A colloquio con Emmanuel Vecchio sull’elemento emozionale della panificazione
UN GIOVANE ESPERTO DI PRE-FERMENTI E LIEVITI CHE PUÒ DIRE LA SUA NEL CAMPO DELLA GASTRONOMIA
Una conversazione con Massimiliano Serriello
Chi usa le scorciatoie del cervello, anziché soffermarsi ad approfondire le varie sfaccettature della gastronomia, ritiene la panificazione una sorta di parente povero della cosiddetta haute cuisin. Con tutto il rispetto, invece, per l’alacre allestimento delle pietanze, spesso passate in rassegna sulla scorta d’un eccesso di zelo non esente dal ridicolo involontario, come rimarca l’arguto regista cinematografico israeliano Oren Moverman nel feroce affresco familiare The Diner, remake statunitense del mesto scandaglio intimo I nostri ragazzi diretto dal romanissimo Ivano De Matteo, anche la Settima Arte riconosce ai diversi tipi di procedimento, contemplati per trasformare la farina in baguette da leccarsi i baffi, un fulgido valore emozionale.
Emmanuel Vecchio (nella foto alle prese con i dolci) lo sa bene. Dal padre salernitano Antonio ha ereditato l’attitudine a guardare al cinema come a una finestra aperta sul mondo, in grado di fungere anche da straordinario pungolo per la piena maturazione dello spirito e dell’intelletto. Dalla famiglia della madre francese ha ricevuto altrettanti stimoli al fine di capire le ragioni del cuore in termini eminentemente pratici. Imparando a impastare, nel periodo della permanenza in Normandia presso i solerti e calorosi nonni, in attesa di poter accortamente tradurre l’affascinante ma segregata teoria nell’opportuna prassi.
Estraneo all’improduttivo impeto tipico dei meri neofiti, fin dai tempi della scuola alberghiera di Battipaglia e dei tirocini curriculari ed extracurriculari, sostenuti sia nel Bel Paese – a San Vigilio di Marebbe, con Bolzano dietro l’angolo – sia ad Aix-en-Provence, Emmanuel ha sempre tenuto i piedi ben piantati per terra.
Per lui riuscire ad anteporre il conseguimento concreto degli obiettivi prefissi, ottenuti palmo a palmo, agli inutili svolazzi pindarici significa soprattutto dare la giusta forma al glutine sul tavolo di cucina senza incollarsi minimante le mani: lo strumento con il quale fondere tatto, allo scopo di custodire gli ampi alveoli che si creano nell’arco della lievitazione, ritmo ed energia. L’effetto conclusivo, con le peculiari bolle, parla da solo.
L’ammirato stupore, tuttavia, serve a poco. Occorre, piuttosto, evitare come la peste l’impasse delle elucubrazioni dottrinali. Gli studi universitari di scienze gastronomiche, con il master imperniato sull’ambìta panificazione, sono stati un trampolino di lancio per mettersi alla prova nella giungla metropolitana della Città Eterna. Esiste una sfilza infinta di corsi per pizzaioli incapaci di cavare un ragno dal buco. Le basi di chimica e fisica fornitegli dall’approfondimento post laurea rappresentano, quindi, un valore aggiunto. Non per pavoneggiarsi o per stendere trattati colmi d’improntitudine e trovare sterili pulpiti. La molla dell’inesausta curiosità è molto più utile dell’arroganza dei tromboni che montano in cattedra solo ed esclusivamente a scopo autoreferenziale. Buttandosi in avanti per non cadere indietro. L’antidoto contro la loquela sbracata dei falsi dotti in materia risiede nello stimolante terreno dell’incontro e del confronto. Lo scontro, esacerbato sui social dai moti d’invidia e dall’onnipresente cifra dell’odio, confonde le idee ed esaspera gli animi. Emmanuel, nonostante l’età verde, sembra, in tal senso, un vecchio saggio. Nomen Omen, d’altronde. Conscio che in ballo c’è pure lo slancio dell’evocazione.
«Amate il pane: cuore della casa, profumo della mensa, gioia del focolare. Rispettate il pane: sudore della fronte, orgoglio del lavoro, poema del sacrificio. Onorate il pane: gloria dei campi, fragranza della terra, festa della vita. Non sciupate il pane: ricchezza della patria, il più soave dono di Dio, il più santo premio della fatica umana.»
