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A colloquio con il Professor Marco Maria Gazzano sull’insegnamento del Cinema in Italia e nel Mondo

LA DISCIPLINA DELLA  “7^ ARTE”, IN UNA INTERVISTA CON MARCO MARIA GAZZANO …… UN DOCENTE SEMPRE SUL “PEZZO”

una conversazione con Massimiliano Serriello

Stare sul pezzo non è solo indice di perseveranza ed ergo di carattere ma anche di passione. In conformità con l’ingresso della Settima Arte nelle Università italiane. La sottovalutazione della tecnica e dell’agire economico, considerati elementi blasfemi da chi cerca la purezza assoluta, è una bestia nera da cui lui sta bene alla larga. Gli interessa, piuttosto, apporre dei giusti ‘distinguo’… Un conto è il predominio storicista, che porta inoltre a tenere meno in considerazione la critica schiava dell’impressionismo soggettivo. Un altro è ripercorrere certe tappe fondamentali, dai primordi sino a oggi, per dare a Cesare quel che è di Cesare. Compiere questa sorta di amarcord per un critico cinematografico come il sottoscritto in compagnia di Marco Maria Gazzano, docente all’Università Roma Tre, è un piacere.

Perché costituisce un pungolo per recensire i film sulla scorta della scrittura per immagini. Non si tratta quindi di chiedere cittadinanza al Pantheon della Cultura, né di lamentare un’esclusione dal rinforzo autonomo della storia e della teoria del cinema, bensì occorre capire i rapporti d’interdipendenza tra le discipline connesse al senso di movimento presente nell’etimologia del termine greco kinema. Non a caso si chiama in questo modo l’Associazione culturale, attiva a Roma dal 1989, di cui l’intervistato è presidente, che mette in luce la negletta ma ingegnosa video art. Tanto cara all’abile regista Steve McQueen

Come allievo – ‘eretico’ – di Guido Aristarco, Gazzano crede nell’educazione all’immagine cinematografica.

Attraverso l’applicazione pratica, continua, operosa dei concetti relativi alle relazioni (inter)testuali e ad ampi processi mediali. Non sono paroloni o metodi parassitari. Il professore, lungi dal mettere le slide e lasciare gli studenti soli insieme alla capacità di presa immediata delle nuove tecnologie, entra in empatia con ciascuno di loro. Le dinamiche che presiedono al rapporto tra immagine e immaginazione divengono chiare grazie alla facondia dialogica dell’insegnante. Supportato dal contesto intermediale. Sono ambiente, interfaccia, schermo, premediazione, Data Mediation, ed esperienza soprattutto, ad aprire il varco alla possibilità di esercitare il diritto di essere autore. Si può esserlo dietro la macchina da presa, coordinando i fattori espressivi con la propria tenuta stilistica; in qualità di critici in grado di dispiegare i vari significati del film, lontano dalle pose dei “poliziotti della qualità”, e in modo particolare nelle vesti di docenti volti ad accrescere l’incanto immaginifico. La prefigurazione di scenari incentrati sul processo creativo fuori dalla dinamizzazione degli eventi si va ad appaiare alle manifestazioni simboliche che rendono il cinema un’arte colma di mistero.

C’è spazio per tutti, secondo Gazzano: dai registi ai critici sino agli insegnanti. Lo status d’autorialità dipende dalla virtù di andare fino in fondo. Poco importa che avvenga tramite la ricognizione del passato, lo slancio verso il futuro, la sospensione storica della convenzionale idea di arte. Quello che conta, per lo studioso di cinema, arti elettroniche e teorie dell’intermedialità, risiede nell’avvalersi dell’ampia conoscenza amalgamata ad altre discipline.
Le eredità della letteratura e delle estetiche umanistiche cedono il passo alla sua voce educata ma implacabile, intenta ad accendersi al pari dello sguardo che brilla di una luce aliena all’enfasi di maniera allorché emerge l’amore per il cinema. I palpiti dell’emozione vanno oltre gli intoppi dei criteri sistemici e la gracilità dei residuati crociani. Istruire, preparare, informare ed educare l’ha nel sangue. Il rapporto docente/discente non è perfetto. E ogni tanto la scarsa densità lessicale degli studenti gli fa cadere le braccia. Ma tutto passa nel momento in cui la recettività degli sguardi trascende i punti di debolezza: il peso specifico dell’apprendimento torna alla carica. La sete di sapere è lo stimolo per stringere i denti e confidare nelle parole piene. I cuori degli alunni affascinati dalla Settima Arte sono assolutamente sinceri. Ed è bello, così.

