A colloquio con Danilo Mattei sulla Magia del Cinema e sul Valore dell’Amicizia
LA DINAMICA REALE DELLE COSE:
L’EGEMONIA DELL’UMANITÀ SULLA NOTORIETÀ
Una conversazione con Massimiliano Serriello
La fabbrica dei sogni del cinema innesca nell’animo di chi vuole lasciare il segno, vincendo l’angoscia acuita dall’anonimato, l’intima speranza di mettere così a punto una sorta di miracoloso rimedio contro l’incubo dell’insuccesso. L’incognita peggiore, al pari della noia di piombo, che può inficiare la magia nel buio della sala ed estromettere l’indispensabile sospensione dell’incredulità dai requisiti più carezzevoli della Settima Arte.
Gli economisti contemplano anche tra le strategie di riduzione del rischio del temutissimo insuccesso il jolly dello star system. Agli occhi del pubblico allergico ai dispendi di fosforo, cari invece ai presunti esperti avvezzi a un concetto d’autorialità condizionato dall’arma a doppio taglio del deleterio tedio, lo spettacolo di secondo piano della recitazione prevale sulle scelte espressive dei registi eletti al rango di discutibili guru. Tuttavia, in fondo, i due eccessi, seppure agli antipodi come punto di partenza, finiscono per somigliarsi. I cinefili intenti a riverire la tenuta stilistica esibita dietro la macchina da presa da fior di professionisti, scambiati però per guru dagli atei allo sbaraglio intenti pure a collezionare inutili cimeli appartenuti ai maestri di celluloide, risultano ridicoli tanto quanto i fan sedotti dalla popolarità degli interpreti.
Danilo Mattei (nella foto con Harvey Keitel, Robert De Niro e Christopher Walken), nel vigore degli anni verdi, anteponeva alla zavorra degli inani fanatismi il diritto alla fantasia. Ed ergo all’opportuna speranza. Giacché rinvigorita dalla sana sfacciataggine della gioventù. Abituato dal training in teatro a calarsi nei panni di personaggi diametralmente opposti rispetto a lui, lesse tutto d’un fiato il romanzo “Un’anima persa” di Giovanni Arpino. Lo stesso scrittore, nato a Pola, nell’Istria Patria dei migliori figli d’Italia, aveva ispirato con “Il buio e il miele” il bellissimo film “Profumo di donna” che diede la possibilità a Vittorio Gasmann di mettere in mostra la miglior prova recitativa della sua carriera. Il provino nel ruolo del timido Tino catapultò Danilo dal palcoscenico calcato senza alcun timore reverenziale con Giancarlo Cobelli e Alberto Lupo al set con dei divi amati sia dalle masse sia dalla critica.
L’anno dopo la prova del fuoco insieme al grande Nino Manfredi, con Luigi Magni in cabina di regìa nelle vesti di mentore erudito ma scorbutico, lo trovò di nuovo pronto. Sensibile ai profili di Venere, affascinato dai processi di personificazione e reviviscenza posti in essere dalla celebre scuola Actors Studio, il giovane predestinato conosce il suo idolo: Robert De Niro.
Ritenuto, congiuntamente ad Al Pacino, l’emblema del celebre Metodo preferito spesso al talento d’imprimere alla profondità di campo o a un match-cut visivo l’intrinseco contrassegno della scambievolezza d’immagine e immaginazione. Quest’ultima non era necessaria. La star italo-americana era considerata poco aperta ai rapporti confidenziali. Chiusa ai limiti della scontrosità. Nasce invece un profondo affiatamento, la voglia di prendersi in giro per misurare l’uno l’arguzia dell’altro, sulla scorta del gusto per gli scherzi, in camera caritatis, lontano dalle luci degli assillanti riflettori.
