A colloquio con Romana Maggiora Vergano sull’emozione della recitazione
LE IDEE CHIARE DI UNA GIOVANE ATTRICE DESTINATA A LASCIARE IL SEGNO
Una conversazione con Massimiliano Serriello
È davvero destinata a lasciare il segno Romana Maggiora Vergano (nella foto). Ho voluto rigorosamente – o quasi: ogni tanto il “tu” scatta in automatico – darle del “lei”. Il 2 settembre, alla Sala Giardino, nell’ambito della 79ª edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, gli spettatori dal palato fine potranno applaudirne l’entusiasmo creativo profuso in Come le tartarughe di Monica Dugo nel ruolo dell’adolescente Sveva che passa dal disincanto dinanzi al dolore materno al sensibile processo d’immedesimazione.
Ad animare invece il copione del dramedy generazionale all’italiana Gli anni belli, al di là del colpo di gomito dei richiami citazionistici cari all’autore postmoderno per eccellenza del rievocatissimo 1994, Quentin Tarantino, provvede soprattutto l’intesa stabilita da Romana con Maria Grazia Cucinotta. Un’intesa in un certo senso da Fiori d’acciaio, in altre parole di donne garbate ma toste, anche se, a onor del vero, Gli anni belli nemmeno costeggia la virtù di far ridere gli spettatori tra le lacrime sulla scorta dell’esempio fornito a futura memoria dal miglior film di sempre sull’intesa femminile corroborata dalla forza dei legami di sangue: Voglia di tenerezza.
Lo spettacolo di primo piano costituito dalla regìa del pur bravo Lorenzo d’Amico de Carvalho si affida allo spettacolo solitamente di seconda fascia della recitazione. A invertire l’ordine dei fattori, per cui le soluzioni espressive ideate dietro la macchina da presa hanno più frecce al loro arco pure della psicotecnica mandata a effetto dagli interpreti che lavorano sul personaggio attingendo ad ammaestramenti d’alto profilo, è Romana. Di nome e di fatto. Ma chi è questa garbata ma tosta ragazza capitolina con gli occhi che sognano e le idee chiare?
Accogliamo Romana nella sede della Consul Press convinti che ne verrà fuori un’intervista perlomeno curiosa. A fare gli onori di casa provvedono due uomini d’altri tempi: Giuliano Marchetti e Alessandro Benini. Quando arrivo scorgo subito nello sguardo della risoluta venticinquenne, capace di lasciarsi alle spalle l’etichetta d’attrice di belle speranze impersonando una sedicenne che morde il freno per diventare grande, la calma delle persone forti. Estranee alle pose. A Romana interessa dire la sua. Ma non senza mezzi termini. Bensì pesando le parole. Ascoltando con attenzione le domande. Poste per comprenderne la risolutezza, la finezza muliebre, il decoro e l’autoironia. Che non guasta mai. Perché impedisce al delirio d’onnipotenza di prendere piede. Ci accomodiamo nella sala riunioni. La mascherina è d’obbligo. Tranne quando sorseggiamo un po’ d’acqua. Si parla tanto. Però si resta concentrati sulla ferma volontà di capire appieno il mix d’umiltà, erudizione ed empatia che permette a Romana di restare coi piedi ben piantati per terra. Sognare è legittimo in ogni caso. In quanto impreziosisce la supercoscienza dei personaggi da interpretare. Sulle tavole del palcoscenico Romana ha dato il meglio di sé: il teatro la elettrizza spingendola ad andare in profondità. Nei meandri della psiche. C’è spazio, tuttavia, per la spontaneità di tratto: l’una non esclude l’altra. La coesistenza tra naturalezza ed elaborazione recitativa coglie nel segno. Ed è il tratto distintivo dell’interprete motivata ed eclettica che non si ritiene depositaria della verità. Che non cerca inquadrature lusinghiere. Che non annoia mai gli interlocutori con fatti importanti per chi li vive sulla propria pelle ma di scarso interesse per chi li ascolta una volta convertiti in aneddoti. I retroscena, il dietro le quinte, gli spazi di confronto creatisi sul set, sul palco, nei camerini di cui ci rende partecipi emanano la fragranza dell’assoluta schiettezza. Ben lungi dal pagare dazio al diktat dello small talk. Delle chiacchiere senza importanza. Degli antidoti ai dispendi di fosforo contemplati dalle persone superficiali abituate ad anteporre le proprie fisime, esacerbate dall’insalubre egoismo, alla virtù di andare in profondità delle interpreti muniti soprattutto di un bagaglio umanitario degno di rilievo. Romana è quindi una ragazza interessata alla verità di emozione. Sia essa individuata nella macchina della solidarietà che tocca nel profondo chi pensa ai bambini che pagano sulla loro pelle la follia della guerra sia incline ad andare ben oltre l’apparenza, l’esteriorità, gli ovvi punti d’inserzione col personaggio da interpretare. Ogni ruolo è una sfida. Che Romana raccoglie con umiltà ed entusiasmo. D’una venticinquenne che impersona talora minorenni col problema del benessere. Ma anche una Maddalena moderna ed eterna.
