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A colloquio con Lydia Genchi sulla distribuzione dei film art-house

LA PASSIONE DELLA NOMAD FILM DISTRIBUTION:
UNA TUTELA A FAVORE DEL CINEMA D’ARTE

Conversazione con Massimiliano Serriello

La passione per il Cinema di Lydia Genchi (nella foto) passa attraverso l’assoluta buona fede, aliena, sia in prassi ché in spirito, alle roboanti attestazioni di stima di chi antepone l’inane attitudine all’iperbole all’interesse per le cauzioni di commerciabilità delle opere d’indubbio pregio culturale.

Sin dai tempi dell’università, quando si laureò con una tesi in scenografia, Lydia aveva le idee chiare. La gavetta nel teatro, per tradurre in pratica quanto aveva appreso sul versante della capacità d’ambientazione impreziosita dai fattori visivi, o sui set, nelle vesti di assistente attenta ad amalgamare gli arredi di un film al precipuo timbro della scrittura per immagini, le ha permesso di entrare in confidenza con l’ambìta fabbrica dei sogni. La vita è fatta però pure di cose pratiche e la famiglia, ravvisabile nel senso di responsabilità nei confronti dei propri figli, è divenuta un pungolo per superare ogni intoppo relativo al bisogno di unire gli aspetti concreti con lo slancio tipico degli anni verdi. Seguire la via dell’idealismo equivale a percorrere un tragitto irto di spine se non si prende atto che dare un colpo al cerchio del nesso tra competenza ed elementi dinamici e un altro alla botte dell’armonia rappresenta l’unico antidoto alle velleità degli esperti del dopolavoro. Gutta cavat lapidem, quindi? Certamente sì. Anche perché la fondazione dell’alacre e audace No.Mad Entertainment è cominciata col piede giusto. Distribuendo nelle sale autoctone chicche della levatura di Tournée. Un conto è vederlo alla sezione Un Certain Regard al 43º Festival di Cannes, ad appannaggio di critici troppo autoreferenziali per capire che il salto di qualità consiste in un’inversione di tendenza in grado di mandare a farsi friggere qualsivoglia forma di slavata alterigia, e un altro è assicurargli l’approdo nel mercato primario di sbocco. Solo così, lontano dalla sterile pretenziosità dei circuiti alternativi, è possibile sul serio stimolare lo spettatore, specie quello dai gusti semplici, in termini intellettuali ed emotivi. Il gioco fisionomico del duttile Mathieu Amalric (nella foto), ancor più bravo in cabina di regìa nel cogliere i voluti ed emblematici scompensi connessi alle attese che contrassegnano la voluttà di rifarsi dell’ex produttore tornato in Francia dagli States insieme alla malridotta compagnia di New Burlesque, acquista maggior spicco allorché attiene all’incanto della scoperta.

Non è il grande pubblico che deve andare ai festival, né alle pur dignitose rassegne “Le vie del cinema da Cannes, o Venezia, a Roma (o a Milano)”, ma sono i cosiddetti film art-house a dover circolare in modo canonico ai fini di uno sfruttamento intensivo capace inoltre di chiarire le intenzioni stilistiche ed espressive degli autori di notevole rilievo. Lydia l’ha capito bene. La sua No.Mad tiene nella giusta considerazione molteplici fattori, incluso il serbatoio d’idee (think tank) che consente l’approdo a modelli maggiormente evoluti. Al termine del periodo trascorso in qualità di buyer free-lance per le eterogenee società di distribuzione, l’intero quadro era chiaro. Gli strumenti riscontrabili nelle strategie di positioning non sono un sovrappiù blasfemo, da non confondere con il sacro fuoco dell’ingegno necessario a fornire alle platee nel buio della sala l’illusione dell’avventura e l’arricchimento profondo dell’immaginario, bensì la base del flusso comunicativo. Il cinema è una comunicazione che deve essere comunicata. Ragion per cui, a dispetto delle lagnanze dei falsi puristi dediti o all’idolatria o alla risibile improntitudine della ricercatezza fine a se stessa, l’analisi degli attributi-chiave che collocano un film dalla tenuta stilistica già carica di senso nella mappa percettiva dell’ipotizzabile fruitore, disposto a compiere la scelta d’acquisto del biglietto, è doverosa. Sotto quest’aspetto la critica, al pari degli uffici stampa e dei trailer, può fornire dei contenuti informativi degni di considerazione. Quella che guarda alla poesia, senza curarsi dell’influenza crociana votata alla materia per poi anteporre la faziosità degli arcinoti messaggi ideologici ai coefficienti spettacolari dei blockbuster, esercita anche un certo ascendente sulla decisione di acquisto dello spettatore medio. Perché non ha alcun doppio fine, ma il probo desiderio di segnalare il coraggio di aver messo a disposizione ‘di tutti’ una pellicola considerata ‘per pochi’. Alla faccia dell’assurdo livellamento ugualitario che, con buona pace di qualunque coerenza, vorrebbe selezionare gli appassionati a secondo dell’idonea sensibilità artistica. Scartando, oltre ai film ritenuti privi dei giusti cortocircuiti poetici, pure i fruitori poco all’altezza di districarsi nel marasma di echi e controechi dei film d’essai. La No.Mad è invece consapevole che l’indubbia qualità visionaria di certe opere, aliene alla convenzionalità narrativa, debba comunque interagire coi metodi codificati dall’industria. I condizionamenti ai suoi diktat vanno esorcizzati con la perseveranza. L’impegno civile, termine abusato dai giornalisti colpevoli della crisi di capacità conoscitive, resta invece una valida opportunità. I recensori “ammanicati” col sistema, al punto da fingere di collaborare alla battaglia delle idee in quest’ambito portando in realtà unicamente l’acqua al loro mulino, non hanno modo né fantasia per verificarlo. Eppure l’approdo nei circuiti commerciali di un urgente film d’autore della statura del bellissimo L’affido (Jusqu’à la garde) ha scosso le coscienze, colpito alla mente e allo stomaco, è penetrato nel cuore, in conformità con il rito della visione nelle sale. 