Frattanto, mentre l’applicazione del Metodo di Robert, detto Bob, procede a gonfie vele, nei panni ora di Al Capone in The Untouchables di Brian De Palma ora dell’invasato Max Cady in Cape Fear dell’amico per la pelle Martin Scorsese, qualcosa nella vita dell’ex golden boy autoctono s’inceppa. La fulgida prospettiva di divenire uno James Stewart nostrano, meno aitante, però dallo sguardo ugualmente intenso, cede spazio alla tentazione dell’iperbole. Al baratro del vizio, esacerbato dalla congerie di dubbi ed equivoci, alieni, in prassi e in spirito, ai battimani precedenti, si va ad aggiungere l’acuta fitta del dolore. Con la dipartita dell’amatissima sorella. Non si tratta più di concedersi delle scappatelle, di stemperare nell’ironia la corsa ai larghi profitti economici dei neofiti incalliti, di preferire alle solite attestazioni di stima, votate alla più vieta ipocrisia, la fragranza della sincerità. L’intimità dolente inverte la marcia che sembrava, se non trionfale, serena. La girandola dei pettegolezzi, tormentosamente imbarazzanti, pare infliggere il colpo di grazia.
Ed ecco, invece, che il do ut des, connesso all’accezione migliore dell’amicizia, giunge in suo soccorso. La linea di costanza del sentimento d’intesa virile rimedia a ogni battuta d’arresto, alla chimera di cogliere l’attimo fuggente, alla necessità di tirare la carretta, al labile sogno di estrarre il coniglio dal cilindro. Passa tutto in secondo piano dinanzi allo slancio della generosità e alla doverosa replica dell’indiscutibile riconoscenza. Danilo si rimette, perciò, in piedi.
Rinasce, per certi versi. Non, tuttavia, come un’Araba Fenice. Bensì come un uomo, ormai maturo, che sa trascendere, al momento giusto, la presenza dominante delle ambizioni eccessive. Quelle giuste continua a coltivarle sulla scorta del rinnovato entusiasmo. L’abnegazione va a braccetto con la sincerità. Non si ritiene uno stinco di santo né si nasconde dietro un dito. Da ragazzo mordeva il freno, non stava alla finestra ad aspettare che le cose succedessero. Le remote paure, antitetiche all’esaltante terreno dei film che corrispondono all’emotività degli spettatori muniti di licenza elementare e delle altere opere idolatrate dagli sciocchi persuasi di sembrare arguti, servono anche a crescere.
Per sconfiggerle occorre riporre fiducia in un valore che non sarà mai viziato d’intellettualismo. Che non annegherà mai in un mare di slogan. Danilo, rettificato col cognome per intero Mattei Mezzetti dai soliti vani pignoli, sa bene che la reciprocità dell’affetto, ritenuto un Pozzo di San Patrizio solo da chi confonde il disvalore del cinismo con l’asse portante dell’opportuna schiettezza, in barba ai pedanti, allergici altresì agli pseudonimi, raggiunge il suo diapason nel momento del bisogno. Tenere fede al riserbo in cui vige la figura pubblica di Robert De Niro è per lui un atto dovuto. Al posto delle bestie nere presenti in un campo pieno di spine, con la ruffianeria e l’invidia in grado di lanciare un’ombra sinistra sulle ondate di simpatia, preferisce l’integrità della gratitudine. La conoscenza privata del divo, corso in suo aiuto, non ha nulla ché vedere, per Danilo, con l’accidia delle idee attinte all’altrui ingegno, secondo il pluralismo dei punti di vista d’ascendenza pirandelliana, e la tendenza a buttarsi avanti per non cadere indietro. Dopo aver brindato ai piaceri dell’esistenza, connessi al processo d’identificazione con l’azione, che faceva il bello e il cattivo tempo parallelamente al carattere da prendere con le molle dei racconti fantastici, il ritorno alla realtà, sotto l’aspetto affettivo, rappresenta l’approdo ideale. Per non inciampare nel filo d’erba dell’incertezza. Il destino talvolta tira colpi bassi. La fortuna chiede il conto. Le rughe, umanissime, solcano pure i volti angelici. Ma gli amici veri resistono al collaudo del Tempo. Un giudice più assennato di qualsivoglia complicazione inutile. O sancta semplicitas.
1). R / Nel tuo esordio sul grande schermo reciti insieme a due mostri sacri della levatura di Vittorio Gassman e Catherine Deneuve. Roba, citando il sommo Poeta, da “far tremare le vene e i polsi”. È stato come passare sotto le forche caudine o hai tratto beneficio dai loro consigli?