Non vi è nulla di scontato ed enfatico nell’inno sovraesposto. I movimenti di schieramento e le discipline di fazione cedono spazio all’aroma dell’assennatezza, al fascino della bontà e all’empatia dell’affinità elettiva. Barbara Frangi (nella foto) queste cose, comprese quelle più difficili, le sa fare con incrollabile perseveranza e le sa spiegare con intensa accuratezza.
Panettiera e Pizzaiola anarchica per passione, così è solita definirsi, rifugge dai cultori troppo fanatici della panificazione quando il desiderio di sperimentare motu proprio paga dazio allo scotto di una febbre creativa fuori luogo. I grani antichi, che lei ricerca con scrupolo ed entusiasmo, non rientrano nelle priorità dei panettieri intenti ad aprire la saracinesca ogni mattina. La visita al Mulino Caputo, alla scoperta del grano a macinazione lenta, le è servito ad affinare ulteriormente i ferri del mestiere e porre le debite distinzioni. Non si finisce mai d’imparare. Ed è bello così. Alle tendenze di punta, anche per quanto concerne i lieviti, Barbara replica con rimarchevole buon senso. Abbassare i ritmi in quest’ottica accresce il sapore ed emulsiona i compositi livelli dell’impasto apponendo un fulgido e genuino marchio di fabbrica.
Emmanuel è, quindi, in buona compagnia. Il processo di maturazione per la farina ricopre un ruolo decisivo. La trasmissione di pensiero tra persone allergiche agli sponsor e, principalmente, alle banalità scintillanti degli slogan rei di smerciare per speciali persino i pandori zeppi di additivi, trascende il margine di visibilità degli chef che mandano in visibilio i fan poco scaltriti al riguardo. Attingere ad alcuni degni esponenti, alieni per una questione di principio ai galloni guadagnati in televisione nelle vesti di discutibili aedi, diviene ciò che conta in maggior misura.
La pratica, con l’affiancamento ad Alba di Enrico Giacosa, presidente del Consorzio Pan Ed Langa, gli ha insegnato l’importanza delle peculiarità all’origine di qualsivoglia prodotto attento a proteggere gli amidi e le proteine. Il rispetto nei riguardi del destinatario optimum costituisce un diktat deontologico. La digeribilità è strettamente correlata al modo utilizzato per far fermentare l’impasto. Le bestie nere restano, perciò, le componenti denaturate. Gli agenti chimici in primis.
L’arte di panificare l’ha appresa altresì da docenti del calibro di Davide Longoni, Piergiorgio Giorilli ed Eugenio Pol (nella foto), milanese di origini veneziane, avvezzo alla tutela dei posti incontaminati dove regna l’ordine naturale, con l’acqua pura, e le interferenze lesive sono messe al bando.
Tuttavia la lezione impartitagli simultaneamente dai guru sia da bosco che da riviera rimane imprescindibile. Occorre adattarsi alle circostanze, lontano dalle astrazioni pleonastiche, e rimediare agli imprevisti. Che sorgono quando uno meno se lo aspetta. La pasta madre non è una panacea. E neanche un’incontestabile garanzia d’indistruttibilità. Però torna utile. Su questo non ci piove.
La predilezione per i pre-fermenti non cade mai nello scoglio di un sapere monodisciplinare che vacilla, al pari dello stuolo di fan dei cuochi del grande schermo, dinanzi ai bruschi cambiamenti imposti talora dalle circostanze. Il lievito madre naturale aiuta tanto. L’elasticità e la morbidezza dell’impasto, ivi connessi, scongiurano malaugurati mali di stomaco. Ed ergo fanno la felicità dei ghiottoni di turno. Tuttavia a Emmanuel non interessa, di contro, demonizzare il lievito di birra. Le buone maniere, l’apparente timidezza, la profonda educazione vanno di pari passo con l’implicita coerenza in merito. L’adagio latino cum grano salis capita a fagiolo, dunque. Nella sua accezione più ampia. Che comprende i giochi di parola.
Divertirsi lavorando, mentre si fatica, per usare un modo di dire frequente in Campania, non implica deleterie concessioni ad alcun tipo di sbavatura.
