligio ai doveri. Lui, invece, impegnato nel Mondiale in Messico, una spedizione per altro poco fortunata per la nostra Nazionale, si presentò solo alla fine. A cose fatte. A salutare.
6). D / Vialli e Altobelli, all’epoca del ritiro della Nazionale Italiana per gli Europei in Germania del 1988, rappresentavano con i loro scherzi un pericolo costante assai più temibile di Alan Shearer?
R / Spillo Altobelli e Vialli (nella foto) erano degli attaccanti infingardi: con loro bisognava sempre tenere gli occhi aperti. Era un gruppo molto unito. Pure Riccardo Ferri, anche quel matto di Nando De Napoli sapevano prenderti in contropiede e tendere calappi per fare scherzi esilaranti. Stavamo in buona compagnia. Peccato che quella Nazionale non vinse nulla. Lo avrebbe meritato.
7). D / Il 4 dicembre 1994 nel match Juventus-Fiorentina Vialli, autore dell’avvincente rimonta, si sottrae al suo abbraccio e a quello del gruppo per non dare modo ai viola di riprendere fiato. Il 22 maggio 1996 allo stadio Olimpico di Roma è lei a sorreggerlo prima del rigore di Jugović che consente alla Vecchia Signora di conquistare la Champions League. L’input motivazionale e il mutuo supporto passano attraverso l’opportuno do ut des?
R / Lui, memore della sconfitta patita con la Sampdoria nella finale di Wembley contro il Barcellona quattro anni prima, non guardò il rigore decisivo. Come ha fatto anche prima del penalty di Saka. Parato da Gianluigi Donnarumma. Per rispondere alla domanda, sì: è bello, stimolante, emozionante restituire qualcosa di significativo sotto l’aspetto motivazionale, affettivo a un leader. A un capociurma. Specie della levatura di Luca. La partita con la Fiorentina la ricordo bene. Tentammo il tutto per tutto per raddrizzare il punteggio. Alla fine vincemmo. Gran parte del merito fu proprio di Luca. Non sopportava affatto l’idea di perdere. Per riuscire a ribaltare una partita occorre una determinazione feroce. Ed è lì che emerse appieno il carisma di Luca che, dopo aver accorciato lo svantaggio, prese il pallone dalle mani di Toldo e poi, anziché festeggiare il pareggio ottenuto con sua girata di destro, c’incitò a insistere per cogliere il bottino pieno. La dice lunga sulla sua forza di volontà. Che ci ha spronato a fare altrettanto.
8). D / Prima della pandemia, alcuni seguaci dei giochi sacri preferivano le robuste strette di mano degli atleti olimpionici nel momento della massima affermazione rispetto ai calciatori che si buttano le braccia al collo. Il distanziamento ha ribadito viceversa che l’abbraccio non è un segno d’infantilismo bensì di empatia. Il suo con Vialli resta uno sprone ad affrontare le prove più ardue?
R / Al di là del gesto dell’abbraccio, è lo sport di squadra che esalta il senso della condivisione. Nella sua accezione più ampia. Il calcio vive di situazioni uniche ed emozioni al cardiopalma. Di momenti gioiosi e anche di momenti duri da superare. Saper stare in gruppo significa gestire i momenti d’impasse. Mettendoli alle spalle. Ed è per questo che Vialli, con la sua presenza, con il suo modo di essere, di vivere, di affrontare, fuori dal campo, le sfide più proibitive, trasmette ancora al gruppo degli input decisivi. È quando le cose vanno male che esce il carattere. Tracciando la strada da seguire. Per convertire le difficoltà in vittorie. E ribaltare gli esiti negativi.
9). D / Ed è il senso della resilienza. Racchiuso nel gesto della rovesciata. Rovesciare il male in bene è infatti un bellissimo modo d’intendere la vita. Ma è stato Vialli a prendere spunto da lei per perfezionare le rovesciate o viceversa?
R / Gli attaccanti fanno le rovesciate per segnare. I difensori per spazzare via la palla in sicurezza. Lontana dalla propria area di rigore. Gli attaccanti conquistano così le prime pagine dei giornali. Mentre il gesto atletico compiuto dal difensore cade nel dimenticatoio. A me tuttavia è riuscito pure di trovare la via del gol in rovesciata. Sono certamente io ad averlo ispirato.
10). D / Lui direbbe il contrario. Comunque sono parecchie le affinità elettive?
R / È una domanda arguta. Che mi dà da pensare. Non so se si tratta di affinità elettive. Ma sono molte le cose che ci accumunano. Ed è una gioia. Perché custodisce l’essenza dell’amicizia. Nell’ironia. Nell’autoironia. Nel rovesciare il male in bene.
MASSIMILIANO SERRIELLO