1). D / Sulla base della sua esperienza, come assistente di Guido Artistarco, ritiene che sapesse coinvolgere gli addetti ai lavori nell’ambito di una visione del cinema  a trecentosessanta gradi?
R /
Assolutamente sì. Fece anche di più, come ha potuto notare leggendo i nomi del convegno che organizzammo nel 1986: obbligò intellettuali dello spessore di Cesare Musatti, il fondatore della psicoanalisi italiana, a scrivere di cinema. In un certo senso siamo tutti suoi allievi. Perché fu lui, prima come professore alla Facoltà di Magistero di Torino e poi col salto di qualità risolutivo nelle vesti di titolare della Cattedra di ‘Storia e critica del cinema‘ presso Lettere e Filosofia all’Università ‘La Sapienza’ a Roma, ad andare oltre una forma delimitata dell’insegnamento. Coinvolgendo, da esterni, specialisti rinomati ed emeriti, Aristarco permise a una disciplina vista dapprincipio con circospezione di acquisire prestigio. E di guardare, in tal modo, al futuro quando ancora non si sentiva parlare del digitale.

2). D / È stato un modo per assicurare, dopo la sua dipartita, una crescita accademica scevra dal marginalismo dovuto all’influenza crociana e al marxismo. Eppure già nel 1910 si parla di cinema come arte nuova. Perché c’è voluto così tanto per arrivarci?
R /
Lei ha le date esatte. Conosce a fondo l’argomento. Ai primordi del Novecento il poeta ungherese Béla Balázs si riferisce al cinema sottolineandone le caratteristiche di arte evoluta. Come è risaputo, il pionieristico critico nostrano Ricciotto Canudo battezza il Cinema la Settima Arte. Ma è l’esimio regista sovietico Sergej Ėjzenštejn a chiarirne la virtù di assorbire e quindi sintetizzare l’essenza delle altre sei arti maggiori. Ed è molto più importante stabilire questo tipo compiuto di relazione anziché perdere tempo dietro i sistemi numerici. Sennò, per esempio, vanno aggiunti il digitale e i multimedia. Non si finirebbe più. Il bisogno didattico individuato da Balázs trovò vent’anni dopo nel filosofo tedesco Walter Benjamin l’antesignano in grado di mettere in chiaro le cose al riguardo: «L’analfabeta del futuro sarà quello che non conosce il linguaggio delle immagini».

3). D / E pensare che all’inizio i film erano definiti ‘romanzi per analfabeti’.
R /
Sì, è vero. Bisogna però tenere in considerazione che quando il cinema nasce, il modello letterario – anche all’interno della critica – la fa da padrone. Guido Aristarco e Michelangelo Antonioni, scrivendo articoli nella rubrica cinematografica del Corriere Padano di Nello Quilici, complici le particolari aperture del fascismo nei riguardi d’una sorta di modernismo avanguardistico, posero l’accento proprio, come la chiama lei, sulla scrittura per immagini. Aristarco pubblicò, poco dopo la fine della seconda guerra mondiale, sul periodico Pattuglia, punto di riferimento della gioventù democratica italiana, un articolo intitolato “Invito all’immagine”. Come dire: liberiamo il cinema dalle sue desinenze letterarie. Quindi non occupiamoci più solo ed esclusivamente del plot, ma anche dell’inquadratura, del movimento di macchina e dei contrasti chiaroscurali.