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1). D / Sembra che le vicende del passato siano sempre più belle. Lo scrittore Cesare Marchi li chiamava sospiri a marcia indietro i rimpianti degli anni belli che ci siamo lasciati alle spalle. Lei, Romana, non ha vissuto quegli anni. Ma li ha interpretati. Che lavoro su se stessa ha fatto per proiettarsi in quell’anno di grazia?
R / Ho vissuto due adolescenze: la mia e quella di Elena. Il suo contesto storico, sociale e culturale è lontano dal mio. Ed è stato perciò stimolante vivere due adolescenze in epoche così diverse tra loro. Quando, come dice lei, occorre lavorare su se stessi per interpretare un ruolo il personaggio prende vita. Ed è quello che mi è successo lavorando su me stessa per interpretare Elena. A primo acchito, quando ho saputo che avrei interpretato una ragazza sedicenne che nel 1994 va in vacanza con i genitori ma ha una sua personalità già delineata ho pensato: è fatta; io sono molto anni 90. Lo sappiamo tutti: gli anni 90 sono tornati di moda. Lo si può tranquillamente notare dall’abbigliamento dei giovani d’oggi. Io dentro il mio armadio ho solo jeans a vita alta, magliettine a righe e abiti coi colori sgargianti. Quindi a cominciare da una premessa se vuole superficiale, almeno in apparenza, mi sono sentita subito a mio agio nei panni del personaggio di Elena. Anche l’amore per la musica di quegli anni e le hit dei vari gruppi come i Green Day e i Nirvana mi hanno dato un’ulteriore mano per calarmi nei panni di Elena e nell’atmosfera che si respirava e si sentiva nel 1994.
2). D / L’anno di grazia a cui facevo riferimento è ovviamente il 1994. Per l’appunto. Ed è anche sul serio l’anno di Maria Grazia Cucinotta. Divenuta famosa in tutto il mondo interpretando la protagonista femminile del film Il postino di Michael Radford accanto al compianto Massimo Troisi. Che tipo di Madre è il suo personaggio ne Gli anni belli? Io, per esempio, la vedo come una Madre che parla più con gli occhi rispetto al marito, professore di greco sensibile ai profili di Venere e al gusto dell’eloquio con il rischio di cadere nel ridicolo involontario, ed ergo meno tagliata fuori dal classico divario generazione. Lei sul set come l’ha vista?
R / Massimiliano, in primo luogo grazie per la domanda. Che mi permette di articolare una risposta spero esauriente. Insomma non banale. Maria Grazia l’ho vista benissimo. E non lo dico per fare una sviolinata al personaggio che tutti vedono in lei anche fuori dal set. Io apprezzo la persona. Perché è una gran persona. È sufficiente conoscerla per accorgersene. Per capire che è vera. Che recita quando si cala nel personaggio da interpretare. Ed è autentica per il resto in ogni istante. Detto questo, Maria Grazia ha fatto su se stessa e sul personaggio della Madre un lavoro intelligente e molto sottile perché non l’ha giocata su: ti assecondo perché sei mia figlia, siamo donne, lascialo perdere quello. Ma più su un profondo rapporto di complicità.
