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Autore: Massimiliano Serriello

A colloquio con Federico Tocci sugli sprazzi di talento della recitazione

IL CIGLIO ASCIUTTO DI UN ATTORE DALLA MOLE MASSICCIA E DALLO SGUARDO CERBIATTESCO

Una conversazione con Massimiliano Serriello

L’intenso contrasto tra la stazza massiccia e l’introversione degli indugi permette a Federico Tocci di andare oltre il limite dei ruoli fissi destinati ai meri caratteristi. All’attore romano, incline, per ragioni di sangue e di suolo, all’acume mordace del vernacolo capitolino, che scorge nello storico disincanto una sorta di cinismo bonario, la densità testuale, conforme ai ruoli più impegnativi, piace. Eccome. È nelle sue corde, d’altronde. Insieme al dono dell’autoironia e alla capacità di trarre linfa dagli insegnamenti appresi sia nella cosiddetta università della strada sia nell’opportuno e inesausto studio della psicotecnica. Senza mai dare per scontate le incombenze di chi deve sudare sette camicie con la regìa per riuscire ad annettere gli slanci imprevisti ma proficui della poiesis, cara ai filosofi, all’indispensabile praxis costituita dalle componenti tecniche.

L’esordio dietro l’ardua macchina  da presa del collega e amico Marco Bocci (nella foto), che lo ha ribattezzato teneramente zio Thor, costituisce la prova dell’umiltà necessaria a favorire, alla superbia delle scene lusinghiere e all’esca del numero di pose fine a se stesse, la sostanza dell’indicativo lavoro di sottrazione. 

L’opera prima, A Tor Bella Monaca non piove mai, lo trova prontissimo nel ruolo di un commissario deciso a non buttare al macero mesi d’appostamento, per rendere pan per focaccia ai delinquenti che riciclano denaro sporco, nonché ad accudire un collega vittima dei disvalori imperanti nel territorio amico attanagliato dagli empi nemici.

Il relativo senso di appartenenza, restio a ricorrere ad alcun tipo di gigionesco soprassalto esibizionistico, non premia solo ed esclusivamente la professionalità di mettersi a disposizione della scrittura per immagini: dimostra, altresì, come un’empatica mimica facciale comunichi tanto quanto le forme geometriche dell’inquadratura e i match-cut visivi intenti ad accrescere l’imprinting di dettagli rivelatori ed ellissi temporali.

L’amicizia che lo lega a Tony Sperandeo, con cui ha condiviso il set della nota serie televisiva La squadra, non c’entra nulla con le reboanti ostentazioni di stima dei fan. La fragranza dell’affetto sincero, frammista ai palpiti dell’ammirazione per il ritratto acuto ed epidermico conferito in qualsivoglia ruolo, ivi compreso l’inquieto sovrintendente Salvatore Sciacca, balza agli occhi. 

L’ispettore Walter Battiston è un po’ il fiore all’occhiello di Federico Tocci. L’accento veneto, la mole robusta, lo sguardo cerbiattesco, la punta di spina del dolore per le frecce di Cupido scoccate a discapito della fortuna, che gli chiede spesso il conto, impreziosiscono gli sprazzi di talento impiegati per fungere da valido pungolo. Allo scopo, in prima battuta, di prendere confidenza con un’inflessione dialettale assai diversa da quella dei cittadini dell’Urbe. Al fine, in seguito, di dare l’acqua della vita all’aspetto spirituale, interiore, dell’onesto sbirro messo a capo delle Volanti. Pronto a cedere di nuovo il posto. Con la purezza di cuore garantita dagli sguardi introversi ed eloquenti.

Al gigionismo del fuoriclasse Sperandeo, che riesce a diventare spietato e compassionevole, sbeffeggiatore e comprensivo, scattoso e mesto, soverchiatore ed empatico, sulla scorta dell’eterogeneo sviluppo dell’intreccio, congiunto all’estrinseca vena teatrale, Federico replica con la farina del suo sacco. La sottorecitazione lo esorta, infatti, ad anteporre i semitoni agli accenti. Anche se pure quelli gli riescono bene.

È, comunque, il trasporto intimo, estraneo all’infruttifero diktat imposto dalle circostanze esteriori determinate dal plot, a preferire i segnali discorsivi, gli accenni, le parole non dette a garantire la fondatezza ad alcune performance altrimenti inclini ai virtuosismi vezzosi. Inutili, sia in prassi sia in spirito, allo studio della vicenda da raccontare ed esibire in tutte le sfaccettature del caso. Frutto dell’ingegno dell’autore.

