Ai margini del Negoziato di Bruxelles per la vita o per la morte della “U.E.”
“Il PAESE di LILLIPUT” e la legge del Fracassi
Torquato Cardilli
Credo che ancor oggi a molti ragazzi di scuola media venga dato da leggere il romanzo scritto da un pastore anglicano irlandese del XVIII secolo, Jonathan Swift, “I viaggi di Gulliver” che sotto l’apparenza di un racconto di avventura di fantasia, in realtà rivolgeva una severa critica alla società.
Gulliver dopo mesi di pericolosa navigazione a causa dell’ennesima tempesta fa naufragio. Si salva e rimane spossato ed esausto sulla spiaggia di una terra ignota, Lilliput. Quando si risveglia si trova circondato da nanetti, i lillipuziani, alti meno di una spanna, che lo hanno legato da capo a piedi impedendogli i movimenti. Solo dopo un giuramento di lealtà Gulliver li convince a slegarlo.
Questa metafora si adatta perfettamente al gigante dell’Unione Europea, bloccato nei movimenti dai nani lillipuziani olandesi aiutati da altri nanetti, che si autodefiniscono “frugali”, e che sono stati invece ribattezzati dalla Polonia come “avari”.
Sono i danesi, gli austriaci, gli svedesi e i finlandesi che, pur prendendo dall’Europa molto di più di quanto versino, con la loro ottusa intransigenza hanno rischiato di far naufragare il sogno di un’Unione solidale.
I vecchi ambasciatori hanno tramandato oralmente la leggenda della legge del Fracassi, dal nome del diplomatico Fracassi Ratti Mentone, secondo cui se i delegati italiani agli albori dei negoziati CEE non avevano ricevuto istruzioni dal Ministero degli Esteri, a prescindere dal merito della questione, dovevano aspettare ad intervenire che parlasse prima l’olandese e poi prendere per l’Italia la posizione diametralmente opposta. La vera formula abbastanza scurrile, ma efficace recitava “per la legge del Fracassi, nel dubbio in c… ai Paesi Bassi”.
Nei negoziati multilaterali si consumano spesso molte nefandezze soprattutto ai danni di delegazioni impreparate che masticano poco le lingue straniere e che si debbono fidare delle traduzioni degli interpreti a volte carenti o generatrici di malintesi.
L’Olanda è stata sempre in grado di seguire una politica coerente, molto attenta da calvinista ai dettagli e ai propri interessi, con delegazioni tecniche preparate, dotate di istruzioni precise e forti del sostegno del proprio paese. Nelle stesse occasioni invece le delegazioni italiane si presentavano impreparate, con scarsa conoscenza dei dossier, senza capire bene la posta in gioco, né l’andamento del negoziato tanto da restare in silenzio o formulare riserve generiche.
I lavori preparatori delle delegazioni tecniche creano i presupposti per soluzioni prese poi a livello politico che possono avere una valenza negativa, duratura nel tempo.
Oggi paghiamo il prezzo delle decisioni politiche penalizzanti come l’accordo sullo SME, quello sui rapporti di cambio sfavorevoli per l’introduzione dell’euro, il trattato di Dublino, la tolleranza del surplus commerciale della Germania, la sperequazione fiscale dei paradisi che ci succhiano risorse, il MES eccetera, tutti frutti della nostra arretratezza politica che non è stata mai capace di avere una posizione indipendente anche dissonante da quella di Francia o Germania o Inghilterra.
Questa attitudine da Italietta è dimostrata anche dal fatto che i nostri Governi, sempre sull’orlo di una crisi, non hanno mai capito l’effetto palcoscenico nelle Organizzazioni internazionali. Incapaci di selezionare i più meritevoli, anziché mirare a ruoli di protagonisti, si sono affannati a chiedere posti in sottordine da addetti al sipario o di tecnici delle luci da regalare a famuli e amici.
Siamo entrati nel mondo del multilinguismo senza la conoscenza di strumenti di base come l‘inglese o il francese, senza la padronanza dei rudimenti di una sana amministrazione pubblica, senza la progettualità necessaria, impreparati alle sfide di partner che sembravano avversari, affidandoci al caso o alla fortuna o a seguire la corrente maggioritaria.
Questo quadro sconfortante è stato anche causato dal ruolo deleterio dell’opposizione che nei paesi ove è vivo il senso dello Stato si unisce in politica estera dietro al leader del momento salvo attaccarlo in casa su temi di politica interna.
La maratona negoziale di Bruxelles sugli strumenti finanziari per rivitalizzare l’economia europea con le trattative protrattesi per quattro giorni sul “Recovery Fund” avrebbe richiesto la massima coesione politica possibile senza distinzioni tra maggioranza ed opposizione per portare a casa il miglior risultato utile al paese.