4). D. / Nondimeno Luigi Chiarini, teorico tra i più apprezzati e artefice dell’applaudito testo “Arte e tecnica del film”, trae partito dai valori estetici attinti appieno alla letteratura senza tenere in considerazione la forza significante di un’inquadratura in soggettiva, che accresce le risposte empatiche degli spettatori, o il grandangolare, detto ‘fisheye’, con gli effetti stranianti cari a Orson Welles. Gli ignoranti li bollano come tecnicismi, ma sono l’abbiccì. Aristarco e Antonioni erano due mosche bianche?
R /
Mi fa piacere constatare che lei abbia comunque conservato il libro di Chiarini che, come ha dato a intendere nella precedente domanda, è un seguace dell’idealismo crociano: divide la poesia dalla prosa. Il ché non ha senso. Pure scindere l’arte dall’industria è una divisione errata che Aristarco, inizialmente fedele al regime del ventennio e poi seguace della resistenza, non fece, tuttavia, mai giacché conscio dell’interfaccia di unità eterogenee nell’interpretazione del cinema come fatto artistico per cui il valore evocativo congiunto alla tecnica e l’intelaiatura finanziaria fanno parte dell’insieme da analizzare per completo. Senza ritenere impuro nessuno di questi aspetti.

5). D / Il predominio storicista, connesso all’idealismo crociano, se da una parte ha permesso alla Settima Arte di prendere piede nelle università italiane, con proprio Luigi Chiarini che nell’anno accademico 1961-1962 tiene la prima lezione sul cinema, dall’altra impedisce ai film presenti nei festival di trovare sbocco nelle sale.
R /
Tant’è vero che quando Luigi Chiarini curò la Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia non tenne conto in alcun modo degli aspetti connessi alle strutture economiche produttive. Solo con l’eclettico regista Carlo Lizzani, negli anni Ottanta, il mercato trova davvero spazio nella rassegna. È un modo per eludere i limiti della mera teoria ed entrare in merito al tema del cinema visto sotto molteplici angolazioni. A dispetto degli approcci mal consolidati, per premiare piuttosto gli sforzi meritevoli affinché anche la televisione non venga giudicata un pianeta a parte.

6). D / La televisione rappresenta, al pari oggi dei dvd e di Netflix, il mercato secondario di sbocco del cinema. Non sono separati.
R /
Eppure l’apprezzato critico autoctono Lino Micciché pensava che fossero due mondi distinti. Dopo essere passato di ruolo, mi rimproverò di occuparmi anche di televisione. Gli risposi che sono la stessa cosa. Aristarco, prima che uscisse il mercato delle videocassette, scrisse invece un articolo su Cinema Nuovo intitolato “La quarta età dell’immagine in movimento”.

7). D / Eppure Micciché, senza saper congiungere il cinema al futuro ed evitare così meri riciclaggi di formule snobistiche e autoreferenziali, riuscì a fondare il Dipartimento di Discipline dello Spettacolo (DAMS) a favore di una professionalità in senso stretto e di un’ottima base di discussione ed ergo di confronto. Era più un animale politico, per così dire, rispetto ad Aristarco?
R /
Avevano entrambi dei caratteri forti. Determinati. Aristarco era soprattutto un reclutatore intenzionato a legittimare la disciplina di Storia e critica del cinema sul piano culturale attraverso anche forme di conoscenza in campi diversi. Il critico e saggista romano Ivano Cipriani, molto vicino ad Aristarco sin dai tempi in cui pubblicò i suoi primi articoli su Cinema Nuovo, dopo aver vinto il concorso, ha dato il via al DAMS dell’Università Roma Tre secondo gli stessi princìpi. Con un progetto complessivo e dei corsi di aggiornamento degni di nota. Micciché è arrivato dopo riuscendo nel suo giro tra Siena, Venezia e Roma a costruire istituzionalmente qualcosa di importante. Come la CUC, la Consulta Universitaria del Cinema. Aristarco credeva – anima e corpo – nella possibilità di riunire nella stessa area di competenza cinema, televisione, fotografia e media audiovisivi. Ma gli servivano delle doti diplomatiche. Quelle che Micciché era capace di mettere a frutto per raggiungere risultati di grande importanza.

