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Autore: Massimiliano Serriello

LA CASA STA STRETTA AD AUTISTICI E AD ALTRI DISABILI GRAVI

IL MONDO DELLA DISABILITÀ NELL’ERA DEL CORONAVIRUS: TRA FRAGRANZA DI VITA ED EMPITI DI EMOZIONI

La casa sta stretta agli autistici. Si sapeva anche prima che scoppiasse una guerra inopinata e memorabile, come ogni conflitto, con l’atroce nemico che gira nell’aria, come mai è accaduto prima, mietendo vittime con un’empietà capace di ridurre al silenzio, almeno lì per lì, gli eserciti implacabili, irregolari di ridicoli “saputoni”. Lo ignorano ancor oggi solo ed esclusivamente le persone che badano – sotto sotto – al proprio orticello e basta, fingendo – male – interesse per le tribolazioni altrui. Chi, tradendo lo spirito dell’arguto Enzo Jannaci, sostiene che preferisce vivere sano e morire malato anziché vivere malato e morire sano.
Chi, pur ostentando quarti di nobiltà e una vasta conoscenza delle cose, offende, oltre alla propria intelligenza, ammesso che ce ne sia una davvero fulgida e prodiga di ragionamenti proficui, soprattutto l’ordine naturale delle cose. A cosa serve disquisire di arte ed economia, di politica e filosofia, dei massimi sistemi, dietro cui si cela la paura di conseguire i minimi risultati, se viene prosciugata l’umanità insieme al valore dell’umorismo? Oltre agli autistici, ci sono altri disabili gravi nelle stesse condizioni. L’avvenire di queste meravigliose creature, in quanto tali esse sono tutte, belle e brutte, lontano anni luce dalle azzardate ed empie banalità scintillanti della propaganda, è, a dir poco, molto incerto.

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A colloquio con Debora Scalzo sulla sicurezza, l’informazione e la giustizia

IL MIX DI CUORE E CERVELLO DI UNA DONNA CHE RENDE GIUSTIZIA ALLE FORZE DELL’ORDINE

Una conversazione con Massimiliano Serriello

Chi usa, citando Jim Morrison, le scorciatoie del cervello può evitare di emettere sentenze senza neppure conoscerla: Debora Scalzo (nella foto) non mette le mani avanti; al posto del livellamento ugualitario, che ha fatto più danni della grandine sovvertendo i diritti in valori e viceversa, antepone La livella di Totò. Contraddistinta dalla capacità di riuscire ad appaiare all’aura contemplativa la fragranza della saggezza popolare. Estranea agli intellettuali avvezzi alle elucubrazioni teoriche. Incapaci di andare oltre lo scoglio dei partiti presi.

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GLI APPALTI E L’INTOPPO DELLA GRANCASSA

IL MARE MAGNUM DELLA BUROCRAZIA IN UN SISTEMA ECONOMICO PRIVO DI TERZIETÀ

La deontologia d’ogni divulgatore impone l’applicazione del concetto di terzietà per lo svelamento della giustezza dei fatti in conformità col termine greco aletheia. Nell’epoca delle nuove tecnologie l’informazione concede molte banalità. Il codice etico impone lo stesso l’equidistanza dalla mancanza di credibilità dei partiti presi.

Indro Montanelli (nella foto) ha lasciato questa valle di lacrime preservando il valore terapeutico dell’umorismo mentre prendeva piede un peso informativo intento a dare la medesima rilevanza agli eventi di pubblica utilità e alle notizie trascurabili. I cronisti del nulla  conoscono poco o niente le storture che affliggono l’economia autoctona.

Tuttavia anche quando non c’era traccia dei blogger, volti ad anteporre le questioni di lana caprina a quelle rilevanti, lo Stato era già definito un Ciclope che, oltre a vedere unicamente i soldi da riscuotere dagli imprenditori  rei di consegnare in ritardo il lavoro commissionato, aveva una gru per prendere e un moncarello per restituire i soldi indebitamente percepiti. I laudatores tempores acti dell’epoca di Orazio che vedono belle solo le cose successe anni addietro, si mettano il cuore in pace: la conditio sine qua non di autonomia dalle parti in causa è sempre stata una chimera.

Anziché ubriacarsi di fantasticherie, o distrarsi con dabbenaggini, occorre ricordare che in greco l’economia sottintende la gestione di un consorzio domestico. Occuparsi delle cose di casa propria è quindi irrinunciabile. Assai più importante del diritto alla ricerca della felicità contemplato da Thomas Jefferson nella dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America: siamo in Italia, con una storia ultramillenaria dietro le spalle. La consapevolezza che gli yankee per rimpinguare la propria esperienza, cominciata la sera del 4 luglio 1776, hanno preso ispirazione dall’assennatezza degli antichi greci per amministrare al meglio  l’òikos (od οκος; οκοι al plurale) dovrebbe costituire oggetto di riflessione. Invece sembra che la maggiore tendenza di punta attuale, a dispetto dei convegni indetti per sviscerare l’interazione tra tecnologia ed economia connessa a bitcoin e blockchain, sia il risparmio, oltre che di gas e luce, anche, di materia grigia. La connotazione dell’economia sul versante pubblico/privato nel Bel Paese snuda, se si spremono le meningi, i guasti dell’instabile piattaforma autoctona che avalla fandonie e rende perplessi persino i filosofi ottimisti. Figuriamoci gli scrupolosi periti del settore impossibilitati dalla crudezza oggettiva ad azzardare ipotesi ottimistiche.

L’aura contemplativa, che per Alberto Moravia caratterizzava la poesia, risiede nell’egemonia dell’imprevedibilità sul calcolo. Alieno ai voli pindarici. All’atto pratico il sangue freddo è però utile ai divulgatori muniti di coscienza e attributi per analizzare le criticità del codice degli appalti e delle penali applicate per il ritardo nell’esecuzione delle opere unite ad accordi scritti privi della lealtà di una sana stretta di mano.  

Il rapporto tra diritto ed economia va preso con le pinze. La deontologia del giornalista invita alla prudenza. A cercare, al posto delle chiacchiere da caffè, dei dati incontrovertibili. Il pensiero di Montanelli sull’etica dell’informazione coglie ancor oggi nel segno: «È una parola (la deontologia) che non evita gli errori. Ma evita le distorsioni maliziose quando non addirittura malvagie, le furbe strumentalizzazioni, le discipline di fazione. Gli onesti sono refrattari alle opinioni di schieramento e alle mobilitazioni ideologiche. Non è che siano indifferenti all’ideologia, e insensibili alla necessità di scegliere con chi e contro chi stare. Ma queste considerazioni non prevalgono mai sull’autonomia di giudizio. Un giornalista che si attenga a questa regoletta potrà sbagliare, ma da galantuomo. Gli sbagli generosi devono essere riparati, ma non macchiano chi li compie. Sono gli altri sbagli, gli sbagli del servilismo e del carrierismo – che poi sbagli non sono, ma intenzionali stilettate – quelli che sporcano».

Le discipline di settore dei servizi a beneficio della collettività, nel momento in cui l’espletamento di gare con procedura ad evidenza pubblica si va ad appaiare, sia pure sotto banco, alle discipline di fazione, mandando a carte quarantotto i pistolotti sulla trasparenza, compiono sbagli in buona fede o sono frutto delle ipocrite intenzioni stilettate?

L’arguto giornalista toscano, nel trarre linfa dal consiglio di un saggio collega statunitense («Scrivi in modo che ti possa leggere un lattaio dell’Ohio»), seppe dire pane al pane e vino al vino.

L’abitudine a fare due pesi e due misure a discapito altresì dell’idonea distinzione tra attività di gestione ed erogazione nell’ambito delle sinergie pubbliche/private rappresenta l’ennesimo calcio negli stinchi per le PMI. I problemi di applicabilità sono la punta dell’iceberg nell’ambito della scadenza delle concessioni e degli affidamenti. L’esigua durata di tali proroghe impedisce alla gente di buona volontà d’inserire la lettura del codice degli appalti fra i grandi classici. Da Dante Alighieri a Giovanni Verga.

