Afghanistan, 2001-2021: venti anni di vergogne
LA ” MARCIA SU KABUL “,
AGOSTO MMXXI, IN AFGHANISTAN
Una analisi di NICCOLO’ LUCARELLI *
Agosto 2021: le scene di panico, di miseria, di sofferenza, di paura, viste all’aeroporto di Kabul, o meglio al di fuori di esso, non possono non toccare le coscienze occidentali. Mentre i soldati del contingente NATO si preparavano a lasciare l’Afghanistan, all’esterno dell’aeroporto di consumava il dramma di un popolo che si è sentito, con piena ragione, tradito e abbandonato.
Sorge quindi spontanea, abbastanza spontanea, una domanda: dov’è il rispetto per quel popolo, e anche per quei militari (ben 3.502, 53 dei quali italiani) che sono caduti nei 20 anni di missione? Dov’è il coraggio di combattere per quella democrazia che a parole tutti, o quasi, i leader occidentali dichiarano di voler difendere?
Esattamente come gli Stati Uniti di Ford nel 1975 evacuando Saigon, adesso gli Stati Uniti di Biden insieme agli alleati NATO e a Paesi esterni, hanno perse credibilità e dignità; in Afghanistan però, è stata una perdita ancora più marcata. Se infatti l’impegno militare in Vietnam, rispondeva a logiche della Guerra Fredda, e quindi di scontro fra due schieramenti ideologici, adesso, almeno sulla carta, si trattava di uno scontro di civiltà: da una parte la democrazia, la laicità dello Stato, i diritti umani, la parità di genere; dall’altra, l’oppressione del fanatismo, che in nome di una fede distorta, nega diritti e proclama un assolutismo di tipo medievale.
Può certamente essere accolto il parallelismo tra la famigerata marcia su Roma del 1922 ed il raid motociclistico su Kabul di 99 anni più tardi; in entrambi i casi, esponenti di un regime dittatoriale hanno voluto dimostrare la loro capacità e determinazione di impadronirsi del centro politico del Paese, con tutte le implicazioni psicologiche del caso.
Sia a Roma nel 1922 sia a Kabul nel 2021, la presa di possesso della città è avvenuta senza quasi sparare un colpo, davanti all’acquiescenza del governo Facta e di Vittorio Emanuele III nel primo caso, e della Missione NATO nel secondo. E anche il parallelismo con Cassibile non è fuori luogo: cercando una paradossale intesa con i Talebani alle spalle del popolo afghano, gli Stati Uniti, dei ex machina della Missione, hanno commesso un’autentica “badogliata” contro quel popolo cui per venti anni hanno fatto credere di avere a cuore la sua libertà.
Forse il problema che sta alla radice dell’indecoroso ritiro delle Forze NATO in Afghanistan è dovuto al fatto che, sin dall’inizio, sin dai primi anni Ottanta, in Occidente non si è capito (o non si è voluto capire) chi era stato scelto come alleato per combattere il comunismo nell’Asia Centrale. L’intervento statunitense nel Paese, infatti, seppur indiretto, risale al 1980, quando l’allora presidente Carter decise di sostenere la resistenza locale all’invasione sovietica del 24 dicembre 1979.
Fu l’ultima battaglia della Guerra Fredda che si trascinò fino al 1989, e i paladini della libertà erano, agli occhi dell’Occidente, quei mujaheddin che poi sarebbero in gran parte diventati Talebani. In pochi avevano intuito il rischio di aver sostenuto con così ampia fiducia, forze paramilitari di cui in fondo non si sapeva molto; fra questi pochi ci fu Mary Kenny, giornalista del Sunday Telegraph che, forse sbagliando nell’appoggiare la causa sovietica, aveva ragione nell’accusare i mujaheddin di opprimere donne e bambini, paventando il pericolo del terrorismo islamico; il giudizio, ad onor del vero, non era applicabile a tutte le fazioni allora in campo, ma era esatto per molte di esse, che poi presero il sopravvento nell’aprile del ‘96. Le sue parole caddero però nel vuoto, anche se i fatti avrebbero dimostrato chi aveva visto giusto e chi no.
Ma all’indomani del ritiro sovietico, finirono anche le relazioni fra mujaheddin e “alleati”, riuniti in una strana coalizione capeggiata dagli Stati Uniti – con Israele, Egitto, Iran, Pakistan, Arabia Saudita – e Francia, tra i Paesi principali.
L’Afghanistan fu lasciato cadere nel baratro della guerra civile. Le forze islamiste poterono lanciare la jihad nel resto del mondo, e il primo attentato contro il World Trade Center nel 1993, seguito da quelli contro le ambasciate statunitensi in Africa nel 1998, il dirottamento del volo AirFrance del 24 dicembre 1994, fecero capire chi erano davvero i mujaheddin. Quei terroristi si erano quasi tutti “formati” in Afghanistan.
