A colloquio con Stefano Mainetti sulla musica applicata alle immagini
L’ARTE DELLA COMPOSIZIONE MUSICALE NELLA FABBRICA DEI SOGNI
Una conversazione con Massimiliano Serriello
Docente di Composizione per la Musica Applicata alle Immagini, Stefano Mainetti (nella foto) serba fulgida memoria degli stimoli ricevuti dal compianto Maestro Ennio Morricone sull’audacia di sperimentare. Cercando nuove sintonie, con l’alacre messa a punto di sonorità multiformi ed epidermiche, anziché battere sempre sullo stesso tasto. L’ACMF – Associazione Compositori Musica per Film, di cui è uno dei fondatori, oltre a custodire l’arduo diritto al merito e l’opportuno carattere d’ingegno creativo in un periodo nel quale molti esponenti del mondo dello spettacolo fanno fatica ad andare avanti senza godere dei benefici previdenziali connessi all’inquadramento delle varie categorie, incentiva proprio la forza significante della polivalenza di risorse.
Presso il Conservatorio di Santa Cecilia, nelle vesti d’insegnante affezionato sia al valore della consuetudine ad appannaggio della tradizione sia all’energico slancio del progresso, Mainetti consolida il rapporto docente-discente nel ricordo dei preziosi precetti trasmessigli dal tenace ed estroso poeta livornese Giorgio Caproni (nella foto). Avvezzo tanto all’alta quanto alla bassa densità lessicale. Per trascendere il diktat delle rime sprovviste d’acume e trovare persino nei voluti scompensi ritmici, nell’accavalciamento dello schema metrico, nell’egemonia del contenuto sulla forma l’humus ideale. Allo scopo di non regredire mai in mero poeticismo il venerando sbocco dell’intuito.
Il superamento di freni nocivi, la virtù di prolungare le pause, la capacità di trarre linfa da figure retoriche come l’enjambement, l’intraprendente metodo caldeggiato a più riprese dall’avveduto guru toscano, ed eludere l’ingombro dell’enfasi di maniera, scandagliando gli ampi spartiti al pari dell’ordine delle parole da rifinire ad hoc, fungono da perenne pungolo.
Mainetti, dopo l’età verde, all’insegna dell’amore per la chitarra classica e per modelli diametralmente opposti tra loro, ha convertito l’intoppo, affiorato nell’ansia di prestazione in diretta, dinanzi alla mutabilità degli umori del pubblico, in una svolta. Da allora la volitiva spinta a comporre, ad amalgamare percorsi orizzontali e verticali, ad accendere la risolutrice fiamma dell’arte, conciliando orchestra ed elettronica, non conosce soste. L’influenza reciproca d’immagine e immaginazione necessita dell’ubi consistam degli appositi match cut, per appaiare con la risorsa uditiva concezioni altrimenti distinte, di suoni realisti, surreali, diegetici ed extradiegetici, di fonti congiunte alle risposte emotive delle diverse platee, di raccordi volti ad accrescere lo spessore intellettuale dell’intreccio narrativo, dello spettro acustico, del senso armonico, di duttili congegni, d’incisive ensemble, di temi ora toccanti ora spiazzanti.