La tendenza a servirsi di fronzoli od orpelli a dir poco pleonastici obbliga il divulgatore che si sente legato alle prescrizioni etiche a segnalare l’impasse in termini inequivocabili tutelando i destinatari optimum: i lettori. Molti dei quali appartengono alle piccole e medie imprese che costituiscono la spina dorsale della nostra penisola. Tormentata, a onor del vero, ora come ora, da un cronico mal di schiena. A esacerbarne il dolore al groppone provvedono l’afflitto passaggio dalla teoria alla prassi, e quindi dalle ciance ai fatti, ai danni del principio del favor partecipationis alle gare degli appalti. La facilitazione, promossa dalla direttiva del Parlamento Europeo, per la partecipazione delle PMI agli appalti pubblici, non ha trovato concrete soluzioni di continuità né un riscontro effettivo nell’intrinseca ed eterna legge di causa ed effetto.

Il compianto consigliere di Stato Eugenio Mele (nella foto), autore di trecentocinquanta pubblicazioni scientifiche, avvezzo alle dotte citazioni in latino, cultore dell’amministrazione della ‘casa’ degli antichi greci, alla base dell’accertamento dell’economia nella sua accezione più ampia ed emblematica, spiegò in diversi casi che l’oggetto escluso illecitamente dalla partecipazione a una gara pubblica andava comunque garantito.

I trattamenti superficiali ed esornativi per un verso, invece, e gli eccessi di zelo dall’altro esercitano un’influenza estremamente negativa sulla legittima eventualità di monitorare le committenze ed eludere in tal modo l’iniqua ed esorbitante imposizione dell’empio potere d’acquisto.

Mele, redigendo il testo Manuale del diritto amministrativo, anche senza entrare nel vivo della questione, mise i puntini sulle “i”: «Non tutte le controversie sono devolvibili ad arbitri, ma solo quelle che radicano il loro presupposto in diritti disponibili dalle parti stesse, vale a dire in quei diritti che, non essendo collegati a interessi pubblici, ma solo alla sfera delle parti medesime, siano da queste rinunciabili, transigibili ed ergo compromettibili per arbitri. Non sono, al contrario, mai devolvibili ad arbitri le controversie fra private e pubbliche amministrazioni attinenti a vicende connesse con gare pubbliche».

Per spiegare la situazione al lattaio di Albanella, senza dare adito ad alcun fraintendimento, il punto è che essere terzi ed estranei agli interessi dell’una e dell’altra parte diviene un antidoto all’Ubi Maior Minor Cessat intento a favorire nella revisione dei prezzi la contrattualistica pubblica.

Ed è una vessazione che grida vendetta al cielo. Nondimeno, a sentire spiritualisti ed esistenzialisti, dall’abisso, come da paradisi ed empirei celesti, nessuno replica in maniera chiara ai soprassalti d’indignazione.

Appare perciò giusto tenere in considerazione l’assennatezza dell’adagio In medio stat virtus. Se è vero che vanno prese le distanze dalle impuntature fanatiche (basti pensare al detenuto politico Braccio, impersonato da Claudio Amendola nel film d’impegno civile La mia generazione di Wilma Labate, che dinanzi all’atteggiamento amichevole di un comune ladro nei confronti dell’esponente delle forze dell’ordine lo incalza tagliando la verità con l’accetta: «Ti fidi di lui? Ma non lo vedi che è un carabiniere? Non lo vedi che è lo Stato? Ti fidi dello Stato?»), un’autentica analisi critica non trascura il «giusto processo» atto ad assicurare sul serio la limpidezza, il bilanciamento, l’obiettività e l’emancipazione di valutazione del giudice in qualsiasi controversia.

La terzietà è un pallino del coriaceo imprenditore Salvatore Pala (nella foto ai tempi in cui era presidente della Società Sportiva Brindisi Football Club),  titolare della Cogei Ambiente S.r.l. che conosce da vicino – in virtù dell’esperienza cinquantennale nel settore –  le condizioni a cui viene sottoposto l’aggiudicatario dalle strategie basate sugli abusi di ufficio.

È una sorta di Montanelli con la testardaggine tipica dei sardi e la costante impertinenza di chi sa stemperare l’atavica diffidenza tanto nelle battute di spirito, frammiste al pungente sarcasmo, quanto nella cristallina umanità. Il suo pensiero va dritto al punto: «L’elenco delle cose che scarseggiano in quest’ambito è pressoché infinito. Se ne esponessi tutti i punti, uno per uno, faremmo notte. Per le piccole e medie imprese partecipare alle gare di appalti pubblici equivale ad andare sotto processo. Manca la terzietà nella fase ex post, in caso di ricorso. La posizione d’incondizionato distacco ed effettiva equidistanza dalle parti contendenti esiste solo in teoria. Alla prova dei fatti se da una parte c’è una PMI e dall’altra c’è lo Stato, prevale la forza della prevenzione ai danni del più debole. E anche arrivarci alla fase ex post, sborsando i soldi per il diritto al ricorso, il ché di per sé è assurdo, perché non bisognerebbe pagare per un diritto, è tutt’altro che semplice. I problemi sorgono a monte. Per una PMI nell’ambito di un contratto di appalto con un Comune, al fine di portare a termine nel migliore dei modi la raccolta differenziata, l’affidamento è arduo. Specie se in tali vesti, nella fase ex ante, prima di cominciare, l’impresa palesa le inefficienze dovute alla superficialità del Comune stesso. Comunicando le problematiche a chi detiene il contratto di appalto. Si dice che chi ben comincia, è a metà dell’opera. In questo caso la l’incombenza volge all’inverso. Eppure gli ordinamenti ci sarebbero. Basti pensare all’articolo 1460 del Codice civile che taglia la testa al toro anche per quanto riguarda la faccenda degli inadempimenti. Il principio per cui ciascuna delle parti coinvolte, siano esse un Comune, una ditta che detiene il contratto di appalto, quella che ha il contratto di affidamento, può non adempiere alla propria obbligazione, se l’altra si rifiuta di adempiere a quella che gli spetta, è vigente persino nel diritto internazionale. La lezione degli antichi romani d’altronde è lampante: inadimplenti non est adimplendum. La clausola solve et repete obbliga un contraente ad adempiere con puntualità e in seconda battuta ad agire contro l’altra parte se questa è inadempiente. Invece funziona che chi ha il coltello dalla parte del manico pretende il rispetto delle regole a proprio favore senza rispettarle secondo l’equanime par conditio».

Per l’alacre co-branding, specie nel campo della moda, il piccolo unito col grande, fosse anche un colosso, che non vuole assorbirlo e spersonalizzarlo, ricava il riscontro ideale per far breccia negli acquirenti rinsaldando così la propria incontestabile ed empatica raison d’être.

Il piccolo sale sul carro dei vincitori? Oppure contagia in modo positivo con la sua freschezza e vivacità il socio possente ma a corto d’idee? I consorzi sciolgono i nodi alla corda dovuti alle mere mire individualistiche?

I marchi di ricerca sia nella moda sia nel design sono comunque sinergici.

I servizi di pubblica utilità, al contrario, che hanno tra l’altro un’urgenza differente, non possono attingere alle risorse sul piano operativo del co-marketing. La collaborazione tra attori diversi, individuabili nelle ditte che possiedono il contratto di appalto e quello di affidamento, necessita d’interventi di semplificazione davvero decisi. Non certo aleatori.

La risposta a tale necessità del Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale Luigi Di Maio sembra orientata ad appalti a chilometro zero: «Dobbiamo rendere accessibile alle piccole e medie imprese la partecipazione alle gare ed evitare che rimangano coinvolte solamente nei subappalti.  Circa 30 miliardi che le Amministrazioni Pubbliche devono alle imprese fornitrici con ritardi che, spesso, causano il fallimento delle imprese stesse. Gli imprenditori hanno diritto a fare impresa in modo semplice ed essere trattati come imprenditori e non come compilatori di scartoffie o come mucche da mungere. Vogliamo semplificare non aggiungendo nuove norme ma rendendo più agili le norme esistenti anche attraverso la predisposizione di testi unici e abolendo quelle inutili valorizzando, tra l’altro, l’uso delle tecnologie informatiche. Semplificare serve, anche, ad estirpare l’illegalità che, da sempre, si annida dove non si riesce ad avere un quadro chiaro delle regole e delle responsabilità».