In Suburra – La serie, a dispetto delle accuse lanciate contro l’inattendibilità di alcuni contesti, che permettono allo zingaro soprannominato Spadino di entrare e uscire dalle case dei cardinali in Vaticano, ad agire senza azione provvede l’insita antiretorica.

Il boss di Ostia, Tullio Adami, ricava notevole spessore dalla partitura sotterranea percorsa da Tocci per scolpirne le ubbie e la rabbia belluina. Contraddetta dall’incedere di alcune sensibili occhiate diametralmente opposte ai battutissimi sentieri conformi alla cifra dell’odio scellerato.

La cifra dell’amore, invece, per il figlio ribelle, incarnato con indubbia abilità da Alessandro Borghi (nella foto con Federico in un lampo cruciale), rende molto più interessante il succedersi degli eventi.

Il mancato punto d’incontro tra i due, divisi dai temperamenti bellicosi, negati all’adeguatezza catartica di una sana chiacchierata, rimane nella memoria. Quando l’impetuoso rampollo sfugge alla morte, per il rotto della cuffia, nell’aria attorno alla roccaforte vicino al mare preme un’arida ed emblematica uggia. La morbosa suscettibilità di entrambi sembra cedere il passo ad attimi fuggenti intessuti di premura virile.

In Sulla mia pelle di Alessio Cremonini il grande schermo lo vede di nuovo accanto ad Alessandro Borghi (nella foto le scene topiche), premiato con l’ambìto David di Donatello per la performance fornita nelle vesti di Stefano Cucchi. Sono sufficienti pochi secondi a Federico, che impersona un poliziotto preoccupato in apparenza unicamente di lavarsi le mani tipo Ponzio Pilato dinanzi ai segni d’atroce percossa rilevati sul corpo smagrito all’inverosimile del ragazzo: si ha fortissimamente l’impressione che l’incolpevole guardia dica una cosa, dettata dall’algido sarcasmo, e ne pensi un’altra. Agli antipodi. Sull’onda di un’indicibile indulgenza. La spia alla comprensione celata dall’ovvio distacco di rito.

Ai modi asciutti, che non gli impediscono di esporre i recessi più arcani dell’inconscio, custoditi con l’ausilio del sarcasmo gergale, e traditi dagli occhi cerulei, promossi a specchio dell’anima intenta a scoprire diverse zone d’ombra, illuminate dall’inopinata docilità, seguono le argomentazioni sagaci. Snocciolate senza l’improntitudine degli intellettuali estranei alla saggezza popolana. I fulgidi globi oculari, ridotti in certe circostanze a fessure iniettate di sangue, quando le sagome scure del Rischio e della Minaccia prendono piede attraverso il rapporto della finzione cinematografica col reale, lontano da qualunque, inutile forma artificiosa, tornano ad accendersi fuori del set. 

Una testimonianza di pienezza compartecipe. Allergica agli imperativi dei calcoli professionali. Alla prospettiva, nemmeno troppo remota, di aggiudicarsi un David di Donatello, come attore non protagonista per l’insolito commissario di A Tor Bella Monaca non piove mai, con l’antidoto al braccio violento della legge, non ci pensa. Gli basta salvaguardarsi dalle crisi occupazionali che affliggono tutti gli attori esclusi dall’effigie dorata attribuita dai seguaci dell’inane divismo. 

Recitare, per Federico Tocci, è un mestiere irrinunciabile. Che ama per motivi che non hanno nulla a che vedere con la brama di procacciarsi chissà quale quotazione sul mercato né con il freddo raziocinio. Abituato ad affidare alla fotogenia il compito di sopperire all’impasse di una recitazione meccanica. Nel suo caso il connubio delle forme somatiche del volto con la gamma luministica, assicurata dagli alacri direttori della fotografia, possiede la polpa dell’affetto. Tramutato in conoscenza. Per dare il benservito ad arzigogoli ed elucubrazioni varie. Il cuore, sintomo di sensibilità e d’audacia perenne, è tutta un’altra camminata. L’entusiasmo creativo e i piedi per terra non si annullano l’un gli altri.  Sono, viceversa, il cacio sui maccheroni. Non per cucirsi sul petto i galloni della star venerata dalle folle desiderose d’ispirarsi agli ingannevoli portatori d’invulnerabilità. Ma per far sorridere, sognare e riflettere il pubblico proprio con la vulnerabilità connaturata alla creazione di circostanze convertite in rimedi contro la monotonia. Una cura dello spirito che amplia la visione del mondo ed esplora gioie e dolori: la brama dell’iperbole, l’ansia febbrile, l’essenzialità delle note intime. Che penetrano la complessità dell’esistenza. Senza colpo ferire. 