8). D / Aristarco non aveva doti di astuzia. Era brusco ma generoso?
R /  Aristarco non lo cita quasi più nessuno. Tranne me, che sono un suo allievo. L’unica che lo menziona è Stefania Parigi in merito al corso sulla storia, sulla teoria, sui film e sugli autori del cinema italiano. Si è fatto molti nemici a causa dei suoi modi di fare burberi ed estremi. Eppure chi occupa, in ogni caso, le cattedre universitarie di Storia e critica del cinema lo deve a lui.

9). D / Quando Mario Verdone intervistò Giovanni Pastrone, il Papà di Cabiria gli disse di aver voluto rispettare i valori commerciali evitando i movimenti di macchina che facevano venire il mal di mare e gli arditi tagli sgraditi agli esercenti. La puntura di spillo era riferita all’arte metonimica che Ėjzenštejn mise in pratica con il dettaglio degli stivali dei soldati nel noto film La corazzata Potëmkin come “parte per il tutto”. A ben guardare, invece, i carrelli ad aprire e a stringere, la profondità di campo e la dotta diversificazione degli angoli di ripresa hanno ispirato l’emulo americano David Wark Griffith ed Ėjzenštejn. Già allora il cinema d’autore prendeva esempio da quello commerciale?
R /
Cabiria”
è un capolavoro, Pastrone un genio: l’emblema della creatività rinascimentale. Ha inventato la tecnica delle immagini, era un profondo innovatore ed escogitò uno stratagemma memorabile. Come ben sa.

10). D / Tutti gli intellettuali che prima erano ostili al cinema andarono a vedere Cabiria perché credevano che Gabriele D’Annunzio ne fosse il co-autore per poi scoprire che aveva scritto solo qualche didascalia. L’ispiratore letterario, l’Emilio Salgari di Cartagine in fiamme, lasciò tutti di stucco giacché amato dalla gente semplice e sbeffeggiato, se non ignorato, dagli accademici.
R /
Pastrone riuscì pure mirabilmente ad appaiare il mito dell’uomo forte, ovvero Maciste, al genere spionistico. Il servo corpulento per salvare Cabiria, ai tempi della battaglia di Zama, entra nelle linee nemiche. Si traveste a puntino e va a fare astuti sabotaggi. Come uno 007 ante litteram.

11). D / Possiamo definire i film successivi, Maciste alpino, col titolo cosmopolita di The Warrior, e Macista atleta, degli spin-off?
R /
Certamente. Oltre agli spin-off e alla serializzazione, con il loro valore sul versante commerciale, c’è un’eredità sul piano squisitamente autoriale. Quando Walter Benjamin, molto tempo dopo, affronta lo shock della riproducibilità tecnica dell’immagine, nell’ambito del linguaggio dell’allegoria, il nume tutelare che lo ispira è Patrone con i suoi carrelli a schiaffo.

12) D / Ed è giusto che un critico ponga l’accento nelle sue recensioni su questi aspetti tecnici per farli capire al lettore?
R /
Io non posso accettare di chiarire i vari significati di un film limitandomi a esporre la trama. L’analisi tecnica, che spiega anche perché all’interno di una determinata gamma cromatica un timbro nero è più accentuato di un altro, è stata la mia linea guida ed è quella in cui credo.