D / Era fondamentale ottenere il beneplacito di entrambi. Non bastava aver convinto Dino Risi. Si trattava di due fuoriclasse della recitazione che avevano voce in capitolo. Gassman (nella foto con Danilo) dapprincipio fu diffidente e severo. Gentile nei modi, intendiamoci, ma sulle sue. Con l’aria autoritaria, forse anche un po’ scontrosa, che lo contraddistingueva. Catherine Deneuve si dimostrò, invece, subito decisamente dolce nei miei confronti. La produzione, a distanza di poco tempo da questi due incontri, mi ricontattò. Li avevo convinti appieno. Mi ritrovai catapultato nella Mecca del Cinema con due star di fama mondiale. Sul set né loro né Dino Risi mi hanno comunque imposto dei diktat o dato delle indicazioni perentorie. Sono stato libero di entrare nel personaggio in maniera spontanea. Hanno tutti palesato grande fiducia nella mia genuina adesione al carattere introverso di Tino.
2). R / All’epoca il processo d’immedesimazione nel personaggio sostenuto dall’Actors Studio andava per la maggiore. Anche tu sei stato sedotto dal fascino del Metodo Stanislavskij rielaborato da Lee Strasberg?
D / Assolutamente sì. Ne ero molto affascinato. Robert De Niro in “Taxi Driver” aveva acceso la mia fantasia. Al punto che volli andare all’Actors Studio, che ai tempi era presieduto da Shelly Winters. Ex moglie di Vittorio Gassman. Il quale le inviò una lettera segnalandomi come un attore di talento. Io ero però un semplice observer: seguivo i corsi, le tecniche acquisite per calarsi nel personaggio con l’ardua reviviscenza, senza divenire, tuttavia, un allievo a tutti gli effetti.
3). D / Poco male. Visto che tra i tuoi Maestri in Italia ci sono stati Nino Manfredi, al fine d’impreziosire il gioco fisionomico della recitazione, e Luigi Magni. A parer mio il più grande regista romano di tutti i tempi. Il set era quello di “In nome del Papa Re”. Di chi serbi il ricordo migliore?
R / Gigi era un uomo estremamente intelligente. Con una conoscenza enciclopedica, come sottolinei tu, della Storia. Specie quella di Roma. A differenza di Dino Risi, che ebbe totalmente fiducia nel mio istinto e nel modo di affrontare il ruolo del diciannovenne contrario agli intrighi perpetrati dagli ambigui parenti, Magni si dimostrò immediatamente ed estremamente scrupoloso. Siamo stati un mese a mandare a memoria i dialoghi e a fare le prove. A lui non piaceva che andassimo a braccio. Nondimeno mi trovai bene: ero abituato in teatro a prepararmi sin nei minimi particolari. Il lavoro a tavolino, per calarci al meglio nei rispettivi ruoli e stabilire la giusta intesa nelle battute, avvenne a casa di Nino Manfredi. Sul set “andammo come delle spade”, come si dice, proprio in virtù dell’attento lavoro precedente a cui ci sottopose Gigi Magni. Manfredi esercitava, in ogni caso, un enorme ascendente su di me. Grazie alla sua straordinaria bravura recitativa. Per colpa mia lui e Gigi litigarono pure. Noi stavamo a Montepulciano ed io, nel fine-settimana, invece di rimanere insieme alla troupe, com’era stabilito, preferii avventurarmi in una fuga romantica. Andai a Santo Stefano con l’automobile sgraffignata, di soppiatto, a Giovannella Grifeo, che aveva già recitato per Magni, nell’episodio “Il cavalluccio svedese“ della commedia “Quelle strane occasioni“. Una volta tornato, con le ustioni solari e un dente sacrificato alla causa, Gigi andò su tutte le furie, mentre Nino prese le mie difese. Lo screzio proseguì durante le riprese. Manfredi nutriva stima per la mia capacità di valorizzare la mimica facciale ritenendo inutile ripetere a oltranza la stessa scena. Alla fine si riappacificarono e mi sentii sollevato.
