Su “Il DUBBIO” di domenica 19 maggio leggiamo “”Tortora il vergognoso abbaglio. In carcere senza prove eppure poi nessuno ha pagato.. Il 18 maggio di trentun anni fa: quel giorno agenzie di stampa, e poi i notiziari radio- televisivi annunciano che Enzo Tortora è morto; il tumore che lo tormenta e lo fa soffrire da mesi, alla fine ha vinto. Fa in tempo, Enzo, a vedersi riconosciuta l’innocenza da anni proclamata: un anno prima la Corte di Cassazione lo ha assolto definitivamente dall’infamante accusa di essere un “cinico mercante di morte”, uno spacciatore di droga, affiliato alla Camorra di Raffaele Cutolo. Si aggrappa alla vita con le unghie e i denti, per poter vedere quel verdetto. Poi arriva lo schianto. “Mi hanno fatto scoppiare una bomba dentro”, dice a proposito di quel tumore, e della vicenda che lo vede vittima- protagonista. Nel corso della requisitoria del primo processo, il Pubblico Ministero sillaba: “Ma lo sapete voi che più si cercavano le prove della sua innocenza, più si trovavano quelle della sua colpevolezza?”.
Chissà che ricerche. Lo stesso Pubblico Ministero, tanti anni dopo, ammette l’errore. Che non può essere liquidato come “errore”, come “abbaglio”. Troppo semplice, troppo facile; perfino consolatorio definirlo un “errore”, un “abbaglio”. In realtà, fin da subito, contro Enzo non c’era nulla; e quel nulla era talmente visibile che anche un cieco lo avrebbe potuto vedere. Non si vide, perché non si volle vedere. Non si capì perché non si volle capire. Contro Tortora non c’era nulla. L’architrave dell’ipotesi accusatoria si regge sulla parola di due falsi pentiti: uno psicopatico, Giovanni Pandico; e Pasquale Barra detto, a ragione, ‘ o animale: in carcere uccide il gangster milanese Francis Turatello, lo sventra, ne addenta le viscere. Poi, a ruota, vengono un’altra ventina di sedicenti “pentiti”: tutti a raccontare balle, una più grande dell’altra, per poter beneficiare dei vantaggi concessi ai “pentiti”. Accuse che con fatica e infinita pazienza vengono smontate: la difesa di Tortora fa una vera e propria contro- inchiesta, che demolisce, letteralmente, l’inchiesta della Procura napoletana.
Una vicenda che ha dell’incredibile per la quale nessuno poi paga: non i falsi “pentiti”; non i Magistrati della pubblica accusa, che anzi, fanno carriera. Tortora invece patisce una lunga carcerazione. Al suo fianco il Partito Radicale di Marco Pannella che lo elegge al Parlamento Europeo ( poi si dimette, rinunciando all’immunità); Leonardo Sciascia, Piero Angela, Indro Montanelli, Enzo Biagi, Giorgio Bocca, Rossana Rossanda, Vittorio Feltri, Massimo Fini, chi scrive; davvero in pochi. Tanti, al contrario, si producono nel crucifige. Se è stata una pagina nera per la Magistratura napoletana, ancora più nera lo è stata per il giornalismo, che acriticamente ha pubblicato pagine e pagine di falsità infamanti, senza controllare, senza verificare. Eppure nulla giustificava quello spettacolare arresto. Anni fa ho intervistato per il Tg2 la figlia di Tortora, Silvia. Intervista che ancora oggi mette i brividi: Chiedo: Quando Tortora venne arrestato, cosa c’era oltre alle dichiarazioni di Pandico e Barra? “Nulla”. Sull’ondata di questo scandalo, radicali, socialisti, liberali, raccolgono le firme per tre referendum per la giustizia giusta; tra i tre, uno per la responsabilità del Magistrato che commette colpa grave. I referendum vengono poi vinti a furor di popolo; e traditi da un Parlamento che disattende platealmente il volere popolare. Ora Tortora riposa al Monumentale di Milano, con accanto una copia de “La colonna infame” di Alessandro Manzoni. Sulla tomba un’epigrafe dettata da Sciascia: “Che non sia un’illusione”. Chissà”“.