Servendosi del duduk, l’antico aerofono armeno ad ancia doppia utilizzato in seguito dal celebre collega Hans Zimmer, Mainetti ha scandito sulla scorta dei febbrili ed evocativi ondeggiamenti lo stream of consciousness del controverso film Il ventre di Maria. L’impervio riesame della Sacra Scrittura raggiunge l’acme grazie alla destrezza introspettiva del versatile regista Memè Perlini (nella foto). A dispetto delle limitate critiche ricevute dagli intransigenti cattolici, già inviperitesi con Martin Scorsese per L’ultima tentazione di Cristo, dietro l’effige ritenuta blasfema della Madonna in bicicletta, gli incantesimi addirittura crudeli compiuti da un Gesù bambino chiuso in se stesso, ai limiti dell’autismo, l’inane rifugio a Ostia antica degli extracomunitari, i graffiti inneggianti la liberazione della Palestina, lo strepito del traffico, il Pater Nostro salmodiato in lingua araba emerge, benché in chiave laica, una strenua ricerca della Fede. Dispiegata dalla singolare convergenza di antico e moderno, di letizia e spasimo, di dissonanze e consonanze. Per garantire all’apologo sull’emarginazione della Madre del Redentore un cortocircuito vibrante ed elegiaco. Conforme all’emblematica accordatura degli idiomi esotici ottenuta dal malleabile strumento etnico in legno d’albicocco che, pur coprendo soltanto l’estensione di un’ottava, è entrato di diritto nella lista dell’Unesco Patrimoni orali e immateriali dell’umanità.
A Mainetti, insieme alla dotta commistione di stili melodici, sta a cuore la concreta mescolanza dei generi cinematografici. Dai thriller all’horror. Incarnato dal talentuoso ed elegante attore britannico Sir Christopher Lee (nella foto). Che a Roma, in occasione del Fantafestival, nel 1998, quando gli consegnò il premio alla migliore colonna sonora, composta per Tale of the Mummy di Russell Mulcahy, all’affabile domanda sul patto col diavolo sancito in favore dell’eterna giovinezza, intenta ad abiurarne l’anagrafe, rispose: «E se non l’ho fatto io… ».
La battuta pronta dell’illustre interprete, simbolo per antonomasia del cupio dissolvi e delle atmosfere demoniache sul grande schermo, fior di gentiluomo nell’esistenza d’ogni giorno, coniugata all’imperfetto il 7 aprile 2015, con un passato da cantante, provvisto di voce baritonale, profonda, bassa, lo hanno spronato a puntare ancora più in alto. Restando, al contempo, coi piedi per terra. Nel pieno rispetto delle maestranze, degli strumentisti, dei collaboratori spesso confinati nell’ombra. Lontani dalla luce dei riflettori. Disposti, nondimeno, a mettersi di buzzo buono al servizio dell’impresa collettiva. L’impiego di solisti estranei all’impasse dell’esibizionismo sancisce l’apporto delle competenze intersecate nell’apprendimento della fabbrica dei sogni. Non si finisce mai d’imparare. Ed è per questo che Stefano ha voluto redigere a sei mani con il poliedrico fonico di presa diretta Gilberto Martinelli (nella foto) e l’appassionato fonico di mix Simone Corelli l’indicativo ed eloquente libro Dialoghi, Musica, Effetti: il Suono nell’Audiovisivo.
L’arguta premessa di corrispondere alle attese degli spettatori avventizi, colmando le croniche lacune sugli accordi tra punti di vista e punti d’ascolto, il desiderio di fornire ai registi l’opportuno scandaglio dei format immersivi, recinti di regola in subappalto, ai fini di una maggiore comprensione del suono spazializzato, contiguo ai preavvisi figurativi che decretano l’investitura ad autori visionari, la premura di non dare nulla per scontato, l’accorgimento di anteporre il coefficiente d’intelligibilità della scoperta step by step d’input costitutivi ed esigenze di ripresa all’insalubre boria dell’irremovibile linguaggio specifico vanno in porto, anziché allo sbaraglio, grazie all’intesa stabilita fuori dal set.
La fertile fantasia di Memè Perlini, che seppe ricostruire sulle tavole del palcoscenico dei teatri di posa il clima di mutua partecipazione del set, ha fatto comunque da battistrada all’ingresso negli spazi allestiti per scrivere, come si suol dire, con le immagini, ascoltare con gli occhi e disegnare coi suoni.