Qualcosa di accostabile ai cerimoniali dell’antichità. Oggi coperti di polvere. Lydia ha saputo afferrare che il talento dietro la macchina da presa dell’attento Xavier Legrand avrebbe creato un monito contro le violenze domestiche destinato a rimanere impresso nella memoria. Lo stesso può capitare ora al biopic Charlie Says. A differenza del sopravvalutato C’era una volta a… Hollywood , in cui l’ex genio ribelle Quentin Tarantino nel raccontare il dramma dell’attrice Sharon Tate uccisa a una settimana dal parto dai membri della Charles Manson’s Family continua ad appaiare il pensiero postmoderno con l’ormai vetusta, nonché fuori luogo, commedia di situazione, Charley Says svela i meandri del male secondo l’ampio margine d’enigma dei cosiddetti slasher. Ovvero gli horror che mostrano i serial killers sotto mentite spoglie ed esibiscono, in chiave introspettiva, le personificazioni del Rischio e della Minaccia.

L’uso della tecnologia, oltre a ciò, la ricezione dei film on line, la pratica di far uscire i capolavori d’impegno ed estro in un paio di sale, per ampliarne dopo la ripartizione in virtù del responso al box-office, sono tutti temi che Lydia analizza sulla scorta dell’indispensabile determinatezza. Impreziosita dal desiderio di non commettere i vecchi ed eterni errori che svalutano la qualità, a favore della quantità, e relegano la cinefilia nel ridicolo involontario delle derive maniacali. Il nuovo che avanza non la spaventa. Ma gli insegnamenti del passato restano imprescindibili per permettere ai validi proseliti di guardare al futuro con cognizione di causa ed entusiasmo: non sono mica matti. No.Mad docet. 

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1). R / Perché, a parer tuo, molti film festivalieri, in possesso di una cifra stilistica ragguardevole, talora preziosa, non trovano spazio in alcun mercato di sbocco finendo per gravitare nella terra di nessuno in balìa chi li scarica dalla rete?
R / Gli elementi che concorrono a creare questa situazione d’impasse per tanti film ‘art-house’ sono molti e differenti: il mercato é saturo perché ormai la produzione supera di gran lunga la possibilità che questi film trovino una distribuzione, sia per il numero di sale che continuano a chiudere, sia per l’affluenza del pubblico in sala che diventa sempre esigua e frammentaria. Inoltre c’é un blocco nel sistema distributivo italiano che tende alla diffusione di film più commerciali che assicurino all’esercizio degli incassi più importanti, favorendo le major e le grosse società. Quindi possiamo anche dire che il coraggio di distribuire film “festivalieri” ormai é di pochi distributori ed esercenti.