Le stime stabilite dalle ricerche compiute dall’Università  Tor Vergata di Roma insieme alla Columbia University e la London School of Economic, tornando alla sinergia del Vecchio Continente col Nuovo Mondo, saltano il fosso. Le chiacchiere, come si suol dire nella Città Eterna, stanno a zero: gli sprechi nel codice degli appalti sono causati per il 13% dalle infiltrazioni illegali, che è giusto contrastare (ci mancherebbe!), e per l’87% dall’incompetenza degli amministratori affezionati sia ai regimi vincolistici sia alle intenzioni stilettate.

L’inefficienza dell’Amministrazione fa sì che gli enti locali, nel momento in cui il mancato adempimento da parte del Comune di competenza porta alla mancata consegna dell’ecocentro e delle attrezzature di proprietà dello stesso Comune, divengono responsabilità dei soggetti scelti con la gara a evidenza pubblica. Quindi l’onere passa alla ditta che detiene l’appalto e da questa a chi ha il contratto di affidamento.

La legge ufficiosa dei forti coi deboli e dei deboli coi forti, in chiave contrattuale, è da pernacchie. Totò ed Eduardo De Filippo ne conoscevano l’arte e non la mettevano da parte. Dovrebbe essere accantonata casomai l’abitudine a usare la lotta alla corruzione come mezzo giustificatorio e sbaragliante: le richieste di risarcimento rilevano la penuria della terzietà. Benché costituzionalmente garantita dall’Articolo 111 della Costituzione. A meno ché per «giusto processo» non s’intenda qualcos’altro. L’e-procurement, tornando alle nuove tecnologie che nell’ambito dell’informazione hanno fatto più danni della grandine, viene indicato dall’ANAC (Autorità nazionale anticorruzione) alla stregua della soluzione per non stipare più pezzi di carta e snellire dunque le norme burocratiche. Vanno sentite però tutti i diretti interessati, cercando giudici soggetti unicamente alla Legge, e non allo Stato, per stabilire con assoluta certezza se ciò corrisponde a verità.

«La natura unilaterale del titolo concessorio di affidamento del servizio pubblico è contrapposta al carattere nazionale dell’appalto» ricorda il professor Carlo Pacella (nella foto), esperto di strumenti giuridico-legislativi, organizzativi, culturali ed economici. Il carattere surrogatorio dell’attività svolta dal concessionario di pubblico servizio, che deve portare a termine le incombenze istituzionali dell’ente concedente, merita attenzione tanto quanto la quota di spesa per l’acquisto di beni e servizi dell’amministrazione rappresentata dallo Stato. Chiarire gli aspetti legati ai contratti di appalto e di affidamento, per differenziare l’attività dell’impresa concessionaria, serve anche ai fini della corretta informazione sulle imprese titolari di compositi rapporti contrattuali.

Il public procurement non va confuso con l’e-Procurement.  I distinguo in tal caso sono necessari. Non solo per mettere in luce gli aspetti peculiari dell’appalto di servizi e della concessione di servizi pubblici. Bensì anche per scansare gli strumenti di condizionamento andando, invece, incontro ai princìpi di un’informazione supportata dalle giuste verifiche. In antitesi al dilagare delle notizie parziali, tendenziose e opportuniste.

La best pratice individuata nel Portogallo per accertare gli impatti dell’e-Procurement, con la rapidità di accesso alle informazioni grazie ai dati riguardanti le piattaforme telematiche, lascia perplessi: è comprovato che i sistemi interni dell’ERP (Enterprise resource planning) necessitino di un’ulteriore messa a punto. I vantaggi percepiti dalle PMI tralignano perciò in altri acquisti, lungaggini, accumulo di materiale, sia pure telematico, e competenze esorbitanti. L’accessibilità delle PMI agli appalti pubblici, senza sentirsi sotto processo, pur avendo la coscienza a posto, resta una questione spinosa e, per molti versi, irrisolta.

La presentazione delle carte in regola è una bella gatta da pelare. L’obiettivo dell’e-Procurement di accompagnare le PMI nel codice degli appalti cede il passo ad altre realtà. Più amare. Le banalità scintillanti non riescono a ridisegnare nuovi quadri di riferimento, ad articolare procedure migliori, a definire i servizi con classificazioni efficaci. In grado di distinguere quelli condizionati sin dall’inizio da riduzioni delle capacità lavorative.

Nel Mare Magnum della burocrazia il diritto al ricorso paga lo scotto ad alcune incongruenze che appaiono, ancor prima che irritanti, avvezze alla comicità involontaria. Eppure chiarire, oltre alla visione mercantilistica del Consiglio di Stato, le contese divise dalla Corta di Cassazione tra giurisdizione burocratica e ordinaria, che si tratti sia di an debeautur (per la revisione dei prezzi) sia quantum debeatur (ossia la somma da corrispondere), non ha nulla di terroristico.

Il consiglio che un giudice abituato alla terzietà dovrebbe dare allo Stato è di rispettare le scelte delle piccole e medie imprese. Mettere i soldi nel salvadanaio a forma di porcellino ha permesso infatti agli italiani di evitare di fare la mesta fine della Grecia.

La pacata ed energica Tiziana Alterio (nella foto), che ha scritto con il collega giornalista Franco Fracassi, alieno alle bufale o fake news che dir si voglia, il libro di denuncia Colpo di stato, definisce l’organizzazione intergovernativa del MES (Meccanismo europeo di stabilità) un’estorsione “legalizzata” ai danni dei risparmiatori italiani.

Prendersi i soldi delle piccole e medie imprese, imponendo assurde percentuali obbligatorie, con le penali per il ritardo nell’esecuzione delle prestazioni contrattuali dipeso dall’eccesso di potere, sin dall’avvio dell’appalto, oltre ché dal rifiuto di produrre la documentazione necessaria, dalle mancate comunicazioni in sede di gara, dalle condizioni inaccettabili per lavorare come si deve, equivale alla stessa cosa.

Carlo Pacella in Management delle amministrazioni pubbliche e public private partnership pone laccento su questioni cruciali in tal senso: «La modalità di remunerazione dell’operatore è, come nel caso della concessione di lavori, l’elemento che permette di stabilire l’assunzione del rischio di gestione. La concessione di servizi, inoltre, riguarda di solito attività che, per la loro natura, l’oggetto e le norme che la disciplinano, possono rientrare nella sfera di responsabilità dello Stato ed essere oggetto di diritti esclusivi o speciali».

Saltare subito alle conclusioni – in merito ai diritti esclusivi, all’interesse pubblico “primario” perseguito dalle amministrazioni con la gru per prendere e il moncarello per dare, alla quota di spesa destinata ai Ciclopi, alla concessione dei servizi, agli uffici tecnici dei Comuni manchevoli – è un errore. Significa adoperare le scorciatoie del cervello. La forza discreta lontana del trionfalismo dell’arma dei carabinieri ci mette la faccia per difendere lo Stato, subendo torti anche più gravi di quelli commessi ai danni delle piccole e medie imprese. I diritti violati non gridano vendetta. Ma vanno segnalati. La partecipazione a un numero rilevante di gare per le PMI senza santi in paradiso implica dispendi di fosforo, specifiche e terzietà. Senza aspettare il sopraggiungere della terza età: i risparmi d’una vita mordono il freno e trascendono l’ovvio spirito di parte.