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A colloquio con Antonio Zavatteri sull’intensa levità della recitazione

IL FULGIDO ED EMOZIONANTE SENTIMENTO CREATIVO DI UN ATTORE COI PIEDI PER TERRA CHE PUNTA IN ALTO

Una conversazione con Massimiliano Serriello

Puntare alle stelle, mantenendo i piedi per terra, non costituisce una contraddizione in termini. Né si va ad aggiungere alle ormai vetuste ed enfatiche elucubrazioni teoriche di chi si parla addosso scambiando le banalità scintillanti della (auto)propaganda per perle di saggezza.

Ad Antonio Zavatteri (nella foto) interessa, piuttosto, svolgere la professione dell’attore nel migliore dei modi, difendere la categoria di coloro che, attraverso il lavoro sui personaggi da incarnare, devono comunque conseguire le debite giornate annue, per garantirsi l’accesso ai soccorsi previdenziali, e concordare attraverso il sentimento creativo, al posto dell’infruttifera chimera, la possibilità concreta della svolta.

Una svolta professionale che non paga dazio agli insulsi particolari, acuiti dai periodici a caccia di scoop, e ai fiotti di champagne diffusi in un mondo dorato, retto dall’inane esteriorità, ma che trae linfa dallo sblocco liberatorio congiunto al contatto diretto col pubblico, stabilito dallo strenuo impegno profuso in teatro, dall’aderenza al commercialista Franco Musi (nella foto) colluso con la malavita napoletana, reo nella serie televisiva Gomorra di fare il passo più lungo della gamba, e dall’impeccabile misura grazie alla quale è riuscito ad anteporre l’umiltà dell’antiretorica alle pose vanesie dei set cinematografici.

Fremere dinanzi all’ipotetica crescita esponenziale dei film da interpretare, al fine di ricavarne la notorietà capace di porre fine agli orari disagevoli e all’asservimento nei riguardi della macchina da presa, può rivelarsi un’autorete. La soddisfazione di aver impersonato in Mia madre di Nanni Moretti l’ex alunno della signora appena scomparsa e impreziosito la trama, sia pure cum grano salis, col ricordo sobrio ma incisivo di un’insegnante affezionata all’acume sempiterno degli adagi latini, riconduce tutto all’ordine naturale delle cose. Il primo piano del volto, scosso dalla punta di spina del dolore ma deciso a rispettare l’intimo contegno d’ogni lutto inevitabile, non solo tiene le opportune distanze dalle soap che chiedono agli spettatori meno scaltriti un abuso delle sacche lacrimali. Nella sua sottorecitazione risiede anche il corredo d’idee ed emozioni che, lungi dall’alterare l’intrinseca verità rappresentata e dal prestarsi all’impasse degli inutili equivoci, equipara la forza significante dell’io interiore alla fase del concepimento dell’estro.

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A colloquio con Mavina Graziani sulla forza ispirativa della recitazione

IL CARATTERE D’AUTENTICITÀ DI UN’ATTRICE CHE MANDA SCINTILLE NEL DRAMMA E SOGNA LA COMMEDIA

Una conversazione con Massimiliano Serriello

Emana davvero scintille creative che si accendono nella definizione dei personaggi che incarna. Dalla famiglia, costituita dall’affettuoso consorte e dai tre adorati figli, Mavina Graziani (nella foto nei panni di Ofelia in Shake Fools) trae linfa per anteporre alla superficialità del bel vivere l’alternativa, profonda ed empatica, del buon vivere. Che è tutta un’altra cosa. Lei, da romana, affezionata all’arguzia sardonica in grado di cogliere appieno l’emblematico non sequitur nelle pose ridicole delle false dive a caccia d’inquadrature lusinghiere, ha, insieme ai valori sani, anche le idee molto chiare: un conto è svolgere la professione della modella; un altro paio di maniche è l’aderenza al personaggio da interpretare

 