3). D / Un rapporto – a differenza del richiamo citazionistico divertente ma superficiale, un po’ alla Tarantino de noartri, con tutto il rispetto – impreziosito dal lavoro di sottrazione di bressoniana memoria. Quanto conta secondo lei, Romana, nel cinema togliere invece di aggiungere per arrivare in profondità?
R / Conta enormemente. Lei da critico ha colto i richiami fatti da Lorenzo. Che considero divertenti e centrati. E credo che lo stesso Lorenzo sappia che si tratta di richiami importanti. Che siano film quelli che lui cita superiori a Gli anni belli. Ed è un modo per richiamare alla mente altri film col gusto del cinefilo. Che si è nutrito di tante visioni diverse. Tra queste visioni ci sono anche i film asciutti ed essenziali. Che Lorenzo non cita. Ma permea per me alcuni momenti, tra cui quelli tra me e Maria Grazia, con quello che lei, Massimiliano, giustamente definisce lavoro di sottrazione. Le scene più belle della storia del cinema, o almeno quelle che mi sono più rimaste in testa e nel cuore, sono contraddistinte dai piani d’ascolto degli interpreti mentre parla l’altro interlocutore.
4). D / Perché come nei film di Robert Bresson ed Éric Rohmer permettono al gioco fisionomico degli interpreti d’innescare al meglio le dinamiche interiori del sottotesto e dei personaggi?
R / Non avrei potuto spiegarlo meglio. Quei piani d’ascolto rispecchiano al meglio le intenzioni dell’autore, spingono gli spettatori a immaginare cose che non vedono e stimolano gli interpreti a lavorare sulle sfumature dei personaggi. Ad animarne il sottotesto, le circostanze meno evidenti rispetto ad alcuni richiami e ad altri accenti di sicuro effetto ma forse più importanti per lavorare di fantasia restando ancorati al carattere d’autenticità.
5). D / Ed è un gioco di equilibrio che richiede estrema serietà. Lei ha parlato di fantasia. È bello sognare oppure è un intralcio per il carattere d’autenticità?
R / Per me sognare è fondamentale. Quindi è sia utile sia bello. Il valore che ha parlarsi con gli occhi, ad appannaggio del lavoro di sottrazione a cui ha fatto così bene riferimento, consente al regista di non dover necessariamente montare il mio primo piano mentre lui mi dà la battuta. Per un’attrice e un attore questo modus operandi permette di aggiungere nel gioco fisionomico qualcosa di loro. Qualcosa che si evince negli sguardi. Nelle reazioni mimiche alle parole.
6). D / E quindi nei silenzi eloquenti?
R / Certo. Negli sguardi che comunicano più delle parole.
7). D / Quei silenzi contano più di ogni battuta di spirito e di qualsiasi parola?
R / Penso proprio di sì. Quei silenzi danno modo agli attori e alle attrici di sognare. E sognare permette di trovare infiniti punti d’identità coi personaggi che noi interpreti siamo chiamati ad animare attingendo all’esperienza e all’immaginazione.
8). D / L’immaginazione è una virtù nel cinema. Definito non a caso la fabbrica dei sogni. L’incubo di gettare al vento quanto si semina mettendoci oltre alla faccia pure l’anima spesso si profila. L’intesa stabilita con Maria Grazia Cucinotta sembra averle giovato per allontanare l’incubo e nutrire il sogno. A lei mi riferivo con l’anno di grazia: nel 1994 uscì Il postino. Con cui Maria Grazia è diventata un’attrice famosa in tutto il mondo che non fa pesare lo status di diva. Come l’ha sostenuta sul set?