Ora un passo indietro, anzi due…anche sull’onda dei ricordi personali…Domenica 30 settembre e lunedì 1 ottobre 2012, in prima serata su Rai Uno, è andato in onda “Il CASO ENZO TORTORA – DOVE ERAVAMO RIMASTI?”, miniserie televisiva in due puntate; una fiction per raccontare la forse dimenticata vicenda giudiziaria di Enzo Tortora, uno dei personaggi televisivi più noti degli anni andati. 17 giugno 1983, Enzo tortora viene arrestato con l’accusa di essere un affiliato del clan camorristico Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo; in quel periodo è conduttore di “Portobello”, il programma di gran successo della Rai. È il caso, è la storia di un arresto inutile, un’istruttoria carnascialesca con i pentiti che concordavano in barba a Magistrati e 007 antimafia le loro dichiarazioni in una stessa struttura protetta dove erano ospitati tutti insieme appassionatamente (..la Caserma dei Carabinieri di Piazza Carità..in quegli anni ero Comandante della Compagnia Napoli Stella, nel quartiere Sanità con giurisdizione sui quartieri più sensibili sotto il profilo della sicurezza pubblica, dalla Sanità a Forcella, passando per San Carlo all’Arena e Borgoloreto (con la Stazione Ferroviaria e l’attiguo Mercato della Duchesca), Secondigliano e il quartiere “167”, oggi denominato Scampia e reso noto dal film “GOMORRA“, per arrivare sino a San Pietro a Patierno. All’ epoca, la zona di Secondigliano era, secondo statistiche specializzate, ritenuta la più “criminogena” d’ Europa, e a ragione; ma tale è certamente rimasta dopo oltre trent’ anni, forse anche di più, superando chissà quale record!..) e dalla quale facevano addirittura telefonate estorsive all’esterno, un processo kafkiano o, meglio, farsa, una condanna ingiusta basata su fatti non dimostrati e, infine, un’assoluzione giusta, meritata, necessaria che avrebbe dovuto costituire un monito per l’intero sistema giudiziario italiano. Durante la fase dibattimentale del processo il numero degli accusatori aumentò e ad incastrare Tortora furono oltre ai camorristi Giovanni Pandico, ritenuto pazzo, Giovanni Melluso, detto “il bello”, soprannome che la dice tutta sulla vacuità del soggetto (recluso e ben sorvegliato nella mia Caserma nella Sanità..Proprio in quel triste periodo fu ucciso dalla camorra il mio valoroso Brigadiere Domenico Celiento..), e Pasquale Barra, detto “O animale”, perché mangiava il cuore degli assassinati, anche altri otto imputati delinquenti plurimi e reiterati, tutti accomunati nello spasmodico desiderio di usufruire dei vantaggi della recente Legge sui pentiti. Le accuse si basavano su un’agendina trovata nell’abitazione di un camorrista, Giovanni Puca, detto “O Giappone”, sulla quale compariva un nome che assomigliava a quello di Tortora con un numero di telefono non corrispondente al suo recapito. In realtà, il nominativo si riferiva ad un tale Tortosa. L’unico contatto tra Pandico e Tortora erano alcune lettere inviate dal detenuto alla redazione di Portobello. Condannato a dieci anni, Tortora non si sottrae alla Giustizia e si fa arrestare, sebbene Parlamentare Europeo. Questa volta, però, le cose vanno in modo diverso; le accuse dei pentiti crollano, cominciano a emergere innumerevoli contraddizioni e nel settembre 1986 la Corte d’Appello di Napoli, con Presidente Di Leo e giudice a latere Mariani (il processo era iniziato il 4 febbraio 1984 agli 834 imputati e si svolse in tre distinti tronconi; al termine dei tre gradi di giudizio si perverrà all’ assoluzione di oltre due terzi degli imputati) lo dichiara non colpevole con formula piena, restituendogli la libertà e la dignità. Probabilmente già malato e sicuramente logorato nell’anima, Tortora torna al suo lavoro e al pubblico di Portobello, che saluterà con quelle parole che hanno lasciato un segno nella memoria degli italiani: “Dunque… dove eravamo rimasti?”. Per chi volesse approfondire le vicende del caso Tortora, suggerisco l’interessante libro di Vittorio Pezzuto, “APPLAUSI E SPUTI. LE DUE VITE DI ENZO TORTORA” (Sperling & Kupfer, 522 pagine, euro 15) ora ripubblicato, da cui è stato tratto il film per la TV. “”Non siamo pazzi, non vogliamo essere screditati a vita” dichiararono il 19 giugno 1983 alla stampa i Magistrati Felice Di Persia e Lucio Di Pietro. Sappiamo tutti com’è andata a finire. Cos’è cambiato, venticinque anni dopo questa storica Caporetto dei ‘pentiti’ e di una parte della Magistratura napoletana che li aveva voluti trasformare in onnipotenti oracoli?