La bellezza, definita dal compianto e assennato Ermanno Olmi, una piacevolissima opportunità, certamente dà una mano. Tuttavia, terminato il periodo delle sfilate, a Mavina interessa soprattutto sfruttare adeguatamente le chance fornite dalla versatile carriera d’attrice. L’idonea qualità d’ispirazione – lungi dal soffocarne la naturalezza, agevolmente ravvisabile nel sorriso franco, nei modi spigliati e negli occhi vivaci che s’illuminano di un barlume quasi fanciullesco quando la conversazione cade sulla maestria della splendida Meryl Streep, che nell’indimenticabile mélo La scelta di Sophie riesce ad arrossire facendolo sembrare una passeggiata di salute – non contempla l’inane caccia ai larghi profitti né ai sorrisi di circostanza a beneficio dei paparazzi sul red carpet. Per carità: ben venga il successo. E con esso pure il tappeto rosso. Ma solo come una diretta conseguenza di un lavoro svolto con estremo impegno ed entusiasmo ininterrotto.

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A colloquio con Giovanni Maria Buzzatti sul processo creativo della recitazione

COMPETENZA ED ENTUSIASMO AL SERVIZIO DEL “VIAGGIO DELL’EROE”: UN ESTRO CHE NON SI PERDE NEL SILENZIO

Una conversazione con Massimiliano Serriello

Il carattere d’ingegno creativo necessario ad alimentare l’arduo lavoro degli attori sui personaggi, attraverso l’egemonia dello spirito sulla materia al fine di esibire i moti dell’anima custoditi nell’inconscio, non si perde nel silenzio. Il gioco fisionomico della performance recitativa, che nel mondo del cinema costituisce un motivo di fianco rispetto alla dinamica tra immagine e immaginazione posta in essere dietro la macchina da presa per mezzo dei valori espressionisti congiunti alla stesura filmica, non è solo un fattore di richiamo dell’universo teatrale. In virtù dell’indubbio ascendente esercitato sui fruitori grazie al contatto diretto contemplato nell’attuazione della prova interpretativa. Per Giovanni Maria Buzzatti (nella foto) l’impegnativo ma doveroso processo di apprendimento, reviviscenza, incarnazione e forza comunicativa va oltre i precetti del pur illustre Metodo Stanislavskij, veicolato in regole neurotoniche ed esercizi sistematici dal coriaceo Lee Strasberg, esponente cardine del Group Theatre, chiude il cerchio attingendo al dotto libro “Il viaggio dell’eroe di Christopher Vogler.

È stata l’aggraziata ed energica Manuela Tempesta (nella foto), fautrice altresì del Tao (, Dào; testualmente la Via), il concetto orientale che va ad amalgamare le emblematiche polarità connesse all’ordine della natura (maschile/femminile, tenebra/luminosità, freddo/calore), a coinvolgere altresì Giovanni Maria Buzzatti nello studio delle strutture ricorrenti contemplate da Vogler. Regista, sceneggiatrice, documentarista sensibile ed eclettica, Manuela è divenuta una sorta di poetessa dell’animo femminile, costretto – come insegna pure l’Antico Testamento – a passare per la cruna dell’ago ed entrare nel Regno dei Cieli. L’urgenza di denunciare gli abusi commessi ai danni dello spirito muliebre, sia sul grande schermo, specie con “Pane & Burlesque, svelando i disaccordi nascosti nella necessità di esibirsi nutrita nel guscio della provincia, sia sul palcoscenico del teatro, è divenuta un’autentica affinità elettiva.

Giovanni Maria Buzzatti ha saputo cogliere repentinamente la profonda sensibilità, frammista all’assoluta tenacia, di Manuela; per poi dedicare la massima attenzione ai suoi numi tutelari. Senza mai prenderli sottogamba. Nemmeno per un attimo. Evitando di smarrirsi in una congerie di rivoli, fini a sé stessi, è riuscito a individuare nel bisogno di miti, che trascende lo scoglio del Tempo, un formidabile pungolo per guidare i propri allievi nel periodo preparatorio della conoscenza, sulla scorta dell’idonea intuizione artistica, nella capacità di trarre linfa dalla sfera delle sensazioni personali, allo scopo di anteporre all’infruttifera esteriorità la piena comprensione della psiche del personaggio, nonché dai ricordi onde conferire al dramma rappresentato l’aroma di sincerità dell’esistenza. Per Manuela, al pari del Percorso legato al Tao, quello predisposto da Vogler, sulla base degli stimoli forniti da L’eroe dai mille volti di Joseph Campbell, costituisce uno stimolo eccezionale per andare in profondità. Soprattutto come scrittrice d’inebrianti ed eruditi plot gremiti di ombre sinistre, punti decisivi di caduta, o di non ritorno, d’inopinati alleati, scoperti tanto nell’innocenza dell’infanzia quanto nell’assennatezza della senescenza. Non a caso la correlazione tra habitat ed esseri umani, capace d’impreziosire con gli stilemi della geografia emozionale anche l’intenso cortometraggio I sogni sospesi, insieme a dei cortocircuiti lirici che non dispiacerebbero affatto al guru statunitense Terrence Malick, rientra nei parametri nodali con cui Madeleine de Scudery tracciò – per adornare il testo “Clélie, historia romaine – la celebre Carte du Pays de Tendre. Con il Lago dell’Indifferenza frammisto ai paesi di Indiscrezione, Perfidia, Cattiveria e Orgoglio che si affacciano nel mare dell’Inimicizia. Mentre la retta via conduce ai paesi di Compiacimento, Sottomissione, Coccole, Assiduità, Prontezza, Sensibilità, Tenerezza, Obbedienza, Amicizia Costante, fino all’approdo a Tendre sur Reconnaissance. 