MASSIMILIANO SERRIELLO

A colloquio con Marco Castrichella sui film rari ed empatici

LA CINEFILIA DELL’ESPONENTE DELL’HOME VIDEO CHE ANTEPONE L’AUTORIALITÀ AI DIKTAT COMMERCIALI

Una conversazione con Massimiliano Serriello

È l’ultimo dei mohicani, per certi versi, dell’home video. L’esclusiva sui film d’autore trae partito dalla cinefilia. Che spinge gli appassionati a trascorrere buona parte della giovinezza nel buio della sala. Talvolta senza vederle le pellicole, quelle di grana grossa almeno, preferendo di gran lunga le effusioni romantiche col favore propizio della solenne oscurità. Come i ragazzi pieni di ormoni e ironia del tenero cult movie per adolescenti Il tempo delle mele. Ma le opere capaci di anteporre la forza significante del carattere d’ingegno creativo alla solita solfa, zeppa d’infecondi segni d’ammicco, hanno incantato Marco Castrichella (nella foto).

Dopo aver conseguito la maturità, l’idea di svolgere la professione del ragioniere non gli passava nemmeno per l’anticamera del cervello. «Due più due fa sempre quattro, ma quanto sarebbe bello se almeno per una volte facesse cinque». La possibilità di far tornare i conti motu proprio, sulla falsariga del fulgido concetto di poesia caldeggiato da Fëdor Dostoevskij, mica Franco er Buiaccaro, era tutta un’altra camminata. Marco sul finire degli anni Settanta indossava le giacche con le frange e il chiodo con le borchie. Le spillette degli amati gruppi rock erano l’ornamento ideale per lo schott nero, simile a quello di Marlon Brando nell’inobliabile apologo sulla ribellione giovanile Il selvaggio (nella foto).

Sebbene assai meno nerboruto dell’atletico divo americano, dal fascino animalesco caro alle platee muliebri, Castrichella aveva altrettanta fiducia in se stesso. Quando incontrò la sua futura moglie, Barbara Frangi, col cognome affine al look della camicia, fedele alla tendenza di punta delle giacche floreali, dei gilet glamour, dei pull bon ton, dei foularini e degli immancabili jeans a zampa di elefante, le vide indosso una spilla con un uomo che suonava il sax. Prima di chiederle lumi sul misterioso gruppo musicale in questione, si accorse che era l’effigie di New York New York con Robert De Niro in bella mostra (nella foto con Liza Minnelli).

Intelligenti pacua. Contemporaneamente alle frecce di Cupido, scattò pure la molla in grado di riuscire ad appaiare, una tantum, cuore e cervello.  Pazienza se lei, a digiuno della cultura musicale allora in voga, andava a ballare al Supersonic e che l’allusione della trasmissione “Dischi a Mach-2” alla velocità del suono fosse inconcepibile per i puri ‘rocketari’ militanti che seguivano a ogni piè sospinto l’evoluzione del sottogenere dell’heavy metal promosso dal gruppo degli Scorpions  (nella foto).  Con gli hit Wind Of Change e Still Loving You sugli scudi.

Si erano promessi eterno amore: il tempo per convertirla in quell’ambito non mancava. L’affinità elettiva, coltivata quando, oltre ad applaudire a comando negli studi televisivi per racimolare i soldi necessari alle visioni al Cineclub Tevere, sognavano a occhi aperti guardando i manifesti cinematografici utilizzati a scopo pubblicitario, servì da pungolo.  Uno sprone fuori del comune. Specie se si pensa che quei manifesti, una volta utilizzati, erano destinati al macero. Barbara Frangi vendeva in una bancarella di Piazza Navona proiettori e filmini in super 8. Il cinema era una sorta di baby sitter; la sala sembrava sin dai primi vagiti l’estensione del soggiorno domestico. Aggiungere i manifesti al catalogo diede frutti incredibili perché l’idea di svoltare in tal modo i soldi per acquisire un’abitazione tutta per loro, suggerita dal cervello, andava di pari passo con le ragioni del cuore. E, si sa, al cuore non si comanda.

Aprire il negozio per la vendita dei manifesti, chiamandolo Hollywood in omaggio al cinema underground sorto sull’esempio dei film in controtendenza concepiti dal poeta lituano Jonas Mekas fondando la rivista “Film culture” e realizzati dall’attore/regista americano John Cassavetes, grazie alla spinta delle nobili origini greche, ha cambiato la vita a entrambi. Scaldandogli il cuore, nutrendogli l’anima. Tra pochi anni ci saranno sia le nozze d’argento della coppia sia del reciproco covo “Hollywood – Tutto sul cinema”. Contraddistinto dal logo attinto all’immagine di De Niro che cammina nel marciapiede della giungla metropolitana newyorchese in Taxi Driver (nella foto).

L’immenso Bob a casa Frangi/Castrichella se la comanda, come si suol dire nell’Urbe. Altro che Un uomo da marciapiede! Anche se pure quel titolo del regista inglese John Schlesinger fa parte del catalogo nel ritrovo in via Monserrato, a un tiro di schioppo da Campo dei Fiori, per appassionati decisi a reperire qualche gioiellino negletto della Settima Arte. Ovviamente un posto d’onore è riservato a Quentin Tarantino che con il nostalgico ed emozionante dramedy C’era una volta a… Hollywood ha estratto conigli dal cilindro tanto sul terreno della cinefilia quanto su quello dell’adorata musica. Con tutti i pezzi da novanta riuniti all’unisono. Da Otis Redding ad Aretha Franklin.

Quantunque l’opinione del sottoscritto sull’ultima fatica di Tarantino, che sottobanco ha voluto esibire l’ormai arcinota egemonia del cinema di serie b sull’alta qualità, differisca, perché rispettiamo le idee l’uno dell’altro, senza talora però condividerle, la ventata d’aria fresca dei diversi richiami citazionistici trascende lo scoglio dell’adagio latino Quot capita, tot sententiae. A Marco non interessa che l’anarcoide Quentin ponga sul medesimo livello Jean-Luc Godard ed Enzo Girolami Castellari. È un suo ex collega che mischia il sacro col profano, che spiazza, zompando di palo in frasca; però ha le idee molto chiare. Quentin Tarantino al rental stor “Video Archives” situato a Manhattan Beach si è regolato in un modo. Lui, a via Moserrato, lo fa in un altro. Il suo.

Quando un autore di belle speranze non si conferma, preferendo uno stile di presa immediata all’aura contemplativa alla base degli stilemi della poesia, Marco guarda oltre. «Non ti curar di loro, ma guarda e passa» diceva, infatti, Virgilio al sommo poeta Dante ne La Divina Commedia. Castrichella ha quello che gli esperti di educazione fisica chiamano un valido delta. Nella corsa c’è chi dapprincipio lo supera. Tuttavia a lungo andare lui rimane intatto. A differenza degli altri che perdono colpi o si fermano del tutto. È successo con il franchise di Blockbuster. All’inizio degli anni Novanta l’attacco più pesante fu sferrato da “Paese Sera” con l’uscita delle videocassette legate al giornale. Di lì a poco il noto quotidiano politico “L’Unità”. La categoria del videonoleggio s’indignò. Ma, citando Serpico, Tarantino docet, sembrava una persona avvolta nella plastica che tirava pugni da tutte le parti senza riuscire a venirne fuori. Ora la concorrenza sleale che imperava nelle edicole, con l’iva esente, sta per volgere a conclusione.

Il mix di passione ed erudizione, all’insegna della cinefilia, invece prosegue. Perdersi nei ricordi costituisce una tentazione irresistibile.  Tra i suoi clienti storici c’è stato Carlo Verdone. Il socio numero 8 acquistò a “Hollywood – Tutto sul cinema” le catene borchiate per interpretare il ‘comparsaro metallaro’ Oscar Pettinari di Troppo forte. Barbara e Marco hanno chiamato l’ultimogenito Bernardo. L’autore di Ultimo tango a Parigi, poco prima di lasciare questa valle di lacrime, passava a salutare Castrichella a via Monserrato. Strappandogli un sorriso. Sebbene fosse impossibilitato a scendere dall’autombile. Le grandi anime dei poeti sono fatte in questo modo. Garbato, ironico, tenero ed empatico. E il padre di Bernardo Bertolucci, Attilio, era un fior di poeta. Buon sangue non mente.