4). D / Giovannella Grifeo, oltre a non avere nessun timore reverenziale dei più grandi attori italiani (la ricordo altresì insieme ad Alberto Sordi, Ugo Tognazzi e Marcello Mastroianni nel bel film dolce-amaro “L’ingorgo” di Luigi Comencini), era anche una ragazza tosta. Piena di vitalità.
R / Sai tutto. Sì, non ti sbagli nemmeno su Giovannella. Confesso che c’era del tenero tra noi. Dopo tanti anni si può dire. È un reato che cade in prescrizione. Scherzo, ovviamente. Anche se Gigi Magni non prese bene il nostro flirt. Lei era una sua protetta. Nel senso buono, per carità! Aveva una notevole grinta come attrice.
5). D / Con Cannibal Ferox, nel ruolo dell’imprudente avventuriero Rudy Davis, ucciso in Amazzonia con una lancia intrisa di veleno, hai preso parte a un film inviso all’inizio alla maggioranza dei critici. Poi addirittura innalzato al rango d’indiscutibile cult movie. Cosa pensi dell’oscillazione dei giudizi di chi si erge ad agente di pubblica sicurezza dell’autorialità?
R / Lo affermo con la massima schiettezza, fuori dai denti: non ho alcuna stima dei critici cinematografici. Si atteggiano a esperti e il più delle volte sono delle banderuole. Escluse poche eccezioni. Come te. Che sei sempre molto puntuale e preciso nei tuoi giudizi. Ma, nel suo complesso, ritengo la categoria poco coerente.
6). D / Molti critici in effetti non si sentono vincolati nemmeno ai loro giudizi. Come regista, invece, Umberto Lenzi non era uno che si “rimozzicava” la lingua. “Cannibal Ferox” è un’opera carica di senso con una sua forza disturbante che non cede ad alcuna edulcorazione. Ti è piaciuto essere diretto da un regista così coerente ed estremo? R / Certamente è stata, come attore, un’esperienza fondamentale. Piuttosto significativa. Lui si calava nei ruoli di ogni personaggio, da Mike Logan al tenente Rizzo, dalla povera Pat alla studiosa Gloria, spiegando ad attori e ad attrici come voleva che fossero le pose, la gestualità, la mimica, il linguaggio del corpo. E per fare ciò ne replicava le mosse. A un certo punto pretese che io ammazzassi un maialino con un coltello. Era un modo per accrescere il carattere d’autenticità. Io mi rifiutai. Era un po’ matto ma anche un regista bravo. Per certi versi geniale. Anche perché con lo scarso budget a disposizione riusciva a tirare fuori le idee per personificare l’orrore del cannibalismo. Senza ricorrere a costosi effetti speciali. Non se li poteva permettere nelle condizioni in cui eravamo costretti a girare.
7). D / Tornando all’Actors Studio, a un certo punto conosci il tuo idolo: Robert De Niro. Uno che poteva permettersi grossi cachet, le inquadrature migliori e confronti aperti con i registi, in film anche ad alto budget, in virtù della sua maestria attoriale. Quando siete diventati amici hai più pensato a lui come al non plus ultra del radicalismo mimetico e al camaleonte per eccellenza del cinema americano?