Emmanuel adora cimentarsi in pizze e focacce che lasciano il segno dell’impegno. Nonché del divertimento. Eppure, seguirlo, step by step, nella preparazione dei soffici e profumati pan-brioche, siano essi dolci o salati, manda a carte quarantotto l’inerzia delle idee prese in prestito all’altrui acume.
Ricorrere, in ogni caso, alla sagacia della lingua latina, aiuta ad avere una visione a trecentosessanta gradi ed entrare in contatto con le differenti scuole di pensiero. La parola fermènto (da fermentum vale a dire fèrvere, bollire, essere in moto) non si presta a equivoci di nessun tipo. Casomai chiarisce il nesso di specie morfologica e il rimando alla vita congiunti all’idea operante di fermentazione. Il pre-fermento indica ciò che precede quella tappa evolutiva. Non discriminare, perciò, i pre-impasti fermentati con il lievito di birra, sull’onda di una seccante affettazione, testimonia l’intelligenza, ancor prima ché l’accortezza, di Emmanuel.
La soddisfazione di veder sfornare il pane è indescrivibile. Non si tratta di attribuirle lo status di un nobile incarico, che spegne le piccole vampate delle superflue polemiche e attizza il sacro fuoco della passione, bensì di aprire il varco all’affettuosa intimità volta ad animare un patrimonio di pregiate conoscenze. Sulla pasta madre, sugli andamenti segreti in merito alla fermentazione spontanea degli impasti, sulla capacità di conservazione del prodotto, grazie alle funzioni svolte dai batteri e dai lieviti. Il Saccharomyces cerevisiae, dunque. O lievito di birra che dir si voglia.
Riuscire a comprendere le caratteristiche fermentative, unite all’applicazione di elasticità ed estensibilità, conta tanto quanto tenere d’occhio il ruolo della melanoidine nella colorazione bruna della crosta dei prodotti nell’ambito della Reazione di Maillard. Con apprezzabile umiltà, Emmanuel specifica di possedere più dimestichezza con i salati ché con i dolci. Ma, a giudicare dai risultati, non si direbbe.
La scienza infusa c’entra, per chiarire, come i cavoli a merenda. Occorre conoscere le fasi di reazione, dal carbone carbonilico agli amminoacidi N-terminali, che, se non avvengono nella fermentazione ex ante, prendono piede in quella ex post – detto papale papale – dei destinatari. Una volta che mangiano il pane e la brioche intesi come un prodotto che manda a farsi friggere l’opportunità di digerire come si deve.
Il richiamo cinefilo al celebre spaccato sociale Bread and Roses di Ken Loach, l’aedo per antonomasia della working class anglosassone, e alla commedia agrodolce Pane e Burlesque di Manuela Tempesta, paladina dell’animo femminile, certifica come la fabbrica dei sogni abbia a cuore l’aguzza valenza metaforizzante determinata dalla fermentazione eletta a moto dell’esistenza. Nel determinare i tempi di lievitazione, il forno e gli elementi ambientali conducono l’operazione a termine.
A Emmanuel rimangono molte frecce al proprio arco. Balza agli occhi. È un argomentatore sagace. Che parla a voce bassa. Sembra timido dapprincipio. La calma dei forti lo tutela, al contrario, dal rischio di andare a caccia di grilli e costruire vani castelli di carta. I sistemi moderni di molitura, le quantità crescenti di crusca, l’apporto rinforzante garantito dall’amido non lo colgono mai impreparato.
Come chi mastica amaro e sputa dolce. Il rigonfiamento della lievitazione sa tenerlo sotto controllo. Non è un ostacolo insormontabile. Unire l’utile al dilettevole gli riesce facile. La soppesata delicatezza lo solletica. L’attività di dialogo offre motivi di dibattito che non hanno nulla a che spartire con le battute sentenziose. La formulazione di un augurio ad maiora è pertanto legittima. Sfornare delizie, tirando a lucido il tema del pane parlando chiaro e tondo, può diventare un’abitudine. Ed è la forza della tradizione che ne gioverà. A buon diritto. Al pari di Emmanuel.
1). D / Si parla sempre di “farina, acqua e lieviti” per porre in risalto una peculiare emozione gastronomica. Questa passione è dovuta alla manualità o ad altro?