La consapevolezza di aver saputo trascendere i limiti dei confini autoctoni, trovando nel Nuovo Mondo una seconda casa e nella nomination ai BRIT Awards l’assoluta conferma di essere riuscito a unire in itinere ed ex post ambiti recintanti ex ante dai falsi puristi, ostili all’interazione dell’attività pop con la cultura accademica, resta uno sprone per passare al setaccio note da tradurre in confluenze spirituali.
Privilegiare l’incorporea ed eterea natura dello spirito rispetto all’angusta materia rientra infatti nei continui propositi di chi cadenza l’invisibile metrica dei sentimenti, delle ragioni d’insicurezza, all’origine del climax di qualsivoglia giallo, degli intensi motivi d’incontro e di scontro che covano sotto la cenere in attesa di venire davvero a galla.
Per il piccolo schermo Mainetti ha realizzato molteplici colonne sonore conciliando rigore ed emozione. Accogliendo pure le frecce di Cupido sul set galeotto della serie Orgoglio. L’applaudita moglie, l’attrice Elena Sofia Ricci (nella foto con il marito), che impersonava in tv la romantica marchesa Anna Obrofari, ha francamente apprezzato in Dialoghi, Musica, Effetti: il Suono nell’Audiovisivo l’equo predominio della soluzione tecnico-storica sulle astruserie tecnicistiche.
Il processo compositivo, per non pagare dazio al vano poeticismo a furia di aggiungere impersonali sovrapposizioni melodiche, ricava l’acqua della vita dall’impeccabile misura di alcune peculiari micro-variazioni. Non significa illudersi di estrarre presunti conigli dal cilindro, né svilire il valore dell’immaginazione e la potenza dell’invisibile. Indica piuttosto la solerzia di portare a termine scelte difficili. Suggerite, a dispetto della vanesia inclinazione all’iperbole dei finti guru, dal lascito degli autentici Maestri. Con la “M” maiuscola. Stefano, da par suo, rifugge dall’accidia delle idee prese in prestito, dagli automatismi indotti dal taedium vitae, dai tormentoni dei copia e incolla, convinti di avere la scienza infusa, dall’ingannevole abbondanza di accenti in realtà a scartamento ridotto.
L’empatia viceversa per toni trascinanti e semitoni carichi lo stesso di senso permette alla farfalla di uscire puntualmente dal bozzolo. E all’aura ascetica di andare a braccetto con l’immediatezza espressiva.
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1). D / Nel cinema l’alchimia tra compositore e produttore implica l’affiatamento d’imperativi commerciali ed esiti artistici. La lunga collaborazione che hai stabilito con Goffredo Lombardo (nella foto), carismatico capo della Titanus, è passata attraverso la consonanza dell’affinità elettiva o il pragmatismo dell’adagio “patti chiari e amicizia lunga”?
R / Dal 1993 al 2006 ho composto tantissime colonne sonore per la Titanus. Dalla miniserie televisiva “Donna d’onore 2” a “Il grande fuoco“. Sino ad arrivare alle tre stagioni di “Orgoglio“. In quegli anni in pratica vivevo dentro gli studi della Titanus. Goffredo Lombardo è il produttore col quale ho lavorato di più. Nella televisione il compositore si rapporta maggiormente col produttore. Mentre nei film d’autore occorre confrontarsi soprattutto col regista.
2). D / Non ci piove. Però Lombardo deve la sua fama di produttore a “Il gattopardo” (nella foto), equiparabile come kolossal a “Via col vento“, per cui arruolò al timone di regìa un autore della levatura di Luchino Visconti. Era una figura di tycoon ormai negletta, sostituita oggigiorno dai patrocinatori d’iniziative e dagli intermediari finanziari, che non lasciava nulla al caso?