R / Gli interpreti, che come dice lei lavorano su sé stessi e sui personaggi da approfondire, sono poi chiamati pure a inquadrare nelle interviste il proprio operato. Lei ha colto perfettamente il modo di fare e di essere di Maria Grazia. Non so che lavoro abbia fatto sul personaggio della madre. So che è stata prodiga di attenzioni nei miei confronti. Mi ha sostenuto in modo materno. In sintonia col personaggio della madre che, a differenza del marito, professore di latino e greco in aperto contrasto con la figlia ribelle e svogliata nell’apprendimento scolastico, si mette nei panni di questa ragazza ancora immatura. Anche se si sente matura e nasconde ai ragazzi e alle ragazze con cui stringe amicizia in vacanza di essere ancora minorenne. Lei non si sente piccola. La madre non la tratta come fosse una creatura. E la rimette in riga quando arriva ai ferri corti col padre progressista che diviene autoritario in maniera se si vuole tragicomica. La madre rimette in riga pure il marito. È giusta. Equilibrata. Maria Grazia ha voluto trasmettermi questo senso dell’equilibrio. Affinché stessi sempre concentrata. Una volta le è bastato un semplice gesto. Un gesto al contempo delicato e risoluto. Mi ha toccato il mento spingendomi dolcemente ad alzare la testa riprendendo il controllo del personaggio. Le devo molto. Le voglio bene.
9). D / Vuole bene anche al cinema. Nel 1994 uscì pure nelle sale cinematografiche di tutto il mondo un film che ha fatto epoca: Pulp Fiction di Quentin Tarantino. Un autore anarcoide e postmoderno avvezzo ad appaiare nei vari richiami citazionistici incastonati nella scrittura per immagini Jean-Luc Godard ed Enzo Girolami Castellari. Cosa pensa di questa cultura postmoderna che fagocita arte e consumo?
R / Penso che l’arte risiede in tutte le cose. Dal gesto più neorealista, per così dire, come mangiarsi un panino piuttosto che andare al ristorante in tiro e mangiarsi un’aragosta, alla possibilità di vivere più esperienze di vita possibile senza necessariamente etichettarsi in uno stile, in una classe sociale. Sono felice di poterne fruire come attrice per avere più spunti al fine d’interpretare personaggi non banali. Non stereotipati, ecco.
10). D / I luoghi comuni sono quindi qualcosa da cui prendere le distanze. Al contrario i luoghi eletti a location avvicinano gli spettatori cinematografici all’atmosfera di complicità che rende speciali certi set. È stata la geografia emozionale ad animare il set de Gli anni belli?
R / Innanzitutto non ero mai stata in Calabria. Ho ancora vivido il ricordo dei miei piedi immersi in quella sabbia. Sembra un luogo incontaminato. Ci sono arrivata dopo due ore di treno. Stanca. Con due valigie enormi. Perché siamo dovuti stare lì parecchio. Arrivo su questo set; stavano già girando altre scene e il regista, Lorenzo d’Amico de Carvalho, per evitare che parlassi, mi ha invitato ad andare in spiaggia. Resto così conquistata da questa piattaforma di legno bellissima che sembrava non finire mai per poi aprirsi in un modo magico. Lì ho capito che quella sarebbe stata la mia casa per tre settimane. E che non avrei voluto stare in nessun altro posto. Mi sono sentita investita, per così dire, d’una carica positiva per cui a un certo punto era impossibile fare fiasco.
11). D / Non ha fatto fiasco. Anzi. Lei ci ha messo nel suo. L’investitura accordatele le ha fornito qualche spunto per tenere sotto controllo la realtà ed esprimere la sua immaginazione?