Castrichella, comunque, guarda soprattutto al presente. Sole, il lungometraggio d’esordio del figlio di Alberto Sironi, celebre regista scomparso lo scorso luglio, balzato agli onori della cronaca con la serie tv dedicata al commissario Montalbano, gli è piaciuto tantissimo. Apprezza Carlo Sironi sin dai tempi dei suoi cortometraggi. Sofia in testa. L’autore in erba, figlio d’arte con le ali ai piedi e l’entusiasmo del cinephile, gli vuole bene. Amor con amor si paga, chi con amor non paga degno di amar non è. L’inarrivabile argutezza del Petrarca va a braccetto con la fragranza della sincerità:  Marco Castrichella è degno di amare ed essere amato.

Joker di Todd Philips, al contrario, non l’ha amato. A differenza dell’inseparabile consorte Barbara Frangi che, tra il serio e il faceto, lo esorta a non fare lo ‘schicchignoso’. Al film del momento vuole bene solo perché è il manifesto più venduto del 2019. Ma la scalinata del Bronx dalla quale lo Joker impersonato dal pur bravo Joaquin Phoenix scende a passi di danza sta per lui a quella di Odessa dell’ineguagliabile La corazzata Potëmkin come Alvaro Vitali sta ad Alberto Sordi. Come Vanilla Sky di Cameron Crowe sta a Mulholland Drive di David Lynch.

Sebbene facciamo fatica entrambi a pronunciarne il nome, concordiamo nel ritenere più interessanti i film non usciti dell’intelligente ed ermetico regista thailandese Apichatpong Weerasethakul dell’unico presente in commercio. Lo zio Boonmee. Comunque interessante. L’impasse dei film usciti in dvd e non in vhs Marco lo supera regalando un apposito lettore di videocassette ai clienti nostalgici che vogliono sopperire alle lacune della distribuzione. Le ingiustizie nell’humus della cinefilia che gridano vendetta al cielo le stempera nell’ironia. Anche se l’amore per l’autorialità lo prende sul serio. Fa parte della sua vita. Sotto alcuni aspetti, è la sua vita. 

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SIAMO TUTTI FIGLI DI MARIO VERDONE

LO STUDIOSO DI CINEMA CHE HA CONIUGATO LA RICERCATEZZA AL CARATTERE DI PRESA IMMEDIATA

Alberto Moravia (nella foto) riteneva inutile sprecare troppe parole in merito al successo di pubblico della commedia all’italiana. Nella sua rubrica di cinefilia sulle pagine del settimanale L’Espresso, dinanzi all’implicito diniego dei lettori che gli chiedevano perché promuovesse ad ampio oggetto di analisi la cifra stilistica degli astrusi film d’autori ignorati dalle masse anziché recensire quelli visti da tutti, lo scrittore capitolino rilevò l’impasse del filone autoctono. Nato sulla scorta della commedia dell’arte, trasmessa di bottega in bottega sino ad approdare al Pantheon della fabbrica dei sogni come versione satirica del Neorealismo. Amato dalla critica ma bocciato al botteghino.

Il Tempo resta, tuttavia, un giudice più assennato di qualunque teorico schiavo dell’impressionismo soggettivo. L’allarmismo creato dal Coronavirus, con plotoni di cinesi muniti di mascherina per la bocca che marciano per le strade dell’Urbe spingendo i cittadini romani a cambiare bruscamente direzione, genera cortocircuiti esilaranti nel tran tran giornaliero. Sul versante del ridicolo involontario intento ad amalgamarsi, anziché nei discussi rigurgiti di xenofobia, ai tratti di schietta umanità presenti in ogni persona perbene. Impreziosita dalla magia del quotidiano, sostenuta dai maestri neorealisti, insieme al sapido valore terapeutico dell’umorismo ed ergo dell’idonea naturalezza. Che, fuori da qualsivoglia facezia, nutre stima per la dignità palesata da una razza aliena alla tendenza all’iperbole. 

Lo sa bene Carlo Verdone (nella foto). Al punto da chiudere il malin-comico affresco sul mondo dello spettacolo cabarettistico C’era un cinese in coma  sulla scorta della capacità di far ridere amaramente e di far riflettere ironicamente gli spettatori sul sempiterno gioco degli equivoci. Connessi, sia in prassi sia in spirito, allo scoglio delle prevenzioni. Messe alla berlina dalla sana consapevolezza che la vita stessa è un palco foriero di colpi di scena talora bizzarri. Che nulla tolgono alla simpatia e al sostegno che non bisogna mai far mancare a un popolo tenuto alla larga dagli ignoranti convinti di dovergli cedere, oltre al lavoro, altresì la salute. Carlo sapeva che erano tutte ‘pinzillacchere’ sin da quando ad appena dieci anni si recò per la prima volta con il padre Mario a Cinecittà. Capì immediatamente di essere figlio di un uomo importante. Ciò nondimeno ha voluto seguire un proprio percorso per porre in risalto il ridicolo involontario che alberga anche nelle pose maggiormente austere e discriminatorie. Ritenute impermeabili agli immancabili sfottò.  A pochi giorni dalla settimana Fashion di Milano, con la Campagna Nazionale della Moda Italiana che lancia la campagna «China We Are With You», in quanto «è meglio creare ponti invece di alzare i muri», gli eredi dell’arguta commedia all’italiana ci ricordano che non esiste solidarietà più efficace della sapienza umoristica. 

«Siamo tutti Verdoniani» sostiene l’attrice Mavina Graziani (nella foto). Una ragazza solare, dalla battuta pronta, innamorata della famiglia, del premuroso sposo, dei dolci ed energici figli e della psicotecnica allo scopo di ricavare linfa dalla sfera delle emozioni, spesso custodite nei meandri dell’inconscio, per aderire alle dinamiche interiori dei personaggi interpretati. Ed è una schietta attestazione di stima, estranea agli elogi a buon mercato, per l’alfiere sempre sul pezzo della commedia all’italiana. 

Per gli studiosi di cinema, affezionati ai film d’essai bocciati dalla miope censura del mercato, il padre putativo è invece Mario Verdone. Chiunque svolga con competenza ed entusiasmo il mestiere del critico, definito ai tempi  «ingrato e poco noto» da François Truffaut, capofila dei Giovani Turchi della Nouvelle Vague, si ritiene idealmente suo figlio. Non ce ne vogliano i legittimi eredi. Carlo, Luca e Silvia Verdone.

La nascita della Storia e Critica del Cinema come disciplina accademica l’ha visto in prima fila, con Luigi Chiarini, per portare la materia della Settima Arte, liquidata al pari di una robaccia per saltimbanchi dai fautori del teatro, nei posti invece che contavano davvero. La netta impronta impressa in questa fondamentale inversione di tendenza da Mario Verdone (nella foto) ha permesso ai CUC (Centri Universitari Cinematografici) di compiere passi da giganti nel campo delle attività istituzionali  e culturali. Colpevoli, tuttavia, a lungo andare, per motivi d’improntitudine fine a se stessa, di eclissare il sistema della critica. Anteponendogli l’analisi accademica.

Ed è lì che il valore dell’umorismo, trasmesso con prodiga soluzione di continuità al sangue del suo sangue, è giunto in soccorso di Mario Verdone. Nato povero e avverso, perciò, alle distinzioni di comodo della gente con la puzza sotto al naso cui sfuggiva l’evidenza della realtà oggettiva. Il suo obiettivo, a differenza della stragrande maggioranza dei critici d’oggi giorno, era quello di porre in risalto le qualità nascoste di opere d’arte prive di sponsor. Senza santi in paradiso. Nei circuiti alternativi le avrebbero viste solo le persone accreditate, i vice, gli indefessi subalterni delle firme prestigiose e le boriose conventicole condizionate dalle infruttifere discipline di fazione. Il regista portoghese Manoel De Oliveira ha impiegato un’eternità per arrivare alla sala commerciale. Accrescendo con l’approdo pur posticipato le prospettive di fruitori in perenne lotta con i congiuntivi, avvezzi alla bassa densità lessicale, a corto di letture sostanziose, ma capaci, se adeguatamente stimolati, di afferrare il virtuosistico ed emblematico rapporto tra immagine e immaginazione.