Il culmine, in tragici termini di spettacolarità e di numero di vittime, fu raggiunto l’11 settembre 2001. Il 7 ottobre gli Stati Uniti intervennero militarmente in Afghanistan contro il regime talebano, e il 20 dicembre iniziava la Missione ISAF in ambito NATO, seguita nel gennaio 2015 da Resolute Support, terminata nell’agosto 2021.
Venti anni durante i quali si è combattuta una guerra costellata di errori dovuti alla scarsa conoscenza del Paese.
La strategia statunitense in Afghanistan, nonostante avesse ottenuto importanti successi militari già nel dicembre 2001, mancò clamorosamente nel trasformare quei successi nell’opportunità di pacificare il Paese. Non si era capita una cosa: l’Afghanistan era sì la base principale di Al-Qaeda, ma nessun afghano aveva avuto una parte nella strage dell’11 settembre, così come nei precedenti attentati in altri Paesi.
Il fanatismo islamico veniva da fuori, e fu introdotto negli anni della resistenza ai sovietici, dai mujaheddin pakistani, libanesi, algerini, e di altre nazionalità; furono loro, infatti, ad acuire quell’oltranzismo religioso tradizionale già presente in alcune aree, ma che la monarchia laica e parlamentare di Mohammed Zahir Shah era riuscita a tenere sotto controllo fino al 1973, anno del colpo di Stato. Il regime dei Talebani fu quindi confuso con Al-Qaeda, per stessa posteriore ammissione dei vertici politici e militari statunitensi, come riporta anche Craig Whitlock nel suo reportage Dossier Afghanistan.
La guerra al terrorismo si sovrappose quindi, quasi in maniera involontaria, alla guerra contro il regime oppressivo dei Talebani, i quali dopo i pesanti bombardamenti di ottobre-dicembre 2001, erano pronti a trattare con gli USA e partecipare a un processo di riconciliazione nazionale che mettesse fine al caos iniziato nel 1979. Ma i Talebani furono esclusi dalla conferenza di Bonn, che avrebbe sancito l’interimato di Hamid Karzai e la nascita della Repubblica democratica presidenziale. Senza ovviamente giustificare l’approccio teocratico fondamentalista dei Talebani e le violazioni dei diritti umani che da esso scaturiscono, è però un fatto che la loro esclusione dalla conferenza di Bonn abbia causato in loro un profondo risentimento verso gli USA e la coalizione NATO, portandoli a non accettare il processo di democratizzazione imposto dall’alto. Processo che una maggiore lungimiranza diplomatica avrebbe potuto far partire su basi più stabili, tenendo anche presente che la democrazia è un processo che si esporta per gradi, facendo leva sugli strumenti culturali prima ancora che economici o bellici.
Invece, per venti anni, è stato gettato fumo negli occhi all’opinione pubblica mondiale, propagandando progressi militari che in realtà, dal 2002 in poi, furono sempre meno importanti; persino i programmi di assistenza alla popolazione funzionavano male, sia per la cattiva gestione dei fondi, la corruzione e la disorganizzazione, sia perché con i Talebani che riprendevano vigore, l’amministrazione e la popolazione afghane erano costretta a trattare con loro.
Se da un lato si propagandava di lavorare per ricostruire il Paese e la democrazia, dall’altro ne mancavano le capacità. Il fallimento in Afghanistan non è dovuto alla potenza militare talebana, ma all’incompetenza politica statunitense la quale, accorgendosi di non poter più recuperare la situazione, ha preferito intavolare trattative-farsa con i Talebani (non disposti a trattare, ormai ben consci della debolezza occidentale) e poi ha vigliaccamente abbandonato il campo; di conseguenza, anche gli altri Paesi della missione NATO hanno seguito l’esempio.
E il popolo afghano non ha ricevuto una spiegazione, un minimo accenno di scuse, nessuno dei responsabili di questo disastro culturale e umanitario ha pagato di persona, pur avendo sulla coscienza migliaia di morti afghani e del contingente internazionale.
Per costruire e difendere la democrazia servono statisti, non avventurieri della politica o mezze figure come quelle che si sono succedute alla Casa Bianca fra il 2000 e il 2021, favorite però dalla debolezza dell’ONU. Quindi, il fallimento in Afghanistan può essere considerato, a livello morale, una responsabilità del mondo. Sulla pelle di milioni di civili innocenti.
……..E non è da escludere che l’Afghanistan non sia l’ultimo esempio della serie.
Laureatosi in Studi Internazionali, è un valente ricercatore e saggista di Storia Militare presso lo Stato Maggiore dell’Esercito, autore di testi e monografie //
collaboratore con qualificate Riviste di settore.
E’ altresì un apprezzato conferenziere, nonché critico d’arte, di teatro e di jazz, svolgendo attività di curatore indipendente in Italia e all’estero.
Considerando quindi la sua competenza in geo-politica ed in ambito storico-militare, specie nelle vicende collegate all’Afghanistan, ho ritenuto stimolante richiedere un suo parere su tali vicende ed in particolare su alcuni articoli apparsi sulla Consul Press, tra cui uno a mia firma il 29.08.2021, fortemente criticato per alcune analogie da me provocatoriamente e sarcasticamente evidenziate.