R / Per un’attrice esprimersi è fondamentale. In conformità con le indicazioni fornite dal copione prima di girare e dal regista nel momento di girare. L’immaginazione che un attore o un’attrice può esprimere va oltre l’impressione, la soggettività, l’ordine di mettersi alla giusta distanza dalla macchina da presa. Ribadisco che con un cast del genere era difficile sbagliare. Mi piace moltissimo il personaggio del padre interpretato da Ninni Bruschetta. E lui mi piace anche più del personaggio. Lo seguo da quando impersonava Duccio Patané in Boris – Il film. E ha ragione: l’investitura di cui parla mi ha dato molta più sicurezza. È stato come se Maria Grazia e Ninni mi dicessero: sei grande.
12). D / Un invito a dispiegare le ali. Sancendo, come dice il mio grande amico Alessandro Benini, una posizione di alto privilegio. Soffre di vertigini?
R / No. Ma mantengo i piedi per terra. L’investitura in questione, se così è lecito chiamarla, mi spinge ad accrescere la memoria affettiva e gli input psicologici quando interpeto un personaggio. Sia che lo faccia per il cinema, la televisione o il teatro.
13). D / Il teatro ha la marcia in più?
R / A mio modo di vedere assolutamente sì. Le tavole del palcoscenico esercitano sulla mia persona un fascino incredibile. Il teatro richiede tanta concentrazione. Funge da pungolo per entrare nei meandri dell’anima nel lavoro di ricerca del personaggio.
14). D / Il suo personaggio, Manu, è una delle carte vincenti della pièce teatrale Nel bosco. L’assunto narrativo trae partito da un fatto di cronaca riguardante un giro di prostituzione minorile. Oltre alla metafora di Cappuccetto Rosso, con le teenager perse nel bosco della perdizione degli adulti, qual è stato il mezzo conoscitivo che le ha permesso di rendere al meglio questo spaesamento?
R / L’intuizione ha un ruolo importante per calarsi nei panni di una ragazza come Manu ripercorrendone il dramma in profondità. Si tratta di un’adolescente che compie una scelta drastica senza voler minimamente pensare alle conseguenze. Fortunatamente nella mia vita ho compiuto scelte diverse e non ho subìto il fascino perverso del bosco in cui Manu e la sua amica si perdono. Ma proprio in virtù di questa lontananza materiale dalla sregolatezza del personaggio ho voluto comprendere sin nei minimi dettagli l’aspetto spirituale connesso alle circostanze venutesi a creare. Le scoperte fatte, seppure in un contesto del genere sulla strada della perdizione, sono comunque servite alle due amiche per accrescere l’autoconoscenza, la piena comprensione dei valori familiari, contrapposti ai diavoli tentatori, e il bisogno di riflettere. Gli adulti hanno il compito di far pensare gli adolescenti. La nonna le si avvicina a tal fine ma ogni qual volta che i suoi consigli stanno per fare breccia, spingendola a compiere scelte più sagge, lei prende le distanze.
15). D / Elsa Bossi, l’attrice che impersona la nonna così lontana così vicina, le ha fornito ulteriori stimoli per mettere a punto la ricerca di materiale spirituale nel personaggio?
R / Nel modo più assoluto. Elsa Bossi è un’attrice fenomenale. In grado d’indirizzare con il suo esempio chi le sta accanto in un cammino artistico colmo di stimoli. Merita di avere spazio anche sul grande schermo: ha una potenza espressiva che conferisce grande rilievo al nucleo dell’opera da interpretare.
16). D / Il regista José Alejandro Gómez Monteverde l’ha scelta in un film internazionale incentrato sulla coriacea fondatrice, Francesca Saverio Cabrini, della congregazione delle Missionarie del Sacro Cuore di Gesù. Impersona una sorta di Maddalena?
R / Sì. Interpreto una prostituta da redimere. Un personaggio moralmente e ideologicamente molto lontano dalla protagonista. Tuttavia il lavoro compiuto su me stessa, sul personaggio, il punto di partenza, l’approfondimento in corso d’opera annullano ogni distanza. Anche la paura iniziale di partire col piede sbagliato risulta utile alla fine convertendosi in ricchezza di sentimento. E quindi in Vita.
MASSIMILIANO SERRIELLO