Giovanni Maria Buzzatti, invece, stimola l’azione interiore degli adepti disposti a fornire il loro contributo alla partitura spirituale dell’opera,  con l’atlante dei comportamenti. Anziché con quello delle emozioni nate dalla virtù del territorio di riverberare il connubio di modus operandi e forma mentis. L’humus ideale, in tal senso, risiede, piuttosto, nei contrasti tra eventi negativi ed eventi positivi, tra il rifiuto e il richiamo dell’avventura, tra il mondo ordinario e l’avvicinamento alla tappa prefissata. Da lì lo spartito dei compiti fisici degli attori e delle attrici che lui guida, per non cadere nell’algida abitudine meccanica, è arricchito dal concetto di resurrezione. Equiparabile, a discapito delle banalità scintillanti dell’enfasi di maniera, all’idea di climax. Applicato alla fase topica in cui ogni interprete reagisce esteriormente in funzione agli stimoli interiori forniti dagli esempi lampanti ed epidermici di vita vissuta. Non si tratta di avere un asso nella manica, destinato a pagare dazio agli inutili segni d’ammicco di chi usa le scorciatoie per sviluppare il processo della ricerca del personaggio. Bensì di una concentrazione raggiunta di comune accordo, toccando punti nevralgici nelle reminiscenze personali d’ogni individuo coinvolto per ricreare senza che siano presenti oggetti immaginari in grado di lasciare il segno. Basti pensare alla pièce teatrale Shake Fools allestita a quattro mani con l’ormai inseparabile Manuela. Il personaggio di Otello, incarnato dal poliedrico Giovanni Maria Buzzatti, dà in escandescenza nei confronti di un ipotetico commissario di polizia e degli appuntati intenti a raccoglierne la deposizione. Lo stimolante richiamo, oltre ché ai sempiterni versi del Grande Bardo, al Pier Paolo Pasolini di “Accattone, testimonia l’audacia di connettere l’alta densità lessicale dei capolavori letterari e il parlato spontaneo. Con i borbottii, i segnali discorsivi, il ricorso alla rabbia del vernacolo romanesco privo della consolazione dell’onnipresente disincanto e dell’aguzzo sarcasmo. Sin dal manifesto, con la farfalla che rimanda a “Il silenzio degli innocenti del compianto Jonathan Demme, l’innesto degli echi e dei controechi, da “Un tram che si chiama desiderio a “Qualcuno volò sul nido del cuculo, dai fatti di cronaca nera alle punture di spillo riservate alle atroci storture in seno alla società, palesa una marcia in più rispetto all’accidia delle idee solitamente prese in prestito dai colleghi assai meno ispirati. Un’abitudine imperante nei settori della cultura e dell’intrattenimento dove la bestia nera resta il disinteresse del pubblico. Ancor prima della noia di piombo. Che sancisce la condanna all’oblio di qualsivoglia prodotto fondato sulla comunicazione. 