Non ne occorreva poi tanta per accorgersi della marcia in più del talentuoso De Oliveira (nella foto con Mario Verdone) dietro la macchina da presa. Quando finalmente i suoi capolavori, in grado di conciliare gli stilemi del cinema da camera con echi multiformi, sono giunti nei circuiti commerciali, ad appannaggio di tutti, invece di restare al servizio delle discussioni sui massimi sistemi dei soliti quattro gatti, Mario gli ha detto tra il serio e il faceto: «Ci siamo fatti vecchi. Adesso però comincia la tua seconda giovinezza». Manoel ha vissuto sino alla veneranda età di 106 anni. Da quel momento in poi, fino a quando ha coniugato l’esistenza all’imperfetto, i suoi capolavori, contraddistinti dall’inusitata interazione tra slancio moderno ed estro sempiterno, sono usciti regolarmente nelle sale. L’ultracentenario, riconoscendo nell’amico italiano «qualcosa di autentico, conoscitore di cinema, generoso e umano», ha sdoganato, de facto, la critica dalla perenne accusa di parassitismo.

Ed è stato soprattutto nell’ambito professionale un critico cinematografico ben lungi dal cercare domicilio, come si suol dire, nelle case altrui. Il suo recapito ha ispirato al figlio Carlo il libro autobiografico La casa sopra i portici (nella foto). Che lo stesso Verdone considera il film più importante della propria carriera. Mario fece le cose estremamente sul serio, anche nel prestare i servigi di ‘espertone’ alla Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia. Carlo, sin dai primi vagiti, di contro, sviluppò una propensione per gli scherzi. Arrivando a fingersi un pittore futurista indignato dall’esclusione nell’ultimo saggio accademico ad opera del riverito docente. Divenuto paonazzo per la rabbia. Finì a parolacce. Il padre ebbe modo, comunque, di rendere pan per focaccia. Nell’ambito di un’intervista a due – in occasione dell’uscita in sala di Al lupo, al lupo – gli fece credere di giudicare involutivo il cammino compiuto valutandolo un guitto. Una volta compreso lo scherzo, tirando l’equanime sospiro di sollievo, il figlio tese la mano al genitore. Esimio professore e, al contempo, imprevedibile burlone: lui c’era caduto con tutte le scarpe. 

«Vorrei poter un giorno

 

morire senza morte

 

sotto le cascate bianche

 

che vita infusero alle mie mani

 

per visi e corpi e forme alate

 

che non amerò più»

 

«Scrive astratto, questo!» Così liquida la poesia, scritta dall’ingombrante capostipite, Carlo Verdone nel ruolo del dejay di Al lupo, al lupo. Avvezzo alle forme-bandiera del romanesco canzonatorio. Anche se intimamente risentito nei riguardi del padre dalle pretese difficili da tradurre in pratica. Sarà la sorella, incarnata da Francesca Neri, a capire, grazie all’acume della sensibilità muliebre, dove voleva andare a parare con quei versi ermetici ed empatici. I richiami d’ordine autobiografico alla realtà vanno oltre gli stretti confini in cui opera qualunque elucubrazione teorica. Mario Verdone conferiva nelle argomentazioni dei suoi articoli una base concreta. Andando dritto al sodo. A dispetto della conoscenza enciclopedica del cinema e delle altre sei arti maggiori, non amava i ghirigori. Ancor meno i fronzoli e gli orpelli. Nel confronto docente/discente, però, preferiva anteporre la carota al bastone. Anche se arrivò persino a bocciare lo stesso Carlo perché non seppe proferire verbo su Georg Wilhelm Pabst. Bisognava dare l’esempio: l’espressionismo tedesco non era una passeggiata di salute ma la musa per antonomasia di Pabst, Louise Brooks, ispirando Guido Crepax nella realizzazione dell’icona erotica Valentina, riuscì ad assicurare all’atmosfera decadente e alle ragioni d’inquietudine connesse alla psicanalisi lo charme indistruttibile dei profili di Venere. Con un look, ancor adesso, tutt’altro che sorpassato. Hai voglia, allora, a sussurrargli, in alternativa, i nomi riveriti di Ingmar Bergman e Federico FelliniMario Verdone non fu tenero nemmeno con i registi eletti ad autori dai colleghi miscredenti. Se avevano bisogno di confidare in qualcosa che non fosse l’Onnipotente, attribuendo intenzioni mai passate per la testa degli idolatrati cineasti, era solo ed esclusivamente un problema loro. 

Apostrofato come un “teppista” per aver insistito nell’esibire particolari raccapriccianti nel cult Il silenzio, colmo nondimeno anche di soprassalti visionari alla Fellini appunto ed eloquenti scene madri, da preferire al vacuo frastuono dell’enfasi di maniera onde comprendere meglio l’approssimarsi dell’incomunicabilità nelle ore del trapasso, Bergman per lui non era un intoccabile. Mario Verdone ne apprezzò in ogni caso i colpi d’ala conferiti al mix di sogno e realtà. Lodandolo per il viaggio dei ricordi compiuto dal mesto luminare al crepuscolo ne Il posto delle fragole. Col regista spagnolo Luis Buñuel (nella foto) aveva più intesa. Senza, per questo, esimersi dal muovergli, di quando in quando, qualche appunto. Il timbro surreale e l’humour, che dispensava secondo i casi, necessitavano, nel processo di creazione, dello stimolo giusto. Dispositio ed elocutio rimanevano i suoi strumenti preferiti in tal senso. Al pari della saggezza popolare. Dispensata realmente a piene mani.

Al contrario degli arroganti teorici, all’oscuro dei valori tecnici del cinema, bollati con l’appellativo di tecnicismi per celare l’ignoranza in materia, Mario (nella foto in cabina di regìa) conosceva a menadito il significato delle correzioni di fuoco, dei raccordi di montaggio, degli scavalcamenti di campo, fondamentali per l’apprezzatissimo Yasujirō Ozu, delle dissolvenze, degli stacchi, della luce contrapposta al buio. Sapeva scrivere con la luce. Lo dimostrò appieno dirigendo il documentario Immagini Popolari Siciliane. La registrazione nuda e cruda degli algidi eventi gli sarebbe sembrata il trionfo dell’effimero se non avesse padroneggiato così tanto gli apostrofati tecnicismi al servizio della geografia emozionale. Una disciplina ufficiosa nel Bel Paese. Quantunque legata a filo doppio all’anima dei territori promossi a location.

Il tavolo dello studio, stipato di carte e testi d’ogni tipo, era il suo campo di battaglia. Ci passava diverse ore al giorno. Ad approfondire questioni date per scontate dai seguaci delle scorciatoie del cervello. La materia grigia gli piaceva tenerla all’erta. Con l’adorata moglie (con lui nella foto da giovani) l’univa, oltre al sentimento piegato ma non abbattuto dalla precoce dipartita della consorte, la passione per il teatro e l’egemonia del buon vivere sul bel vivere. L’estetica resta una cosa ben diversa dall’estetismo. Il Futurismo effettivamente gli stava a cuore esortandolo a far uscire dall’anonimato con le sue dotte argomentazioni molteplici pittori ridotti, se non alla fame vera e propria, se non altro all’appetito.

Mentre i soliti tromboni lisciavano il pelo dal verso giusto a Bergman, per poi sprecare gli improperi contro le commediole impersonate da Totò, il re dei poveri senza basi culturali a parer loro, Mario Verdone si accorse subito dell’inarrivabile maestria del Principe De Curtis. «Un guaglione che si scopre gentiluomo». La gesticolazione dell’immenso benché incompreso fuoriclasse della recitazione, che ha ispirato la black dance (nelle foto il raffronto con Michael Jackson), costituiva la ciliegina sulla torta. Lo specchio dell’anima apparteneva al mento a forma di spatola, agli occhi enormi, a un gioco fisionomico che costituiva tanto un atto d’avanguardia futurista quanto un inno all’assennatezza plebea.  


 

«Io so a memoria la miseria, e la miseria è il copione della vera comicità. Non si può far ridere, se non si conoscono bene il dolore, la fame, il freddo, l’amore senza speranza… e la vergogna dei pantaloni sfondati, il desiderio di un caffelatte, la prepotenza esosa degli impresari, la cattiveria del pubblico senza educazione. Insomma non si può essere un vero attore comico senza aver fatto la guerra con la vita».