R / In tutta sincerità, no! Anche perché quando ci conoscemmo, ebbi una strana seppur piacevole sensazione. Come se fossimo amici da sempre. Tant’era forte, sin da subito, l’intesa venutasi a creare. La casualità ci mise lo zampino. Per una particolare combinazione di fattori, anche d’imprevisti, l’incontro fu molto spontaneo. Scevro da qualunque formalità. Un mio amico, Emilio Lari, bravissimo fotografo di scena, aveva lavorato con lui ne “Il padrino Parte II” e in “Toro scatenato“. Film per cui Bob vinse l’Oscar come miglior attore non protagonista, nel ruolo di don Vito Corleone giovane, e l’Oscar come miglior attore protagonista. Nei panni indimenticabili di Jack La Motta. Quando venne a Roma, contattò Emilio. De Niro era, e lo è tuttora, molto riservato. Ed Emilio mi coinvolse perché anch’io sono il tipo che si fa gli affari suoi. Organizzai una cena, sotto casa mia, alla “Trattoria da Luigi”, a Piazza Sforza Cesarini, vicino Corso Vittorio. Invitai anche delle ragazze, ma ci diedero “buca”. Mi sentii dare del “cazzaro” dalle gentili signorine. La metà di loro mi mandò a quel paese, le altre fecero spallucce e salirono lo stesso sù casa. Allora, chiaramente, non esistevano i telefonini cellulari. Dopo un po’ sentii suonare al citofono: si trattava di De Niro e Harvey Keitel, giunti in ritardo al ristorante. Il proprietario gli aveva detto che abitavo sopra indicandogli il citofono. A Via del Tritone, al bordo di un taxi, inseguiti dai soliti paparazzi, smaniosi di fotografarli e immortalarli in dolce compagnia, erano stati presi per due terroristi. Stiamo parlando, d’altronde, degli anni di piombo. Chiarito l’equivoco, con tante scuse, e anche molte risate, per due star scambiate per brigatisti, avvenne l’incontro fatidico. E non pensai più alla carica di personalità del magnifico attore che avevo ammirato sul grande schermo, ma alla ancor più importante carica di umanità di una persona splendida. Riservatissima. Eppure, una volta presa confidenza, pronta alla battuta. Incline all’ironia e all’autoironia.
8). D / L’amicizia si consolidò quando venne a Roma per girare negli studi di Cinecittà il capolavoro “C’era una volta in America“ per la regìa di Sergio Leone? R / Esattamente. Cominciammo a frequentarci assiduamente. Tutti i giorni, praticamente. Per nove mesi.
9). D / Il tempo di far nascere, appunto, un’autentica amicizia. Ho visto una fotografia che vi ritrae a torso nudo insieme all’immancabile Harvey Keitel mentre scherzate come dei vitelloni.
R / Sì, stavamo in Sardegna. Ormai eravamo come dei fratelli. Ci univa il sentimento dell’amicizia, dell’intesa, della voglia di ridere, scherzare e passare il tempo assieme.
10). D / Dopo aver recitato nel film d’impegno civile “Il caso Moro”, nel ruolo di uno dei brigatisti coinvolti nel sequestro e nell’omicidio del Padre del compromesso storico, nonché nel kolossal “Il siciliano” di Michael Cimino, sparisci dalla circolazione. Per quale ragione?
R / Andai a vivere prima in Thailandia, poi a Ibiza. Avevo aperto anche un bellissimo bar con venti bungalow a Ko Samui, un’isola del Golfo del Siam. Passavo l’inverno lì e l’estate nell’arcipelago spagnolo. La via dell’eccesso e del vizio, però, associata al senso dell’eterna vacanza, mi abbrancò. Caddi nella dipendenza. Una malattia che ho curato. Da cui sono uscito guarito. Nacque lo stesso l’equivoco che innescò una brutta vicenda giudiziaria, fortunatamente chiarita. Ero un consumatore, lo confesso. Bisognoso in quel periodo di fare rifornimento. Ma non sono mai stato, in alcun modo, un pusher. Ed è stata dimostrata la mia totale innocenza. Solo che hanno dedicato i titoli a nove colonne al capo d’accusa e un trafiletto alla notizia della totale estraneità al reato contestato. Capita.
11). D / In frangenti così delicati il rischio di pagare dazio a una nomea negativa è molto alto (anche perché, come sostiene il conduttore televisivo impersonato da Christopher Plummer in “Insider – Dietro la verità“, «l’infamia ha una vita più lunga della fama»). Gli amici, quelli veri, ti hanno dato una mano a uscire dal tunnel?
R / Gli amici veri, Robert De Niro compreso, mi hanno teso una mano: sapevano che non c’entravo nulla con quella vicenda giudiziaria, esacerbata ad arte dai cronisti a caccia di scandali. Il sentimento di gratitudine ha la precedenza su tutto per me. Era calata un’atmosfera spettrale. La mia adorata sorella morì anzitempo, lasciandomi nello sconforto più assoluto. Il sogno si trasformò perciò in incubo. Da cui riuscii a trarmi in salvo grazie agli amici dei tempi lieti. Dimostratisi amici anche nei momenti bui, dove altri ti voltano le spalle. Ed è lì che si misura la vera amicizia.