Non serve abbaiare alla luna per invertire la tendenza. Occorre, casomai, rimboccarsi le maniche. Chiudersi nel proprio bozzolo, col morale sotto i tacchi, a causa delle criticità riscontrabili nelle dinamiche sempre più stagnanti dei consumi culturali, è inutile. Come anche ingoiare amaro e sputare dolce. Giovanni Maria Buzzatti è alieno all’umanità raccogliticcia dei sognatori che vanno a caccia di grilli e costruiscono inutili castelli di carta. Conosce le best practices e le bed pratices comportate dall’onore, nonché dall’onere, d’incontrare i gusti della popolazione spronandola con la magnifica opportunità fornita da un inesauribile patrimonio di apprendimenti ed erudizioni. Ed è, quindi, consapevole che non vi si può rinunciare per corrispondere all’emotività del pubblico dai gusti semplici. Né è ipotizzabile, conformemente all’emanazione dell’estro umanitario, continuare a fingere che il livello di comprensione del settore di competenza c’entri poco con le strategie di marketing. La mercificazione del tempo libero, nell’ambito degli spettacoli dal vivo, riconducibili pure al mercato dell’intrattenimento, va tenuta nella giusta considerazione. Al pari dell’arte segreta dell’attore e dell’incisiva irradiazione formativa che traduce in divertimento, alieno all’impasse del temuto tedio, il nesso con i traumi prodotti dalla collettività moderna. 

Il fulgido senso dell’azione che Giovanni Maria Buzzatti individua, lontano dai motivi figurativi tramutati in motivi introspettivi dallo sfarzo scenografico, nell’invenzione degli intrecci evoca dal profondo il divampare delle passioni. Che possono e devono colpire alla mente, al cuore e allo stomaco gli spettatori decisi ad allargare determinate prospettive. Acquisendo coscienza di ciò che li circonda tramite il debito filtro intellettuale ed educativo. Perché nel sovvertimento degli affetti, fuori dai binari della mera retorica, che sa di stantio ed ergo di vecchio, nella conquista della bontà, a dispetto dei demoni privati che s’insinuano a ogni piè sospinto nella rete d’inedite ed eterne infamie, negli impulsi psicologici, all’origine dei cori osceni da stadio, risiede la vigoria della consuetudine. E quindi di una tradizione che non deve cedere di un passo al trattamento superficiale richiesto da un rapporto tra destinatari ed emittenti poco avvezzi ai dispendi di fosforo. Spremendosi le meningi, imparando a pungolarsi, è possibile ricavare dalla vena smisuratamente crudele che serpeggia nella cifra dell’odio, dell’intolleranza, della violenza lo sprone dell’amore, dell’impegno, dell’avvedutezza. Un antidoto contro l’accetta adoperata dagli artisti avventizi. Avvezzi, a colpi d’ascia, ad allontanare alla bell’e meglio il bene dal male. Neanche fossero gli angeli sterminatori cari a Luis Buñuel. L’estrema varietà di archetipi utilizzati per mostrare l’imprevedibile ferocia dell’Otello di Giovanni Maria Buzzatti (nella foto con Mavina Graziani alias Desdemona), che ne paralizza la volontà pungolata dalla cifra dell’amore, e l’atavica efferatezza del Macbeth riletto in tuta mimetica, all’insegna di un lucido discernimento estraneo ai raccordi sull’asse di ripresa concepiti dalla fabbrica dei sogni, snudano incubi impossibili da nascondere sotto il tappeto.

Dargli una chiara sensazione di visibilità, per Giovanni, in qualità di coach trainer con il metodo delle azioni fisiche, nelle fiction televisive, da “I Cesaroni a “Distretto di polizia, al cinema, ma soprattutto in teatro, la sua grande, inesausta passione, trasportando la platea in un’atmosfera davvero rivelante, in cui si mescolano alle palpabili pieghe umoristiche, stabilite dall’idiosincrasia per ogni forma di sgradita discrepanza, dei contrappunti mesti, ed ergo elegiaci, vuol rendere merito, sia pure in filigrana, all’inobliabile didascalia introduttiva di David Wark Griffith nel pionieristico capolavoro del cinema mondiale Nascita di una Nazione: «Noi non desideriamo offendere con improprietà od oscenità. Esigiamo, però, come nostro diritto, la libertà di poter mostrare il lato oscuro del Male per poter mettere in luce il lato luminoso della Virtù. La stessa libertà concessa alla parola scritta». E anche al teatro. Con buona pace di chi si affretta a cantarne l’inane De Profundis.

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A colloquio con Vincenzo Inverso sul marketing territoriale e sulla geografia emozionale

IL PARCO NAZIONALE DEL CILENTO, VALLO DI DIANO E ALBURNI: UN TERRITORIO DA DIFENDERE ED ESIBIRE CON ORGOGLIO

Una conversazione con Massimiliano Serriello

La gestione del patrimonio naturale, culturale ed economico connesso alle aeree protette ricava l’acqua della vita dalla schiettezza del senso di appartenenza. I legami di sangue e di suolo, quando prendono piede con la fragranza inconfondibile dell’autenticità, non pagano dazio all’enfasi di circostanza. Bisognosa degli esuberi di aggettivi e delle roboanti attestazioni di stima per accompagnare l’implementazione delle condotte strategiche tese a favorire la crescita del territorio. Il Parco Nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni alla tentazione dell’iperbole, attigua alla pubblicità, antepone l’impegno costante a beneficio di un’area realmente ricca di suggestioni profonde.

