Ho letto il recente “La memoria rende liberi”, sofferta testimonianza di Liliana Segre, sopravvissuta, “salvata” avrebbe scritto Primo Levi, alla “soluzione finale” dei campi di concentramento nazisti. Anch’ella, dunque, vittima dell’antisemitismo, della persecuzione razziale, attuata dal Fascismo in modo sistematico, quasi chirurgico contro la piccola comunità ebraica italiana, neppure cinquantamila cittadini, seppur l’esigua consistenza non possa affatto ridimensionare o, addirittura, giustificare oppure negare una tale tragica, vergognosa pagina della nostra storia contemporanea.
Sicuramente una degli ultimi testimoni della Shoah, Liliana Segre ha ripercorso i ricordi della sua terribile esperienza di ragazzina internata ad Auschwitz, affidandoli alla cura narrativa di Enrico Mentana, noto giornalista, attuale direttore del TG7 del gruppo editoriale Cairo. Il libro non si discosta dai tanti altri che raccontano la “soluzione finale” nazista, è la storia incredibile di una ragazza in mezzo al terrore, alla violenza insensata, alla crudeltà del genocidio per la sola colpa di essere nata ebrea e, come tale, ritenuta volutamente “diversa” dal potere imperante. Ho appreso notizie e particolari nuovi, giustamente il libro arricchisce la mia estesa documentazione e altrettanto vasta biblioteca di saggi, testimonianze sul razzismo, l’antisemitismo, le tante persecuzioni nel tempo sino ai nostri giorni.
Ho rilevato, però, un punto, anzi una pagina, la 207, riprodotta a corredo di questo articolo, dove il libro della Segre, a mio parere, maldestramente esce fuor dal seminato e per così dire “stecca”: qui, appunto, la nostra Liliana, pur rilevando il valore della televisione e del cinema nel salvaguardare e protrarre la memoria dell’Olocausto, ne critica certi “elementi romanzeschi”, dicendosene infastidita, perché contrari alla verità storica. Così, il suo giudizio davvero “tranchant” non risparmia la serie televisiva americana “Holocaust” e due celebri film: “Schindler’s list” di Steven Spielberg e “La vita è bella” di Roberto Benigni, due perle della cinematografia mondiale a carattere storico, fra l’altro su un tema ancora oggi tanto dibattuto, attuale quale il razzismo e, in senso più stretto, l’antisemitismo. Due film, premiati con l’Oscar, finiscono nel giudizio pesantemente critico della Segre solo per il fatto di non raccontare davvero la verità storica della Shoah, così come, invece, da lei conosciuta, vissuta e, poi, testimoniata sino ai nostri giorni.
Eppure, non mi sembra che “Schindler’s list” e “La vita è bella” fossero nel loro racconto tanto lontani dalla verità storica, nota e documentata, della persecuzione e della “soluzione finale”! Se la cosa più importante sul piano della continuità storica, quindi della conoscenza e dell’educazione dei giovani, è il mantenimento della memoria della Shoah e di ogni vergogna genocida, che senso ha che la Segre faccia le pulci sul tema della ricostruzione storica? Ho avuto l’impressione che la nostra autrice, quasi presa da una sorta di personale aristocraticismo testimoniale della persecuzione razziale, voglia cercare nell’uovo il pelo della pedanteria storica a scapito di un’agile, continua ricostruzione evidente, credibile e duratura di quanto è avvenuto con l’Olocausto. Forse, Liliana Segre dovrebbe avvedersi che “La memoria rende liberi” se, innanzitutto, continuamente disegnata nei suoi tratti essenziali: i particolari, i dettagli approfondiscono soltanto.
Incautamente, poi, la Segre definisce il film di Benigni falso, pure orribile, addirittura una favola inattendibile perché lontana dalla realtà storica, insomma tutte accuse infondate, campate in aria. In realtà, presa dal suo coinvolgimento di sopravvissuta, le è sfuggito, non so se volutamente, come anche le tragedie dell’umanità, anziché col tono del dolore, possano raccontarsi sublimandole in un tono, uno stato più lieve, magari anche favolistico, che lenisce, ma non dimentica le cause della tragedia, però punta all’ammaestramento umano e morale perché certi tragici avvenimenti mai più si ripetano. Ecco, questo è stato l’intento di Benigni nel suo “La vita è bella” ovvero con la favola, sicuramente assurda, di un padre, una madre e un bambino in un lager richiamare i suoi spettatori al valore del bene, dell’amore contro il male e l’odio. Peccato che Liliana Segre non l’abbia compreso.