R / Concordo. Di figure così carismatiche non ce ne sono più. La generazione di Carlo Ponti, Franco Cristaldi e Goffredo Lombardo ha lasciato il segno. È stato appassionante lavorare per un uomo pieno di risorse ed energie. Attentissimo alla cura dei particolari. Che vigilava sulla riuscita della sceneggiatura, dei costumi, delle musiche, dell’assemblaggio delle immagini, dei movimenti di macchina. Le sue decisioni erano perentorie ed estremamente incisive. Qualche volta di domenica mi veniva a trovare a studio per controllare cosa stessi componendo. Oppure trascorrevamo i weekend alla Titanus parlando delle disavventure patite dapprincipio con “Il gattopardo“: mi raccontò che Visconti sforò di brutto il budget stanziato in prima battuta e lui, sborsando di tasca sua ingenti somme, riuscì a finire le riprese per non lasciare il film a metà. Anche se non è mai rientrato delle spese, ha consegnato alla storia un’opera italiana realmente accostabile, per la maestosità dell’impianto, a un’operazione monumentale tipo “Via col vento“. Ed è divenuto, come hai sottolineato te, un formidabile biglietto da visita in ambito internazionale. Grazie all’effetto volano, Goffredo produsse una miriade di film che sbancarono il botteghino. In Italia al momento attuale si ricorre a precise logiche finanziarie e agli agganci nei posti chiave per reperire il budget necessario a realizzare i film. Ciò richiede competenza. Senz’alcun dubbio. Ma prima c’era maggior audacia: i nostri produttori rischiavano i soldi propri. Lavorando negli Stati Uniti, ho notato che le grandi case di produzione realizzavano un blockbuster con i coefficienti spettacolari graditi dalle masse, per ottenere gli incassi auspicati al box office, e magari cinque film a basso costo. Con cui si assumevano parecchi rischi. Puntando su talentuosi registi esordienti alieni ai diktat commerciali. L’ingresso sul mercato primario di sbocco del kolossal permetteva ai film low budget, inseriti nel pacchetto, di farsi conoscere. Così opere che erano costate poco sotto l’aspetto economico ma molto in termini di speranze uscivano dall’oblio. Trasmettendo emozioni non inferiori a quelle procurate dai film di sicuro richiamo. Giudico in tal senso “The Full Monty” un’autentica chicca. Eppure è costato pochissimo rispetto a un kolossal.
3). D / “The Full Monty“, brioso dramedy sulla working class anglosassone, ottenne addirittura la nomination all’Oscar come miglior film. Dando del filo da torcere al kolossal sbanca-botteghini “Titanic“. Che tuttavia alla fine vinse, com’era prevedibile, ben undici statuette. Passando al rapporto con i registi eletti ad autori, hai curato la colonna sonora del film a basso budget, ma ricco d’acume, “Il ventre di Maria” (nella foto). L’intesa con Merlini, esplorando diverse componenti organologiche, ti ha permesso in seguito di saggiare nuovi esperimenti in territori prima sconosciuti?
R / In primo luogo mi fa piacere che menzioni l’acume di Memè Merlini. Che ritengo un autore straordinario. Morto purtroppo troppo presto. Avevamo cementato negli anni un’intesa significativa. Ci capivamo al volo. Sin dai tempi della nostra collaborazione teatrale. Allora passavo giornate intere durante le prove a cercare suoni che non esistevano affatto. La sperimentazione, intesa anche come la capacità di battere strade sconosciute con sonorità poco praticate, rappresentava l’asse portante del nostro lavoro. Io, poco più che ventenne, grazie alla libertà di sperimentazione concessami da Memè, sono riuscito sin dagli esordi ad andare oltre gli schemi. Dal punto di vista umano, ho potuto beneficiare della generosità d’animo di una persona che era altresì un vulcano d’idee. Per la colonna sonora de “Il ventre di Maria“, partendo da un principio laico, cercammo un tipo di approccio che conferisse alla fede il senso catartico dell’abbraccio. Non della divisione. Quindi unimmo i cordofoni classici del mondo arabo a un coro di bambini e a un’arpa. Appartenenti invece al mondo occidentale.