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L’odore del teatro: il luogo che mette d’accordo cuore e cervello

LA MAGIA DEL PALCOSCENICO: UN’ORBITA MISTERIOSA CHE TRASFORMA I MOTIVI DI FIANCO NELLA CURA DELLO SPIRITO

«Oh, chi avesse visto l’imbacuccata regina correre a piedi nudi qua e là minacciando le fiamme con occhi pieni di lacrime! Uno straccio sopra la testa dove poc’anzi un diadema posava e come abito, sui fianchi, resi esausti dal parto e scarni, una coperta afferrata con paura durante l’assalto. Chi avesse visto questo, con la lingua intrisa nel veleno, avrebbe imprecato contro il tradimento empio della fortuna. Se gli Déi stessi avessero sentita, quando vide Pirro rovistare con la spada, per maligno gioco, tra le membra di suo marito, l’urlo disperato che le eruppe dal petto! Se cosa mortale può commuovere gli Eterni, avrebbe versato latte nei brucianti occhi del cielo».

È questo il monologo, che pone in risalto la disperazione della regina Ecuba dinanzi all’agonia del marito Priamo, barbaramente ucciso dal nemico Pirro, con cui l’intenso ed erudito capocomico presente nella tragedia shakespeariana di Amleto spinge l’omonimo principe di Danimarca a riflettere sulla forza persuasiva della recitazione. Impreziosita dall’aderenza ai sentimenti altrui. Dalla capacità di snudare l’anima ed esprimere l’umana pietas insita nei meandri dello spirito in perenne lotta con la materia. Le parole al riguardo dello stesso Amleto, quando prende piena coscienza dell’inimmaginabile dose di trascinante empatia connessa all’ammirevole trasporto immedesimativo, sono ancor più rilevanti ed emblematiche:

«Non è mostruoso che questo attore, per una finzione, in un sogno di passione, possa sottomettere l’anima alla sua immaginazione. Al punto tale che il volto gli si è sbiancato. Con le lacrime agli occhi. Gli si è stravolto l’aspetto. Gli si è spezzata la voce. E ogni sua facoltà dà forma a sentimenti suggeriti. E tutto per niente! Per Ecuba! Cos’è Ecuba per lui e lui per Ecuba che debba piangere in quel modo? Che farebbe se avesse i motivi e la spinta per le passioni che c’è in me? Certo lui inonderebbe la scena di lacrime. Strazierebbe le orecchie di tutti con grida orribili. Farebbe impazzire i colpevoli, inorridire gli innocenti, confondere gli ignoranti. E lascerebbe sgomenti in tutti gli altri la vista e l’udito».

Non si può dar torto ad Alberto Moravia quando sosteneva – nelle vesti di critico cinematografico sulle pagine del noto del settimanale di politica, cultura ed economia L’Espresso – che il gioco fisionomico alla base di ogni performance costituisse un motivo di fianco rispetto alle scelte compiute dai registi cinematografici eletti ad Autori con la “a” maiuscola sul galvanizzante terreno dell’arte. Anzi, della Settima Arte. 

Tuttavia lo spettacolo di secondo piano diviene la chiave di volta sui palcoscenici del teatro in virtù del profondo ascendente esercitato sul pubblico. Il contatto diretto con gli spettatori, lontano dalle vane lusinghe riposte nelle inquadrature lusinghiere e dalla possibilità di correggersi dinanzi a una “papera”, non costituisce una mera patente di nobiltà. Bensì è il fiore all’occhiello di un processo di formazione alla creatività che tramuta il gioco della trappola scenica in un probo prodromo della verità. Il cui depositario, nella vita di tutti i giorni, resta l’Onnipotente. La sospensione dell’incredulità, che manda a carte quarantotto l’attitudine dei critici a cercare il pelo nell’uovo, trascende l’ovvio ricorso ad abili stratagemmi, a sollecitazioni programmatiche, al vezzo di fare il verso alle fatiche di Ercole, ai crucci dei mortali, ai capricci degli immortali. Nel convertire la freddezza dell’intelligenza, di chi si erge a giudice degli spunti originari dell’estro, nel calore della sensibilità, aliena anche alle snobistiche distinzioni tra cultura alta e cultura bassa, risiede l’essenza di una ribalta unica. Che esorta gli attori ad amare il sogno. «Senza immaginazione – sosteneva l’esimio maestro Konstantin Sergeevič Stanislavskijnon ci può essere creazione».