R / L’amore per la panificazione nasce dalla sana consapevolezza di lavorare con qualcosa di assolutamente vivo. E, quindi, ricco di stimoli. Certo, nel dare consistenza all’impasto, la sensazione d’imprimere lo sviluppo desiderato con le mani è davvero coinvolgente. Elettrizzante addirittura. Esistono comunque molteplici varianti che rendono questo tipo di lavorazione manuale, senza l’ausilio dell’impastatrice, piuttosto ardua. Il risultato ultimo dipende dalla mutevolezza dei metodi, degli ingredienti e delle temperature usate per garantire la modalità di fornatura che si desidera. La panificazione, sulla base della densità dell’impasto, dei tempi di lievitazione e delle norme di piegatura del prodotto conclusivo, è metereopatica. Né più né meno delle persone in carne ed ossa.
2). D / In fondo non è un difetto ma il sintomo d’una connotazione umana. Ed ergo sensibile. Ma quando un impasto, oltre che vivo, è riuscito, e quindi porta a casa il risultato, cosa significa? Che è leggero?
R / È difficile fornire un’indicazione precisa ed esauriente di impasto. Un tempo convenientemente lento di fermentazione permette alla farina di maturare e rende anche il prodotto assai più digeribile. Ed è una cosa che conta molto.
3). D / Quanto contano, allora, da questo punto di vista, i pre-fermenti?
R / Panificare con i pre-fermenti è il massimo ai fini della riuscita del prodotto. Giacché lo rende più fruibile e saporito. Il compito di far maturare la farina lo svolgono al meglio.
4). D / Una farina di forza – che contiene molte proteine – dà il via al classico Ubi Maior, Minor Cessat?
R / La forza della farina è stabilita dalla quantità di glutine che sviluppa e, di conseguenza, anche di acqua che riesce ad assorbire. Gli impasti idratati occupano un posto di rilievo nel mio cuore: sono leggeri, carichi d’aria, alveolati. Disporre, quindi, di una farina di forza per fare un panettone, a titolo d’esempio, risulta molto utile. Perché permette di tenere sù un impasto ricco d’ingredienti.
5). D / Gli avventizi, intenti a idolatrare la pasta madre, ritengono il lievito di birra una cosa quasi chimica. Qual è la tua opinione in proposito?
R / Il lievito di birra non è una cosa chimica. Purtroppo viene spesso usato in maniera sbagliata. Basti pensare alle ricette della nonna con la pizza fatta in casa. Il cubetto di lievito dava il via, l’impasto lievitava ed era tutto pronto in tre o quattro ore. La farina, in tal modo, non matura e, come hai giustamente rilevato, il nostro organismo impiega troppo tempo per digerire. Impiegato in piccole dosi, con il giusto supporto dei lunghi ed elaborati aumenti di volumi per l’azione dei gas nell’arco della fermentazione, il lievito di birra diviene l’alternativa ideale per chi non riesce a gestire una pasta madre. O non ha modo di farlo.
6). D / Non è vero, quindi, che la pasta madre, in virtù della fragranza del prodotto stabilita dai fermenti lattici e dagli altri microrganismi, è la più indicata per fare la pizza?
R / Quei microrganismi sono ben diversi dal fungo, nominato Saccharomyces cerevisiae che genera una fermentazione di tipo alcolico. Determinata dagli agenti lievitanti secchi, nondimeno. Per la pizza, perciò, preferisco usare il lievito di birra. Proprio perché alleggerisce l’impasto.
7). D / Una buona biga fatta in casa, con l’impasto meno idratato, è roba da serie B o può accedere in serie A ed ergo vedersela con la pasta madre senza avvertire alcun tipo di sudditanza psicologica?
R / Una buona biga (nella foto), come pre-impasto asciutto, alla luce della lunga fermentazione che dà vita alle sostanze aromatiche fondamentali per il prodotto una volta finito, può giocare tranquillamente in Serie A. E dire la sua pure in Champions League.
8). D / Con il poolish, maggiormente idratato, il pane non dura più a lungo?
R / Sì, ma non è una cosa strettamente correlata al poolish (nella foto), che è una biga liquida che si va ad aggiungere all’impasto per conferire fragranza, gusto e croccantezza. È ovvio che l’impasto, con l’integrazione in generale di un pre-fermento, duri maggiormente. Poi vi sono ulteriori fattori di conservabilità che vanno presi in considerazione. Una pagnotta, sempre per fare un esempio spicciolo ma intellegibile, riesce meglio in tal senso rispetto a dei filoncini frutto dello stesso impasto.