4). D / Passare, a distanza di quindici anni, dalla colonna sonora del dibattuto “Il ventre di Maria” alla creazione delle musiche per l’applaudito audio dramma della Bibbia in 79 cd “The Word of Promise” testimonia la versatilità della tua musica?
R / È un’arma a doppio taglio: non posso farne a meno. Amo tutte le sfaccettature della musica applicata alle immagini. È un privilegio perché mi diverto. Ma costituisce un limite perché m’impedisce legami di lunga durata alla circoscritta cifra stilistica di un singolo regista, a un genere preciso. A una categoria, una corrente che domina le altre.
5). D / Preferisci le inesauribili modifiche della contaminazione dei generi al pari della mescolanza di stili?
R / Direi proprio di sì. Mi piace il computer e adoro sperimentare. Credo che sia il mio tratto distintivo. Ed è la base della libertà di pensiero che applico nella valutazione di princìpi ideologici scevri dagli schieramenti a priori.
6). D / Metti l’autonomia di giudizio davanti a tutto?
R / L’autonomia di giudizio, senza vincoli, si riflette anche nel mio lavoro. Scegliere con chi collaborare non deve pagare dazio alla ripetitività. Perché la personalità artistica di un compositore si può connettere con i canoni narrativi di diversi generi. Mescolando, appunto, stili diversi. Lo stesso vale per le scelte di vita compiute lontano dai clan di partito.
7). D / Trarre partito dall’uso del duduk per “Il ventre di Maria” in ogni caso ti ha portato lontano. Alberto Sordi con “Un americano a Roma” parodiò il richiamo dell’esterofilia. Eppure le sirene d’oltreoceano risultano melodiose. Che cosa ha significato intervenire con schemi ritmici ed eclettici strumenti al servizio della produzione di “The Shooter” e di Ted Kotcheff, autore del primo “Rambo“, in cabina di regìa?
R / Servirmi del duduk per “Il ventre di Maria” è stato bellissimo. Perché mi ha permesso d’imprimere alla colonna sonora quel timbro che ricorda la voce umana. Lavorare per una produzione ad alto budget rappresenta un’esperienza formativa eccezionale per mettere a frutto l’esperienza maturata prima sulla scorta della sperimentazione. Dai trenta ai quarant’anni ho vissuto più là che qua. Gli americani temono gli effetti deleteri comportati dall’utilizzo della musica composta alla carlona. Sono consci che un film viene molto condizionato, nel bene e nel male, dalla colonna sonora. Ed è per questa ragione che destinano fino al 5 % del budget per la realizzazione delle musiche adatte. Essere chiamato, come mi è successo, a collaborare nella fase di sceneggiatura, nel momento in cui il plot prende piede, cambia tutto. Vivere inoltre il set prima di arrivare al montaggio ha allargato le mie prospettive. Dopo “The Shooter” ho potuto realizzare la colonna dell’action movie “The Silent Trigger” e dell’horror “Tale of the Mummy“.
8). D / Entrambi diretti da Russell Mulcahy (nella foto), il regista di “Highlander“, uno stilista visivo che tiene in grande considerazione le musiche. Fu dunque un vero cambio di vita?
R / Ricordo che una volta, dopo l’uscita in sala di “The Shooter“, un buttafuori americano, una sorta di G-Man, m’introdusse tra la folla in qualità di compositore del film. Mi guardai intorno incredulo. Invece lì è normale. A Los Angeles c’erano i negozi di dischi dedicati solo ed esclusivamente alle colonne sonore dei film. Fu decisamente un cambio di vita. Per giunta dopo m’imbattei in Russell Mulcahy. Ritenuto all’unanimità uno dei migliori autori di videoclip musicali, con un orecchio indiscutibilmente sensibile perciò alla colonna sonora.
9). D / La conoscenza musicale dei registi con le idee chiare sulla colonna sonora funge da stimolo o è una bella gatta da pelare?