Alla medesima stregua di Totò, pure Mario Verdone fece la guerra con la vita. Per prenderne congedo con la pacata sagacia dei filosofi trasparenti. Consci che, in veste d’inesausti divulgatori, hanno dato lustro a una nobile missione. Privilegiando la scoperta dell’alterità, dei film mostrati in pidocchietti negletti, rispetto alle stroncature sistematiche. Il legame cominciato in tenerissima età con Siena, proseguito da adulto con Roma Caput Mundi,  ha scandito i momenti lieti. L’Accademia locale – dove Carlo ha girato la scena di Al lupo, al lupo in cui lo squillo del cellulare squarcia l’austerità della nota intima – l’ha accolto da trionfatore. Ma al di là dei titoli onorifici, nonché degli allori di sicuro effetto per i seguaci dell’infecondo ossequio, conforme ai maramaldi del sabato sera, forti coi deboli e deboli coi forti, Mario Verdone è stato soprattutto una persona alla mano. Andava ai musei, alle mostre, giocava a pallone coi figli al Circo Massimo, scattava in piedi nel pieno del climax dei film-western, si reggeva la pancia dal gran ridere per i frizzi e i lazzi di Jerry Lewis alla prese con le vivaci distrofie mimetiche.

Ha esercitato lo strumento del giudizio critico per unire. Non per distruggere: per segnalare. Invece di prevaricare o ambire ad avere la medesima influenza di una sentenza della Corte di Cassazione. La ricercatezza non era un mezzo per negare il diritto di esistere a un’opera e accettare quella meritevole in club per pochi eletti. Era, piuttosto, sinonimo di perseveranza, d’impegno, di passione per mettere una forma di scrittura creativa ed emozionante al servizio della scoperta di opere degne d’encomio. Finite nel dimenticatoio a causa di una cieca indifferenza. Le battaglie pro o contro questo o quell’autore non gli facevano né caldo né freddo. La guerra, ripetita iuvant, l’aveva già fatta con la vita. Di fronte al laconico Gian Maria Volenté replicò: “Mi ha visto una volta, non mi rivede più”. L’attore comprese l’antifona affrettandosi a salutarlo con calore e reverenza. Bastava esibire l’orgoglioso decoro dei critici che non lustrano le scarpe nemmeno a Sir Laurence Olivier. Un gioco da ragazzi per chi ebbe l’ardire di celebrare l’unica lode dedicata alla spazzatura: Santa immondizia.

La convinzione radicata in Moravia, per il timore di una deminutio capitis acuita dall’occuparsi di qualcosa di stretta competenza del sociologo, va quindi a farsi friggere. Con tutto il rispetto dovuto a una mente ricca d’ingegno. Ma col timore di perdere colpi, ed ergo autorevolezza, pencolando verso opere ree di suscitare grasse risate. Nei tratti linguistici, nella bassa densità lessicale, nelle battute sovraesposte, nelle distorsioni dei sentimenti della commedia all’italiana persiste un nitore poetico composto di elementi con carne e sangue. Altro che esanimi. Non è vero che il pubblico preferisce quello che non c’è e non esiste. Casomai sono gli intellettuali autoreferenziali ad apprezzare i trattati elitari per sentirsi superiori alle masse. L’attenzione riposta invece da Mario Verdone nei confronti dei testi filmici, dispiegati tenendo conto sia della componente filologica sia del carattere di presa immediata, ha afferrato l’aura contemplativa mandando a carte quarantotto lo scarso interesse riposto nell’umorismo dai presuntuosi guardiani della qualità e della poesia. Across the Universe di Julie Taymor fu l’ultimo film che il papà di Carlo Verdone vide prima di lasciare questa valle di lacrime. Lo chiamò per condividere l’entusiasmo trasmessogli da un’opera trascinante, genuina, zeppa di canzone dei Beatles, in possesso degli slanci dell’arte, allergica agli snobismi. Privilegiò, come sempre, l’emozione al rigore scientifico. Il calore alla freddezza. L’ironia, di chi sa prendere l’ordine naturale delle cose con somma filosofia, alla supponenza. Ed è proprio vero: siamo tutti figli di Mario Verdone.

MASSIMILIANO SERRIELLO

Una data da ricordare senza guerre tra fantasmi

IL GIORNO DEL RICORDO BUSSA ALLA COSCIENZA DELL’ONESTÀ INTELLETTUALE

«Quando comincia una guerra la prima vittima è sempre la verità. Quando la guerra finisce le bugie dei vinti sono smascherate, quelle dei vincitori diventano Storia».

L’aforisma del compianto giornalista ligure Arrigo Petacco (nella foto) coglie in flagrante i seguaci dell’ipocrita livellamento ugualitario che, con buona pace dei princìpi propugnati a ogni piè sospinto, vanno in escandescenze dinanzi al ritegno di equiparare Norma Cossetto ad Anna Frank. Il martirio della giovane istriana, violentata e ingoiata dalla Madre Terra che non volle rinnegare a causa dell’ondata d’impressionante ferocia degli aguzzini titini, non vale nulla, agli occhi degli imperterriti faziosi ottenebrati dalle ragioni di partito, rispetto all’atroce sofferenza dell’adolescente ebrea tedesca. Vittima dell’inesorabile Terzo Reich.

L’onestà intellettuale, alla base del codice deontologico di qualsivoglia divulgatore deciso ad anteporre il concetto di aletheia all’impasse degli schieramenti ideologici, ha il sacrosanto dovere di censurare l’inesausta guerra tra spettri. Non per fare pari e patta, come si dice a Roma. Ma per assicurare la priorità allo svelamento della benedetta verità. Anziché all’arcinota attitudine di portarsi l’acqua al proprio mulino, a costo di negare l’evidenza.

Ad Arrigo Petacco, autore d’innumerevoli pubblicazioni incluso il libro L’Esodo, lo rimpiangono, oltre agli aderenti all’onorevole egemonia dello spirito sulla materia, scudo tuttavia talora degli impulsivi soverchiatori, anche i degni rifugiati che, come sostiene giustamente Dino Messina, scelsero di essere italiani due volte.

Inorridirsi di fronte ad abominevoli slogan sulla Shoa, che condannano gli artefici a corto di cuore e materia grigia alle fiamme dell’inferno, per poi sghignazzare con indegna lestezza sul tiro al piccione ai danni della salma dello schietto scrittore Giampaolo Pansa (nella foto) non ha alcun senso. A meno ché non si voglia conferire un nobile avallo alla smania di trascinare la coperta tutta da un lato. Qualcosa resta sempre scoperto. 

Talora il gap prevede il dolore autentico di gente estranea ai cali di personalità, in merito agli slanci sensibili che tralignano o in cieca indifferenza o, ancor peggio, in compiaciuta empietà. Con tanti cari saluti ai pistolotti sui migliori angeli dell’indole umana caldeggiati dagli epigoni smemorati del 16º presidente degli Stati Uniti Abraham Lincoln.

Sulla medesima stregua della Civiltà, l’attaccamento ai vincoli di sangue e di suolo non c’entra nulla con le banalità scintillanti della scaltra ed ergo menzognera propaganda. Lo prova la solennità civile rappresentata oggi dal Giorno del Ricordo. Per tenere bene a mente, a caratteri di fuoco, il rispetto che si deve ai testimoni della fede in quei vincoli. Il rispetto per i pacifici individui finiti negli inghiottitoi, dovuti all’erosione dell’acqua sulla roccia. Trasformati nel punto di orrida raccolta di vittime neglette. Negate per anni e anni.

Comunque al di là delle immancabili polemiche, nella piena consapevolezza che Pansa, considerato un voltagabbana dagli equilibristi intenti a rivoltare la frittata, è morto nel calduccio del suo letto, invece di coniugare l’esistenza all’imperfetto in un campo di concentramento nazista o nei lager di Tito, è meglio spegnere il fuoco degli eterni battibecchi. Continuare ad alimentarlo è un tragico paradosso. L’ennesimo.