9). D / Il sale, in entrambi i casi, rallenta l’azione dei lieviti?
R / A onor del vero, il sale, quando è messo insieme nell’acqua dell’impasto, disturba un po’ i lieviti. Detto questo, alla maglia glutinica (nella foto) il sale fa bene. La rende più resistente. Un impasto senza sale manca, oltre che di sapore, pure di asciuttezza ed elasticità.
10). D / Quando la crosta risulta troppo chiara, quindi, vuol dire che c’è stata una fermentazione eccessiva per mancanza di sale?
R / Per l’appunto. Quando stabilisco il contatto tra il sale e gli altri componenti con l’opportuno dosaggio, evitando di rallentare troppo l’attività degli enzimi, il pane lievita. Ed è buono. Con una crosta bella colorata.
11). D / La maglia glutinica, che trattiene i gas costruendo una specie d’impalcatura in grado di agire da sostegno per gli ingredienti successivi, si può sviluppare bene anche senza l’ausilio delle farine forti?
R / Guarda, questo argomento è fonte di un aperto dibattito sin da quando seguì un corso con la docente di tecnologie alimentari Elena Lipetskaia (nella foto). Autrice, insieme a Piergiorgio Giorilli, di “Il grande libro del pane – Tutti i segreti della panificazione svelati da un grande maestro”. Lei riteneva impossibile sviluppare la maglia glutinica senza farine forti. Invece il tentativo, dettato dalla voglia di sperimentare, diede vita ad alcuni panettoni formidabili. Con un sapore che superava mille volte quello dei panettoni messi in commercio. Quindi, a parer mio, sulla base di una concreta esperienza, si può fare anche a meno delle farine forti.
12). D / Cosa pensi della concorrenza che impera tra colleghi nel tuo ambiente?
R / Penso sia normale. Non giusta, ma inevitabile.
13). D / Credi in un sano confronto anziché nello scontro?
R / Da par mio non amo gli eccessi dovuti alla competitività feroce. Inutilmente aggressiva. Anche perché il vero panettiere quando sta nel suo laboratorio, o dovunque dia vita ad autentiche creazioni, alle una o alle due di notte, non si fila di pezza nessuno. Trovare un terreno di confronto, e quindi la giusta via d’intesa, serve però sul serio: esce sempre fuori qualcosa di nuovo sulla panificazione. È meglio aiutarsi che mettersi i bastoni tra le ruote. Mettere a confronto i vari metodi di lievitazione fa sì che non esista un guru o un opinion leader assoluto. Dalle cui labbra tutti pendono. Ci sono professionisti disparati che, in base a dove vivono, con i mutamenti, definiti dai fattori ambientali, dei trucchi ad hoc per migliorare la digeribilità e la qualità dei prodotti sfornati, hanno modo di suggerire qualcosa. Ognuno porta il suo piccolo ma significativo contributo. Scornarsi è da fessi.
14). D / Il confronto è utile pure con chi non dispone dei forni professionali ma possiede doti di costanza e competenza capaci di controbilanciare?
R / Assolutamente. Non vi debbono essere discriminazioni. Se la casalinga, o la professionista, che lavora nella propria abitazione, con una buona biga, come hai precisato prima, porta un suo contributo pratico, a supporto dell’impasto, ben venga. Il pane fatto in casa richiede pazienza, in primo luogo. Ed è una dote da non sottovalutare. Inoltre denota impegno. Perseveranza, pertanto. Io in cucina non ho temperature controllate. Non posso, quindi, panificare come vorrei. Fare di necessità virtù aiuta, tuttavia, ad accrescere la competenza. Quando faccio la focaccia, ricorro al lievito di birra. Con un impasto diretto. Chiedo a chi di dovere di comprarmi ingredienti di qualità medio-alta. Poi dipende dall’inventiva, dal grado di applicazione, dal desiderio di migliorare sempre. Specie per quanto riguarda l’aggiunta del condimento. Che accende la fantasia di ogni pizzaiolo. Compresa la mia.
MASSIMILIANO SERRIELLO