R / I registi devono sapersi rapportare con ogni reparto. Per indirizzare tutti i settori. Caratterizzati dalla perizia tecnica della fotografia, dai fattori visivi inerenti la scenografia e quindi anche dalle musiche e dai suoni. Personalmente mi sono trovato meglio con i registi che conoscono a fondo la musica. Per “The Shooter” ebbi Ted Kotcheff (nella foto), diplomato in violino, alle calcagna nel momento di comporre. Venne a Milano mentre registravo alla Scala con l’orchestra dei giovani. Il confronto con un autore che mette bocca nel mio lavoro perché sa esattamente cosa gli occorre è sempre proficuo.
10). D / Al di là dei cambi di vita, la costante dell’arte compositiva risiede nello scrivere senza sosta nel processo di creazione?
R / Eh sì! L’immagine del compositore con i capelli dritti, stressato per il tour de force, corrisponde a realtà. Quando si lavora alla partitura di un film importante è normale dedicarci anche diciotto ore al giorno. Rammento quando suscitai l’ira di mia moglie perché alla mezzanotte del 31 dicembre, invece di festeggiare il Capodanno, stavo scrivendo.
11). D / Che influenza ha esercitato ed esercita – anche in termini di vincoli ed eventualmente di effetti collaterali – il progresso tecnologico nella composizione musicale?
R / La scienza è buona. La tecnologia, che costituisce l’applicazione della scienza, può essere buona o cattiva. La scoperta dell’energia nucleare rappresenta una conquista per l’umanità. La bomba atomica è una cosa devastante: un reato contro l’umanità. Il computer, da quando si è affacciato nell’universo della musica da film, ha creato sconfinate opportunità. Dipende dall’uso che si fa del mezzo tecnologico. Lo sputa-suoni degli pseudo professionisti è un esempio di appiattimento ed effetto collaterale. Premere un tasto non c’entra nulla con la composizione.
12). D / La musica elettronica richiede la stessa dedizione di quella orchestrale?
R / Non c’è dubbio. Il problema risiede in chi si approfitta della tecnologia. Io provengo dagli studi classici ed ero abituato a scrivere con la matita e la gomma su un foglio di carta. Il computer ha permesso ai compositori di far sentire al regista, prima di concepirlo con l’orchestra, un assaggio della colonna sonora. Indicando la successione di violini primi e secondi, viole, violoncelli e contrabbassi. Ed è diventato un modus operandi assai frequente.
13). D / L’uso dell’elettronica in fase di pre-produzione abbassa i costi del film.
R / Hai ragione: permette di contenere il budget. Dal punto di vista sperimentale congiungere orchestra ed elettronica costituisce invece un’ottima possibilità.
14). D / La variazione all’interno di una colonna sonora e dunque i cambi di ritmo a essa congiunti hanno più frecce al loro arco rispetto ai motivi ricorrenti o leitmotiv che dir si voglia?
R / Sovente si parte da un leitmotiv, che non deve essere per forza cantabile o melodico. Da là ne derivano i cambi di ritmo. Mantenere il motivo ricorrente risale agli albori del cinema. Nelle partiture i ritmi sovrapposti, i soprassalti, in linea col turbinio degli stati d’animo, hanno una chiara derivazione wagneriana. Ecco, Richard Wagner (nella foto) sarebbe stato un magnifico compositore di colonne sonore.