Cos’è cambiato da quel “Non siamo pazzi, non vogliamo essere screditati a vita”? “Poco”, sostiene Vittorio Pezzuto nel suo libro, “soprattutto perché gli inquisitori del caso Tortora non sono stati screditati, sono stati addirittura promossi; Felice Di Persia è diventato membro del Consiglio Superiore della Magistratura (e non basta a consolarci il ricordare che, quando ne presiedeva i lavori, Francesco Cossiga, Capo dello Stato, si rifiutava platealmente di stringergli la mano) nonché Procuratore Capo della Repubblica di Nocera Inferiore, mentre Lucio Di Pietro, che fino a pochi mesi or sono era Procuratore Aggiunto della Direzione Nazionale Antimafia, opera ora quale Procuratore Generale della Repubblica di Salerno; così, Luigi Sansone, il Presidente del Tribunale che condannò in primo grado Tortora a dieci anni di reclusione e a 50 milioni di lire di multa è Presidente della sesta Sezione Penale della Corte Suprema di Cassazione a Roma, come anche è diventato Procuratore Capo del Tribunale di Nocera Inferiore Diego Marmo che, vestendo all’epoca la toga del Pubblico Ministero nel processo di primo grado, urlò un giorno a uno dei difensori di Tortora, nel frattempo eletto Deputato radicale al Parlamento europeo: “Avvocato Coppola, lei deve moderare i termini! Le ricordo che il suo cliente è stato eletto con i voti della camorra. Voi non avete alcun rispetto della vita umana!””.
Concludo: Esempi che provano come, in questa sempre grande Italia, esponenti del settore pubblico operanti nella Magistratura, ma questo è valido anche per molteplici altri ambiti della Pubblica Amministrazione, nessuna esclusa, abbiano continuato a percorrere, con animo libero da preoccupazioni (“serenamente, pacatamente” direbbe Veltroni;”sobriamente”, Monti), la strada che li conduce in alto, molto in alto, magari con gli applausi dei “lieto pensanti” sino alla meritata pensione, certi come sono che gli errori eventualmente commessi nell’esercizio delle loro funzioni non possano in alcun modo minacciare la progressione di una fortunata pilotata carriera… Dobbiamo anche sostenere, per tornare all’ambito giustizia, come prima trattato, che a nulla è servito il voto degli italiani al referendum radicale che nel 1987 proponeva la responsabilità civile del Magistrato in caso di colpa grave; infatti, qualche mese dopo, il Parlamento ha varato una legge tuttora in vigore che ammette il risarcimento solo in casi eccezionali e comunque a carico non del Giudice ma dello Stato, quindi a spese nostre…Domanda: DOVE ERAVAMO RIMASTI?..DOVE ANDREMO A FINIRE..? Avendo prima ricordato il mio valoroso Brigadiere Domenico Celiento sento il dovere in Sua memoria e per rispetto ai Suoi familiari ricordarlo.. Su mia disposizione conduceva indagini sulle estorsioni nel quartiere Sanità, e in tale contesto oltremodo difficile per il clima di omertà, aveva proceduto in appena tre mesi all’arresto di ben dieci delinquenti, mentre già si delineava il coinvolgimento di elementi di spicco del clan camorristico dominante di Forcella. Di carattere generoso ed espansivo, ma diffidente e riservato nelle cose di lavoro, sorretto da valida preparazione professionale ed animato dai migliori sentimenti di attaccamento al dovere, lavorava senza guardare l’orologio, mai sottraendosi ai servizi più gravosi e pericolosi; parlava solo e giustamente con il suo Capitano…. Non passò molto tempo, purtroppo, che si arrivò a quel maledetto 28 aprile 1983, quando di prima mattina sulla Circonvallazione di Casoria ci fu l’ agguato al valoroso Sottufficiale. Due autovetture, con killer a bordo, lo fermarono per colpirlo a morte; morte che sopravvenne il giorno dopo all’ Ospedale Nuovo Pellegrini, per la sua forte fibra…
articolo del Generale Vacca già pubblicato su Attualità.it a seguito di un intervento apparso su Il Dubbio