13). D / Quando mi sono appassionato al cinema, in tenera età, ho trovato tra i libri di casa “Guida al film” a cura di Aristarco. Ci sono però dei giudizi di valore un po’ discutibili. Cosa ne pensa?
R /
Conosco bene il libro. Tra i collaboratori c’è pure Corradino Mineo, bravo giornalista ed ex direttore della rete televisiva Rai News24. All’epoca non era nemmeno trentenne. Tuttavia, anche se anch’io ho collaborato alla sua stesura, nell’ormai lontano 1979, ho finito per togliere il mio nome dalla lista perché ero in disaccordo, e continuo a esserlo, col metodo manicheo dei giudizi sui tanti film presi in esame. Tale metodo, di chiara ascendenza gramsciana, che dopo il secondo conflitto mondiale ha ispirato Aristarco per fare della figura del critico un operatore tanto culturale quanto sociale, distingue tra film che ‘si ammirano’ per ragioni estetiche, ma ‘non si amano’ per questioni ideologiche con le stellette messe tra parentesi.

14). D / Qual era invece l’opinione di Aristarco sui Giovani Turchi della Nouvelle VaugueFrançois Truffaut, Jacques Rivette, Jean-Luc Godard ed Éric Rohmer – che, passando dal ruolo di critici a quello di registi, diedero pan per focaccia alla deliberata denigrazione della categoria con l’accusa di parassitismo?
R /
Aristarco non era contrario alla politique des auteurs per una questione d’ordine concettuale. Il senso di continuità con il guro André Bazin e la rivista “Cahiers du Cinéma” gli andava bene. Però il suo scopo di legittimare il cinema come sintesi delle arti nel mondo della cultura italiana, dominato dal pensiero crociano, era precedente alla Nouvelle Vague. Puntava a entrare nella facoltà di Lettere. Come per dire: fate letteratura, fate poesia e fate cinema. Contemplava l’idea della separazione dei mestieri. Aveva infatti intitolato una rubrica, su Cinema Nuovo, “Il mestiere del critico”. Lo giudicava un mestiere di scrittura creativa. Il critico lavora sulla carta, il regista sul set. Quando i cosiddetti Giovani Turchi passarono dalla carta al set, lui non la prese bene. A parer mio loro erano più bravi come registi ché come critici. Godard nell’opera video Historie(s) du Cinéma trae linfa dall’uso indispensabile dell’elettronica per mettere nel film i suoi pensieri di critico. Per Aristarco Antonioni fece la stessa cosa, usando la macchina da presa per cogliere il mistero riposto nei luoghi e negli esseri umani, senza però addurre ed esibire motivazioni ideologiche. Secondo me, negli anni Ottanta, i critici erano i vigili urbani del traffico che imperava nel cinema. Lei, nelle sue recensioni, è molto bravo a dare indicazioni sulla tecnica. I suoi colleghi però nei blog non rendono onore alla comunità critica.

15). D/ Lei, invece, dopo tanti anni al seguito di Guido Aristarco per supportarlo nell’educazione all’immagine, all’inizio degli anni Novanta va all’Università degli Studi di Urbino a insegnare “Teoria e Storia della cinematografia” presso la Facoltà di Lettere e Filosofia. Che situazione ha trovato? Una valle desolata?
R /
Mi sono ritrovato ad avere a che fare con il preside che diceva: “Gazzano, io non ho mai visto Il gattopardo al cinema. Ho letto solo il libro”. Lui si fermava a Torquato Tasso. Non c’erano, a mia disposizione, televisioni né videoproiettori. Tenevo le lezioni in un’aula di archeologia circondato dalle pitture del Seicento e dalle effigi dei Papi che mi guardavano. La figura del Cardinale Albani in marmo aveva un aspetto solenne. Quasi minaccioso. Dal punto di vista teorico mi trovai davvero in una valle desolata.