15). D / L’apporto in un’orchestra di virtuosi solisti che uniscono sacro e profano, per eseguire sonorità originali anche attraverso strumenti inconsueti, fa la differenza? R / È fondamentale. Spessissimo nella stesura di una colonna sonora chiamo solisti capaci di fare la differenza. Come il violoncellista Luca Pincini (nella foto). Lo stesso vale per la cantante italo-turca Yasemin Sannino. Ai tempi della colonna sonora di “Tale of the Mummy“, per corrispondere alle richieste del regista, Russell Mulcahy, desideroso di ottenere dalla musica tre specifici livelli (classico, con l’orchestra e il coro, da adoperare al momento di scoprire la mummia; pop ed elettronico), dopo una breve ricerca ho chiamato il famoso sassofonista jazz Enzo Favata. Un signore sardo, bravissimo anche nei panni di sound design dell’elettronica, che si presentò a Roma, a spese della produzione, con due valigie colme di strumenti tra i più impensabili. Ivi compresi due tubi flessibili lunghi un paio di metri l’uno. Facendoli roteare sopra la testa, mentre lo seguivo con il microfono (sembrava una scena di “Ritorno al futuro” con Marty McFly ed Emmett L. “Doc” Brown), Enzo emise dei suoni assai utili che usai insieme ai contrabbassi.
16). D / La ricerca del suono acquista rimarchevole spicco con questo tipo di prove sperimentali e selettive?
R / Sì. È una specie di selezione naturale. Alcune cose si buttano, altre si tengono. Divenendo preziose per l’esito conclusivo. Mettersi in gioco, anziché cercare il plauso di tutti restando nella confort zone simile a un limbo, consente di conseguire risultati superiori allo standard.
17). D / Per Ennio Morricone (nella foto con Stefano Mainetti), nonostante la miopia di chi l’associa solo a colonne sonore roboanti, l’uso del minimalismo, già caro a Bach, rappresentava una conquista. La poetica della rinuncia consente anche alla musica applicata di conferire una forza significante alle debite micro-variazioni?
R / Morricone s’è cimentato con tutti i tipi di linguaggio. Anche con colonne sonore, come quella di “The Hateful Eight“, in cui di melodia ce n’è poca. Il neo minimalismo ha la sua valenza se applicato con consapevolezza. Fare un uso sparagnino degli strumenti per le scene del film non ha nulla ché vedere con la poetica della rinuncia e il lavoro di sottrazione. Che passano attraverso l’inesausta vena sperimentale di menti eccelse, di conoscenze profonde, di linguaggi complessi. I compositori davvero bravi riescono a levare il superfluo lasciando l’essenziale. Se non si hanno le basi, aggiungere è un esercizio inutile.
18). D / Stefano, ci vuole più personalità o più sensibilità per togliere o aggiungere a seconda dei casi?
R / Massimiliano, la sensibilità è la chiave di volta.
19). D / La stesura a sei mani del libro “Dialoghi, Musica, Effetti: il Suono nell’Audiovisivo” nasce dalla sensibilità di unire fasi di lavorazione e creazione di norma separate?
R / Ho imparato moltissimo collaborando con Gilberto Martinelli e Simone Corelli alla stesura del testo. La registrazione del suono in presa diretta e il missaggio nella sala consolle sono fasi imprescindibili. Quello che sostieni è innegabile: chi lavora nel settore dell’audio cinematografico spesso non comunica con gli esperti che operano nello stesso ambito perché resta chiuso nella propria sfera di competenza. Ciò nonostante questi professionisti s’influenzano l’un l’altro. Scrivere dunque un libro di concetto sulla questione in esame, oltre all’approfondimento delle specifiche materie che può essere interessante sia per lo studente sia per l’appassionato di cinema, spiana la strada ad alcune linee guida. Specie quelle concernenti la figura del sound design. Tenere conto dell’accezione più ampia di disegno del suono stimola, ancor prima che la sete di conoscenza, la sensibilità in merito a questo campo. Che molti ignorano. Come ignorano i vari passaggi. Se le figure professionali rimagono separate, i loro contributi tecnici e artistici rischiano di sovrapporsi. Annullandosi vicendevolmente. È bene quindi compiere nella fase di post produzione una serie di confronti utili sotto l’aspetto pratico. Per arrivare a un esito migliore. Determinato dal fruttuoso connubio di comunicazione e sensibilità.
MASSIMILIANO SERRIELLO