Viceversa i nostri sovranisti alla Salvini o alla Meloni, amici del leader dell’estrema destra olandese Wilders (invitato sul palco dei loro comizi), che di fronte a Conte ha esibito il cartello con la scritta offensiva “Nemmeno un centesimo all’Italia”, hanno preferito fare di tutto per indebolire il potere negoziale del nostro primo ministro, senza trarre alcun insegnamento, ad esempio, dalla correttezza e senso dello Stato della leader della destra francese Lepen che è praticamente scomparsa dalla scena per non sminuire il potere di Macron.
Anche il mondo dell’informazione ha le sue responsabilità. Nei mesi che hanno preceduto questo negoziato non ha tralasciato occasione per preconizzare la caduta del Governo o per ingrandire i distinguo all’interno della maggioranza, presentandoci agli occhi degli osservatori stranieri come un paese di deboli, rissosi, inconcludenti. Invece di dedicare attenzione alle insidie degli amici-nemici ed a quello che succede nel mondo, i nostri media parlano giornalmente di migranti, di rom, di tangenti, di femminicidi, ma tacciono sulle battaglie per l’avvenire dell’Italia e sulle minacce alla pace e all’economia mondiale portate ora da questo e ora da quell’altro governo o paese.
Ma torniamo al negoziato per la vita o per la morte di Bruxelles.
L’Olanda con le sue ridotte dimensioni territoriali di appena 41.400 kmq., paragonabile per estensione alla Lombardia e al Veneto, è un paese di lillipuziani rispetto alla Germania, alla Francia, all’Italia, alla Spagna. Con 18 milioni di abitanti contro i 450 milioni dell’Unione, con un PIL di 913 mld., quasi la metà di quello italiano, per giunta paradiso fiscale, che contribuisce alle risorse europee con la quota percentuale più bassa in assoluto di 6,8 mld di euro, cioè quasi un quinto del contributo tedesco (32,7 mld) e meno della metà di quello italiano (15,2 mld), si è presa la libertà di ricattare con la minaccia di veto l’intera Unione europea.
Il suo primo ministro Rutte, da un decennio alla guida del governo, profittando dell’altrui debolezza, è riuscito ad attribuire al suo paese un peso specifico sul palcoscenico internazionale (ci ha costretto a condividere il seggio nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU) ed europeo, superiore alle effettive dimensioni e meriti. Confortato da un voto plebiscitario del suo parlamento, ha voluto, con arroganza, centellinare l’entità dell’intervento monetario europeo in favore delle economie disastrate dal Covid ed ha preteso di voler controllare come verranno usati i finanziamenti del Recovery Fund suscitando persino le ire del premier ungherese che accomunandolo al cancelliere austriaco Kurz (vecchia ruggine) lo accusato di irresponsabilità di fronte al caos in cui stava precipitando il vertice dei capi di Stato e di Governo all’orlo del fallimento.
Il presidente del Consiglio Conte non si è fatto intimidire, anzi si è battuto come un leone nell’arena, con un coraggio mai mostrato prima da nessuno dei suoi predecessori, che avrebbe meritato la colonna sonora di Ennio Morricone. Ha rinfacciato a Rutte e a Kurz la miopia di un approccio poco costruttivo, la scarsa consapevolezza sulla crisi epocale che l’Europa sta vivendo e sulla necessità di un’azione pronta ed efficace.
Conte, ha saputo costruire un blocco di alleanza con Germania, Francia, Spagna, Grecia, Portogallo insistendo che per l’Italia la linea del Piave (un’altra vecchia ruggine) era la inaccettabilità del principio dell’unanimità sulle decisioni da adottare invece che a maggioranza qualificata. La pretesa da parte di Rutte e soci del diritto di veto, inaccettabile giuridicamente e politicamente perché avrebbe alterato l’assetto istituzionale europeo invadendo il terreno della Commissione, è stata alla fine messa in un cantuccio.
Superato lo scoglio più pericoloso la battaglia si è spostata sull’entità del sostegno economico alle economie in difficoltà e Conte con un discorso appassionato in omaggio alle troppe vittime del Covid è riuscito ad ottenere più di quello che si prefiggeva. All’Italia sono stati assegnati 82 mld di euro come aiuto a fondo perduto e 127 mld come prestito a 40 anni a condizioni migliori di quelle del MES, che va ricordato era un prestito a 7-10 anni.
Si apre ora al nostro interno un pericoloso capitolo, quello della corretta allocazione ed impiego dei fondi la cui operazione potrà restituirci l’onore messo spesso in discussione oppure confermare lo stereotipo di paese pasticcione, impantanato nei favoritismi clientelari.