12). D / È poco ma sicuro. Non bisogna mai confondere gli amici con i conoscenti. Chi sono, a parte De Niro, quelli che ti hanno sorretto nell’arco del percorso di reinserimento nel mondo del lavoro?
R / Un altro che mi ha dato una mano in tal senso è stato Harvey Keitel che, oltre ché un bravissimo attore, è un amico dal cuore d’oro. Insieme a lui, come ben sai, ho impersonato un bandito nella commedia “Il mio West” di Giovanni Veronesi.
13). D / È stato un modo quindi per rimetterti in sella. Per restare in tema western. Fuori dal mondo del cinema, chi si è dimostrato pronto ad aiutarti concretamente?
R / Carlo Alessandro Puri Negri, noto imprenditore e direttore d’azienda, mi ha offerto solidarietà in termini pratici. Anche il suo aiuto, spontaneo ed effettivo, mi ha permesso di risalire la china. Ho imparato a comprendere realmente il senso della parola amicizia, distinguendola dall’instabilità di qualunque vacua frequentazione, proprio grazie al loro vigoroso sostegno. Una cosa che non era certo dovuta, ma che ho molto apprezzato.
14). D / Hai cominciato a lavorare per l’agenzia Pirelli Real Estate, nel campo delle dismissioni immobiliari. È un ramo piuttosto interessante. Pure per quanto riguarda gli aspetti organizzativi. In cosa consisteva il tuo impegno in quest’ambito?
R / Garantivamo la priorità di acquisto agli inquilini nei palazzi in questione, palesandogli la possibilità, a un prezzo conveniente, di diventare da affittuari proprietari delle proprie case. Altrimenti c’era un determinato numero di possibili acquirenti. Disponevo di un cospicuo pacchetto di offerte. Le procedure di dismissioni avvenivano con tutti i crismi. Ho sempre cercato comunque di conciliare l’agire economico, per fare cassa, con l’agire etico, dando la precedenza agli affittuari. Per poi, in caso di rifiuto, proporre l’affare ad altri con appartamenti in ottimo stato di manutenzione e in piena regola.
15). D / Poi l’incantesimo s’infrange un’altra volta. Entri in cassa integrazione. Ed è il caro, vecchio mondo del cinema a diventare un’ancora di salvezza. Ti sei rivolto sempre agli amici con la “a” maiuscola?
R / L’ho fatto in punta di piedi. Senza pretendere nulla. Nella consapevolezza, tuttavia, che, alla luce dell’esperienza maturata in campo immobiliare, potevo rendermi davvero utile nelle trattative e in veste d’intermediario in un ambiente, come quello del cinema, che conoscevo bene avendone fatto parte per molti anni.
16). D / D’altronde nel mondo del cinema gli intermediari tra gli sceneggiatori, gli agenti, i fornitori dei capitali, gli attori, gli autori e i distributori sono figure che servono. Pur non potendo operare in proprio. È stato Robert De Niro a venirti incontro in quest’occasione?
R / La lealtà per Bob è un fatto vitale. Io mi sono sempre dimostrato onesto e sincero nei suoi riguardi. Ed è per questo che lui mi ha offerto un aiuto nel momento del bisogno. Come mi hai ricordato tu, citando Petrarca, “amor con amor si paga; chi con amor non paga, degno di amar non è”. Entro in contatto con Josh Liebermann, un producer e un manager molto esperto, l’unico che cura ufficialmente e concretamente gli interessi di De Niro. L’iter che porta a poter mettere in pratica una collaborazione con lui è assai rigoroso, trattandosi di uno degli attori più apprezzati ed impegnati del panorama internazionale, e ne ho rispettato quindi tutti gli essenziali passaggi.
17). D / Rispettandoli, le tue proposte riescono a cogliere nel segno. Come ti sei adoperato per condurre in porto tali progetti nel migliore dei modi?