16). D/ E cosa fece per uscire dall’impasse?
R /
Mi rimboccai le maniche. Avevo cento studenti. C’è invece di chi ne aveva due e lasciava il registratore con la sua voce. Io ho sempre amato le classi piene. Ho portato a Urbino la mia professionalità. Come avevo fatto prima per dare i giusti stimoli all’Associazione Culturale Kinema. Sono riuscito a trovare i mezzi, ho organizzato i convegni e portato Bernando Bertolucci alla Facoltà. Tra i miei sponsor c’erano aziende che facevano le scarpe. Ci fu pure chi segnalò di aver trovato la notizia di un convegno da me organizzato anche dal parrucchiere. “Bene!” risposi. “Vuol dire che i miei studenti portano la notizia dappertutto”. Non mi sono mai curato delle piccole o grandi gelosie. Ogni tanto m’invita Gigi Marzullo nella sua trasmissione televisiva Cinematografo. Quando ci vado, faccio arrabbiare Valerio Caprara.

17). D / Nell’ambito, viceversa, dell’allestimento interattivo, le discipline collegate, intessendosi, affinano le proprie potenzialità?
R /
L’intreccio dei vari linguaggi – dal video alla fotografia – potenzia in primo luogo l’immagine. Poi ognuno dei linguaggi si estende rafforzandosi reciprocamente insieme all’altro con cui entra in contatto. Il famoso regista messicano Alejandro G. Iñárritu si è presentato due anni fa a Cannes con un’installazione su migranti e rifugiati per sottoporre la tecnologia VR a un test oltremodo importante, esplorare un determinato contesto umano ed eludere il diktat dell’inquadratura. L’installazione concettuale di realtà virtuale non toglie nulla all’analisi del film. È un valore aggiunto.

18). D / L’iter multidisciplinare, che scandaglia la scrittura per immagini del cinema tramite appunto le arti elettroniche e intermediali, va discapito del rapporto con gli studenti?
R /
Alcuni studenti sono innamorati della pellicola, mentre molti altri concordano col sottoscritto. Sono tutti estremamente attenti durante le lezioni che tengo. Cerco di spiegare anche le cose difficili in maniera semplice. Però gli aspetti interdisciplinari fanno proprio fatica a coglierli. Per capirli è necessario conoscere il pensiero filosofico di Aristotele, comprendere la critica della ragion pura di Kant e possedere delle specifiche ed eterogenee cognizioni. Che la maggior parte dei miei studenti non ha. Quindi mi trovo dinanzi a un gruppo di allievi che ignora la storia, le date, le tappe fondamentali, i punti di convergenza tra una disciplina e l’altra. Molti miei colleghi antepongono l’uso del power point, con quattro scritte da copiare senza troppa fatica, alla persistenza nel fornirgli delle immagini tratte dalla storia della poesia e da alcuni  film capaci di esibire il senso della complessità.

19). D / Ha voglia di arrendersi, quindi, o vuole continuare a combattere?
R /
Non mi arrendo mai. Anche se tutte le volte vorrei arrendermi. Ogni tanto dico a me stesso di aver perso la fede. Però poi la ritrovo. Come certi preti spretati. Ho l’abitudine di conservare e archiviare tutte le tesi di laurea dei miei studenti. È una forma di rispetto per il loro lavoro. Cerco di stimolarli anche nel modello grafico per fargli valorizzare il titolo. I testi lasciano il più delle volte a desiderare. Il complesso di tematiche esposte diviene una totale banalizzazione. Mi viene da chiedermi: ma cosa gli ho detto? È una generazione che ha bisogno sul serio di buoni professori. Se gli studenti però leggessero i libri che comprano, le cose già migliorerebbero.

20). D / Invece, e con questa domanda chiudo, per capire il digitale la gente cosa dovrebbe fare?
R /
Usato in modo superficiale ed emotivo, è deleterio. Al contrario se l’approccio superficiale fosse sostituito da uno profondo, che non si ferma alle apparenze, il digitale diverrebbe uno strumento di conoscenza e di scoperta.

MASSIMILIANO SERRIELLO

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