2). D / Nel caso specifico della Nomad Film quali sono i criteri di giudizio che applicate per anteporre, nei limiti del possibile, le virtù artistiche agli imperativi commerciali?
R / Nelle scelte distributive cerchiamo sempre di privilegiare l’aspetto emozionale e sociale dei film, cercando certamente di proporre film che abbiano una fruizione non solo di nicchia per un pubblico strettamente di cinefili. Infatti teniamo sempre un occhio attento agli autori esordienti, che abbiano però dimostrato, nei loro cortometraggi, del vero talento ricevendo dei premi in prestigiosi festival come Venezia, Cannes, Berlino, e per gli autori già consacrati. Conserviamo i nostri criteri e gusti che cerchiamo di adeguare sempre a quelli del pubblico di riferimento. I generi, dal thriller all’horror, in questo periodo hanno ripreso vigore e spesso sono più fruibili dei ‘drama’ e comunque siamo forniti nella nostra ‘line-up’ di numerose commedie “intelligenti” che divertono ma hanno comunque sempre contenuti importanti da comunicare.

3). D / La distribuzione come orienta le scelte di acquisto degli spettatori dai gusti semplici e di quelli più avvertiti?
R / Prima della distribuzione in sala di un film si crea sempre una campagna pubblicitaria ad hoc che dipende dal genere del film, dai suoi contenuti ed dal target del pubblico a cui si rivolto. Gli strumenti utilizzati sono numerosi e interagiscono tra loro: scelta del titolo, trailer, poster, locandine, flyer, spot tv, spot radio, campagne sui social network Facebook, Instagram, Twitter… e altri, tutti questi materiali promuovono il film nella direzione che si pensa sia la più fedele al prodotto ed anche più intuitiva, finalizzata a portare il pubblico al cinema. Per i film ‘art-house’ le recensioni dei critici cinematografici rappresentano un elemento di promozione molto importante e a tale scopo anche il lavoro degli uffici stampa é essenziale. La distribuzione del film utilizza le recensioni attraverso i vari strumenti internet per comunicare al pubblico ma anche agli esercenti la qualità e l’appeal culturale del film.

4). D / È più importante influire sulle scelte produttive o rafforzare, con una specifica linea di distribuzione, degli incisivi ragguagli sul piano stilistico di autori con la “a” maiuscola?
R / Ambedue gli aspetti produzione e distribuzione sono importantissimi e concorrono insieme al successo del film. Accordi tra produttori e distributori presi prima che il film sia finito, quindi nella sua fase di sviluppo e pre-produzione, garantiscono un maggiore impatto del film sul pubblico, poiché il distributore, che spesso conosce meglio il mercato, può intervenire in questa fase in modo più concreto per eventualmente dare suggerimenti anche di ordine produttivo. Con il mondo dell’esercizio i meccanismi sono sempre molto complessi e delicati, non ci sono dei veri e propri contratti anche perché la situazione della distribuzione cambia ogni settimana a seconda del prodotto in uscita. Ci sono però dei circuiti di cinema d’autore e dei cinema d’essai che, per loro vocazione, programmano e promuovono film d’autore nelle loro sale e che si battono affinché tali film possano restare in sala il più possibile contro le pressioni delle grandi distribuzioni e delle Major. È chiaro che un film é fatto per essere visto in sala e poi in tutti gli altri media; dunque é auspicabile che il produttore e il distributore lavorino insieme per la riuscita di tale film. Questo sempre parlando di cinema d’essai. Per i film commerciali i parametri sono diversi e a volte il produttore in questi casi potrebbe essere solo un produttore esecutivo.

5). D / L’anno scorso La NoMad Film ha distribuito un’opera d’impegno civile che coglieva nel segno: L’affido dell’estroso Xavier Legrand. Ricordo che al Nuovo Cinema Aquila, situato nel celebre quartiere Pigneto di Roma, gli addetti, dalla cassiera al proiezionista, ne parlavano con schietto entusiasmo. Ora è il turno di Charlie Says di Mary Harron. Quali sono le tue aspettative in merito?
R / Sì, il film “L’affido” era un film molto forte e di spessore: direi un film necessario, visto il problema enorme della violenza che giornalmente viene esercitata sulle donne. Ci ha dato molte soddisfazioni per i premi e i riconoscimenti che ha ottenuto ma anche perché, a parte la distribuzione tradizionale in sala, abbiamo fatto una larga diffusione in collaborazione con le Associazioni contro la violenza sulle donne nelle loro sedi o in altri luoghi, riuscendo a toccare capillarmente un largo pubblico. Il 22 Agosto usciamo sul territorio nazionale con CHARLIE SAYS di Mary Harron, la regista, come sai, di “American Psycho”; anche questo un film che coglie nel segno e che si addentra nella psiche del leader criminale, attraverso gli occhi di Karlene Faith, psicologa di tre giovani donne entrate a far parte della setta, dopo aver subito il lavaggio del cervello, e condannate all’ergastolo. In una escalation di follia e annullamento della volontà, viene ripercorsa la vita all’interno della “Famiglia Manson” e il rapporto di queste giovani con l’uomo che ha segnato le loro vite. Anche qui é forte l’attenzione sulle donne più che sul folle Manson, é quasi “Un manifesto femminista che analizza il fascino seducente del male”. Il nostro Charlie Says esce qualche settimana prima del film di Tarantino ed é certamente un bene e credo che riusciremo a resistere in sala almeno fino alla programmazione di C’era una volta … a Hollywood. Ma comunque Charlie Says é ben diverso dal “divertissement” di Quentin Tarantino per la sua intensità e il mood emotivo che la regista é riuscita a creare grazie alla sua ricostruzione dei fatti e dei personaggi molto autentica e a una narrazione responsabile. È una storia drammatica sugli anni Sessanta che ha attinenza con i giorni nostri e la gente troverà dei parallelismi con eventi di oggi. Il nostro Matt Smith (nella foto a confronto col vero Charley) é semplicemente perfetto nell’interpretazione di Manson come anche le attrici che interpretano le tre ragazze plagiate.