R / Josh non è solo un business-man, ma anche un uomo sensibile e intelligente. Comprende la portata dei sentimenti di affetto, stima e amicizia che ci legano. Giovanni Veronesi e Aurelio De Laurentis si rivolsero a me nella speranza di poter reclutare Bob nel cast di “Manuale d’amore 3“. Sarebbe stato un bel colpo per loro. Mi sono recato negli States per sottoporre la proposta a Bob e Josh. Sottolineando che la prospettiva di partecipare a una commedia di successo, un sequel, costituiva un’occasione anche per De Niro. Al fine di accrescerne la popolarità, già immensa, in Italia. Josh sembrava contrario. Ma Robert ci ha visto giusto ad accettare. Infatti, da quando ha preso parte a questo film, apprezzato dal grande pubblico, è divenuto un personaggio più familiare.
18). D / Peccato che nel film l’incontro/scontro con Carlo Verdone sia stato fulmineo. So che De Niro nutre una profondissima stima per Alberto Sordi, il padre artistico del comico romano. In quali casi la tua opera di mediazione, a riprese ormai cominciate, è tornata utile di nuovo?
R / In primo luogo concordo con te: i tempi comici di Verdone avrebbero fatto faville con quelli di De Niro. Farli recitare spalla a spalla poteva diventare un valore aggiunto anche perché Robert adora Carlo: lo trova spiritosissimo. Come apre bocca, scoppia a ridere. Bisognava sfruttare questa loro alchimia. Veronesi (nella foto insieme a Monica Bellucci, Robert De Niro e Danilo) non era, però, dello stesso avviso. Pazienza. Per quanto riguarda il discorso relativo alla mediazione, Massimiliano, conosci il mondo del cinema: c’è molto isterismo. E Bob non lo sopporta. Gli piace lavorare in tranquillità. Sono sempre attento, quindi, affinché tutto fili liscio. Al posto del camerino, da contratto, feci mettere a disposizione di De Niro a Cinecittà un piccolo appartamento adibito a ufficio. Lo usai per fare da filtro tra la produzione, Aurelio De Laurentis, Veronesi e Bob. Così evitai il sorgere di qualunque misunderstanding. Infine, in merito ad Alberto Sordi, una volta lo incontrammo. Diversi anni fa. Lui e Robert si scambiarono molti complimenti. Ed erano visibilmente emozionati. De Niro lo considera tuttora un genio. Tant’è che all’Actors Studio tengono dei corsi sull’Albertone Nazionale. La sua prova recitativa nel cult nostrano “Mafioso“ di Alberto Lattuada è oggetto di costante studio. Ed è giusto. Parliamo di un fenomeno!
19). D / Nel modo più assoluto. Dopo l’immenso Totò, un caso a parte, è il fiore all’occhiello della nostra cinematografia. Passando ad altro, proprio con Giovanni Veronesi, partecipi a uno stage a Milano dove conosci la sceneggiatrice Stefania Rossella Grassi. Poi cosa è accaduto?
R / Accadde qualcosa che ha dell’incredibile. Lei insistette affinché proponessi un cortometraggio basato sulla vita di Domenico Modugno a Robert De Niro. Mi recai a New York per sondare il terreno sottoponendo l’idea a Bob. Non lo script. Mi rispose che in quel momento era troppo indaffarato e di rivolgermi a Josh. Cosa che feci. Pino Lanzillotti, il produttore che mi aveva pagato il viaggio, mi chiamò perché riteneva giusto che sapessi dell’interruzione dei rapporti d’affari tra lui e Stefania Rossella Grassi a causa d’incompatibilità caratteriali. Lei, dinanzi alle legittime perplessità esternate dal sottoscritto, rispose di aver trovato un produttore più importante esortandomi a portare un attore prestigioso alla Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia per presenziare a una serata che doveva organizzare. Portai Giancarlo Giannini, dopo averla debitamente informata tramite mail e avvocati del costo comportato dalla partecipazione di un interprete di quel calibro. Arrivammo al Lido. L’albergo non era adeguato. Non c’erano né Al Pacino, di cui lei mi aveva assicurato la presenza, né il fantomatico produttore, né la stessa Stefania, né i soldi per il grande attore che avevo reclutato. Mi apparve chiaro che la signora non aveva le credenziali per portare avanti il progetto. Ed era mia ferma intenzione tutelare Bob da perdite di tempo e cose anche peggiori. Così ho interrotto ogni contatto con Stefania Rossella Grassi. La quale è riuscita a ottenere, di soppiatto, le email dell’avvocato di Robert De Niro, Peter Grant, e Josh, che, nonostante qualche convenevole dovuto alle regole pacifiche della buona educazione, le ha rifiutato la film offer. Stefania Rossella Grassi, allora, contattò il giornale online “Lettera43” sostenendo che il monologo interiore del personaggio impersonato da Robert De Niro nel corto “Ellis“, diretto dall’artista francese JR, è attinto al copione del suo “L’uomo in frac”. Su Modugno. In seguito ha chiesto un risarcimento per «lo scorretto utilizzo dell’opera».