Quando, a distanza di due primavere dall’abbattimento del Muro di Berlino, in coincidenza con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, Francesco Cossiga (nella foto), allora Presidente della Repubblica Italiana, attraversò il confine con la Jugoslavia, creato dal Trattato di Parigi al termine delle crudeli ostilità, per inginocchiarsi nei pressi della foiba di Basovizza, l’atto di pentimento fu ritenuto uno sconfinamento.

Quando Pansa nel libro La notte dei fuochi mise in risalto le ragioni dei vinti ai tempi del biennio rosso, seguito dal Ventennio mussoliniano in trionfo con la marcia su Roma, le maggiori testate scrissero che tornava a indagare legittimamente su un passato che rischiava di divenire la premessa del presente. Che era capace di rivedere il Novecento e le ragioni degli altri con la fulgida virtù dell’obiettività. 

Con l’uscita poi del controverso best seller Il sangue dei vinti, apriti cielo! Gli attacchi aprioristici a Pansa, senza leggere nemmeno una riga della sua debita fatica letteraria, sono piovuti ‘a manetta’. La voce degli sconfitti in quel caso doveva restare silente per i gendarmi della Memoria, alfieri fino a poco prima della libertà d’espressione.

Piero Fassino si distaccò dall’acefalo schieramento compatto per spendere parole doverose, quantunque inopinate, e rendere così onore alla necessità d’illuminare gli angoli bui della Storia chiedendo idealmente venia. Il lungo tempo del silenzio cedeva dunque il passo al rilascio della medaglia commemorativa ai parenti delle vittime occultate a Istria, a Fiume, in Dalmazia. Sull’onda di una violenza pianificata. Cui seguì l’Esodo giuliano dalmata.

Adesso il revisionismo, il negazionismo, il giustificazionismo, che considera le azioni d’infoibamento per opera dei titini la ‘giusta’ reazione ai soprusi perpetrati in precedenza dagli “ustascia” capitanati dall’autocrate Ante Pavelicn e al tradimento dei “domobranzi”, i ragazzi di leva schierati per il tricolore nostrano, servono a poco. C’è qualcosa che ha molto più rilevo della conta dei caduti, delle opinioni discordanti sulla resistenza civile, sul concetto di tradimento agli occhi di coloro che abbracciarono le armi contro lo straniero, per il giuramento di fedeltà al re, per mettere fine ai progetti di sterminio d’ambo le correnti. La riflessione implica l’uso del cervello. La carica di pietas chiama, viceversa, in causa il cuore.

La visione del documentario This Is My Land… Hebron ha spinto i reazionari lineari ad alzarsi dalle poltrone del cinema con un soprassalto di sdegno nei riguardi dei prevaricatori rei di vantarsi dell’omicidio di Cristo per intimidire gli indesiderati palestinesi. Il giusto riguardo lo merita altresì il docu-film For Sama incentrato sull’atto d’amore compiuto da una madre, attraverso la registrazione nuda e cruda della guerra in Siria, per la figlia nata ad Aleppo sotto l’assedio d’uno Tsunami di fuoco. L’addio ai luoghi dell’anima penetra nel cuore di chiunque lo abbia quell’organo. Sopravvalutato e sottovalutato secondo i casi.

Chi non sente nessuna pietas per la gente – fascista, antifascista, cattolica, atea, di destra, di sinistra, agnostica – costretta ad abbandonare il suolo natìo, affrontando un viaggio nel Bel Paese fatto d’infinite ed empie umiliazioni, è chiamato, con un monito alieno alle repliche puerili, dalla coscienza, ammesso ve ne sia una nell’intimo dei negazionisti, a togliersi il cappello, a metterselo sul petto, a chinare il capo. Nel ricordo delle spoglie, spacciate inizialmente per detriti chimici dagli alfieri del depistaggio e dell’orrido occultamento indefesso, recuperate dall’impressionante inghiottitoio situato presso l’Albona d’Istria a Vines (nella foto).

I cinefili rammenteranno l’atipico western Soldier Blue di Ralph Nelson. È d’altronde pressoché impossibile togliersi dalla testa e dal cuore il momento in cui Candice Bergen (nella foto), con in braccio una creatura squartata durante l’attacco dei sanguinari cavalleggeri del Colorado all’inerme villaggio Cheyenne a Sand Creek, grida al coscritto che aveva commemorato i caduti al termine di un previo assalto indiano: «Adesso non la reciti più la poesia, soldato blu?!». 

Ed è questo il punto. Per comprendere l’oscillazione della sensibilità orientata ai partiti presi. A differenza del regista Maximiliano Hernando Bruno (nella foto), estraneo alle pretese di legittimazione dei delitti commessi tanto in nome della Civiltà quanto in quello della Patria, che ha realizzato lo splendido Red Land – Rosso d’Istria per onorare la Memoria di Norma Cossetto.

L’accoglienza ricevuta a La Spezia lo ha ripagato sul piano in primis morale ed etico della campagna d’odio costruita altrove per lordare l’uscita in sala del film d’impegno. Prodotto senza l’erogazione del Ministero dei Beni culturali.

Il ricordo della firma del contraddittorio Trattato di pace che ha costretto gli esuli di Pola, capoluogo dell’Istria, ad affrontare la manifesta avversione dei compatrioti italiani, lasciandosi alle spalle una città esanime, necessita d’un Omero sobrio ed essenziale. Per riflettere sul destino degli esuli in partenza, in fuga, in viaggio con la morte nel cuore, sotto la neve, sui negozi coi sigilli, sulle finestre chiuse a Parenzo, a Rovigno e ad Albona. Sulla montagna di sedie messe una sopra l’altra (nella foto).

Né va passato sotto silenzio il treno della vergogna, col convoglio preso a sassate a Bologna e il latte per le creature a bordo versato sui binari. E così la caserma  “Ugo Botti” a La Spezia adibita per decenni ad abitazione ai limiti dell’assurdo per gli esuli istriani sgraditi. Meno che mai si può ignorare il barbaro modus operandi col quale mogli, figli, genitori di presunti collaborazionisti, ma finanche partigiani restii a prestare giuramento alla dittatura di Tito, furono disposti a ridosso delle foibe. Con i polsi legati dietro la schiena. Congiunti gli uni agli altri col fil di ferro. In attesa del colpo di pistola indirizzato alla prima fila. E i restanti destinati a precipitare nel baratro in preda a un’indescrivibile agonia.  

Gli esuli sgraditi però a lungo andare sono divenuti graditi in quel di La Spezia. La mamma di Andrea Manco (nella foto), originaria di Pola, una volta fuori dalla caserma, inseritasi in una comunità in grado di fare ammenda, non volle rovinare al figlio il sogno tricolore all’epoca della vittoria della Nazionale di calcio nei Campionati Mondiali del 1982. Crescendo avrebbe appreso la verità segreta sulle foibe, sull’Esodo, sui disguidi delle sensibilità coi cali di personalità, su una Storia celata sui banchi di scuola. Allora voleva che la sua creatura gioisse come tutti gli altri bimbi inebriati dal successo patrio. Ricordate La vita è bella di Roberto Benigni? È un regalo il tenero trucco, a fin di bene, che solo un genitore può fare per il sangue del suo sangue.

Oggi, nel Giorno del Ricordo, a La Spezia, Andrea, in veste di Delegato Provinciale dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, ha reso onore a quei vincoli di sangue e di suolo. Che non hanno bisogno dell’arma dell’aggressione, della reazione, della polemica, della giustificazione. Perché hanno dalla loro la fragranza della Verità. L’antidoto migliore ai miasmi dell’ipocrisia.

E se le persone con la sensibilità che va a corrente alternata si fossero frattanto rimesse il cappello in testa, sbadigliando con indifferenza, se lo ritogliessero cospargendosi il capo di cenere. È l’onestà intellettuale, non certo il sottoscritto o altri, a imporglielo bussando alla loro coscienza senza unghie né tantomeno nocche. Bensì con la linearità dell’anima. Per non dimenticare. Né oggi né mai. A Dio piacendo.

MASSIMILIANO SERRIELLO