6). D / Qual è il tuo parere sulla strategia del day-and-date e sulla fruizione dei film on-line nell’era del digitale?
R / Noi abbiamo applicato molto tempo fa il ‘day-and-date’ su alcuni film europei presi con altri colleghi stranieri seguendo le direttive del programma Media in collaborazione con Mymovies e siamo stati i primi a credere in questa forma alternativa per uscire dai meccanismi stritolanti della distribuzione tradizionale. L’esperimento a suo tempo funzionò bene con il pubblico, ma purtroppo venne osteggiato da numerosi esercenti che non avevano apprezzato la contemporaneità della programmazione nelle sale e on-line. La situazione oggi non é molto cambiata, anzi forse c’é stato un irrigidimento maggiore; io continuo però a credere che il ‘day-and-date’ potrebbe essere vantaggioso soprattutto in quelle zone dove non ci sono più sale cinematografiche e sono molte in Italia. La pirateria, anche se se ne parla meno, rimane un grave problema e danneggia soprattutto le distribuzioni indipendenti quindi io sono per punizioni più severe per chi scarica illegalmente i contenuti. Certo i biglietti del cinema hanno un costo non basso, pur essendo tra i più economici in Europa, ma forse si potrebbe pensare ad una riduzione o meglio a un sistema articolato di tessere e abbonamenti che garantirebbe un flusso continuo di spettatori. La tecnologia ha sicuramente velocizzato le varie fasi della produzione e della distribuzione ed anche permesso un abbattimento di alcuni costi ma é vero che il processo di digitalizzazione delle sale in Italia é stato molto lungo e non sono sicura che sia ancora completato.

7). D / Che tipo di contributi dovrebbe ricevere la distribuzione dei film in possesso dei requisiti di eleggibilità culturale per ovviare ad alcune difficoltà oggettive?
R / La distribuzione di film ‘art-house’ e non solo nostrani ma perlomeno europei, dovrebbe poter usufruire di aiuti come avviene in altri paesi Europei quali la Francia, la Germania, e non solo del tax-credit che poi é valido appunto esclusivamente per opere di nazionalità italiana e che non costituisce un vero incentivo; questo anche in considerazione del fatto che nel nostro paese il doppiaggio é una consuetudine imprescindibile, con un aggravio notevole di spese e dunque spesso film che avrebbero tutte le qualità artistiche e culturali per essere comprati e distribuiti non riescono a essere importati in Italia.

8). D / La vendita dei programmi tv, come l’affermata serie animata La famiglia Passaflora, tratta dai libri per bambini scritti dall’autore francese Geneviève Huriet e muniti di immagini da Loïc Jouannigot, serve a sostenere opere di pregio culturale?
R / La vendita in tv é un tassello fondamentale nel percorso di un film che con la sola uscita nelle sale non potrebbero coprire i costi elevati della distribuzione e dà la possibilità a distribuzioni indipendenti di continuare a comprare film di qualità senza pensare esclusivamente al profitto, ma anche al valore culturale che il cinema ha sempre avuto e deve continuare ad avere. Sicuramente vendere programmi, non solo film, alla pay e free tv, ma anche alle piattaforme VOD, é un modo molto vantaggioso che può aiutare a diffondere film che altrimenti resterebbero nel cassetto.

MASSIMILIANO SERRIELLO

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