20). D / Senza una film offer firmata, De Niro legge i copioni? R / No, mai. Nella maniera più assoluta. Ed è qui che la signora Rossella mostra la corda. Gli addetti ai lavori questi particolari li conoscono e anche i giornalisti. Però nel mondo delle nuove tecnologie, il pubblico crede facilmente alle fake news. Robert De Niro si presta a interpretare un cortometraggio come quello in questione, sull’immigrazione, per poter dare ad altre persone, meno fortunate di lui, una chance. È un atto di generosità. Figuriamoci se un personaggio del suo livello si abbassa a plagiare una sceneggiatura di un corto mentre sta per girare “The Irishman” per la regìa del suo regista-feticcio Martin Scorsese insieme ad Al Pacino. Sono lieto che mi dai la possibilità con questa bella intervista di ripercorrere le fasi salienti della mia carriera e chiarire una faccenda dove c’è in ballo un principio che per il sottoscritto conta più di qualsiasi compenso. Bob mi ha aiutato quando stavo in serie difficoltà. È un amico impagabile. E io scelgo l’amicizia. Posso pure non collaborare più ad alcun progetto riguardante “la star De Niro“. Però non voglio che questa vicenda, di cui sia io sia lui siamo totalmente estranei, intacchi la stima che il pubblico italiano nutre per l’”uomo Bob“. Che è persino meglio della star. Che è già grandissima. Digitando il mio nome su Google si legge, in diversi ambiti, che io sono il manager di Robert. Non è vero. Non mi sono mai presentato come tale. Sarebbe millantato credito. Anche con la signora in questione ho specificato che il manager che ne cura gli interessi è solo ed esclusivamente Josh. Conosco bene la punta di spina del dolore. L’ho provata più volte. E sono risalito a galla grazie all’amicizia. Confido che la legge faccia chiarezza e sveli l’arcano. Non mi nascondo dietro un dito. Non si tratta di un grande del cinema che si è approfittato di un’emergente. Bensì di una persona con un gran cuore. Un amico. Di cui non ho mai tradito la fiducia. È giusto che gli artisti underground facciano conoscere il loro lavoro. Ci mancherebbe altro! Tuttavia è altrettanto giusto non tirare in ballo discorsi pretestuosi su un patrimonio del cinema italiano. Bob è, indubbiamente, un patrimonio del cinema mondiale. Lo affermo senza alcun interesse in merito. Come ben sai, Al Pacino ritiene la sua riservatezza una qualità innata. Mi interessa salvaguardarla in toto al pari dell’amicizia. Un valore molto più importante di qualunque contesa.
MASSIMILIANO SERRIELLO
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NOTE A MARGINE del I° Ottobre 2019 – A seguito della conversazione in oggetto intercorsa tra Danilo Mattei Mezzetti e Massimiliano Serriello – pubblicata sulla Consul Press giovedì 26/9 – ci è giunta ieri (30/9) una telefonata da parte della Signora Stefania Rossella Grassi di Milano con cui precisava alcuni passaggi importanti della suddetta intervista. Da parte nostra, dopo aver ascoltato rispettosamente tutte le desiderate esposte dalla Signora Grassi, ci siamo dichiarati ben disponibili a pubblicare la sua replica che abbiamo ricevuto via mail alle 22,30 circa e che oggi riportiamo integralmente
STEFANIA ROSSELLA GRASSI replica all’articolo del 26 settembre in rubrica “La Settima Arte”