Nella Settima Arte il punto di convergenza che unisce l’immagine all’immaginazione necessita della creatività di chi coordina dietro la macchina da presa l’irrinunciabile valore evocativo dei movimenti di macchina, dei match-cut visivi, tipo l’osso lanciato dal primate di 2001: Odissea nello Spazio che diviene un monolite, della profondità di campo. Grazie al quale l’indimenticabile Orson Welles ha saputo allargare le prospettive mentali di platee inizialmente dai gusti semplici se non grossolani.

Nel teatro, invece, lo status di autorialità, difeso con le unghie e con i denti dai falsi dotti, ansiosi di sentirsi degli intenditori, anziché apparire alla stregua di vanesi dissimulatori, conta poco o niente. Non ci sono demiurghi né stregoni. È un alto tasso di umiltà, di predisposizione al sacrificio, congiunto alla reviviscenza, ad animare la fantasia degli interpreti. Per agire nelle vesti del personaggio, studiato sin nei minimi dettagli, lavorando su sé stessi. Sui ricordi capaci di accendere quella fiamma eterna. Accesa, per la prima volta, ad Atene dal sommo poeta Tepsi. Uno che ci sapeva fare con la prontezza declamatoria. Ma finanche coi frizzi e i lazzi cari a Totò (nella foto), l’impareggiabile Principe della risata. Nato nel Rione Sanità. Consapevole delle gag necessarie a «far patire di piacere» la gente seduta in platea ad ammirarne l’eccezionale mimica facciale, gli inarrivabili tempi comici, l’incredibile bravura nell’andare a braccio, senza copione, riuscendo ad appaiare i neologismi, entrati con pieno merito nel linguaggio comune, al magico talento di flettere il corpo a proprio piacimento divenendo l’antesignano della black-dance e di Micheal Jackson.

Eduardo De Filippo alle doti funamboliche del geniale concittadino, dalla pantomina prodigiosa, replicava con la superba padronanza dei ferri del mestiere sia sul versante dell’orgoglioso teatro accademico sia sul piano di quello naturalistico. Connesso al vernacolo partenopeo. Divenuto Patrimonio dell’Onescu.

Tuttavia nella commedia in tre atti Il Sindaco del Rione Sanità è soprattutto il suo sguardo a parlare. Sulla scorta del volto scavato, degli occhi piccoli, vivaci, pronti ad accendersi di colpo, del cipiglio fiero. Venato d’inguaribile malinconia. Stemperata nell’indulgenza fugace, nondimeno liberatoria, dell’umorismo. La versione moderna rappresentata dal pur abile Mario Martone non gli arriva neanche alla caviglia

Disporre i significati del testo, che espone le ubbie unite al personale codice etico di un boss di quartiere fedele all’ormai antiquato senso dell’onore svilito dalla tracotanza, dall’insensibilità e dalla paura omicida, non è compito dei recensori. Le varianti dissacratorie, decise ad aggiungere alla pregnanza contenutistica originaria il richiamo ai segnali discorsivi in stile Gomorra, frammisti ai forestierismi comportati dall’adozione del rap, concedono ugualmente qualche banalità di troppo. A dispetto dell’indubbia esperienza di Martone, destreggiatosi nella sua lunga carriera tanto nel cinema, attraverso la correlazione oggettiva ed emblematica tra habitat ed esseri umani, quanto nel teatro, il richiamo figurativo non si tramuta mai in nesso introspettivo. La perizia dei costumi, che sostituiscono gli abiti all’antica del boss col vestiario casual dei “tamarri” odierni, e gli attenti elementi scenografici non bastano a sopperire alla penuria degli opportuni colpi d’ala necessari per rendere l’impasto sempiterno dei sapori di acre, di dolce, di penetrante ad appannaggio del ritratto dell’autocrate eppur magnanimo protagonista. Antonio Barracano. Incarnato dal volenteroso Francesco Di Leva con ammirevole sforzo. Nella mesta consapevolezza, però, di raccogliere una malagevole eredità. A differenza del misurato Massimiliano Gallo che, grazie all’egemonia dei semitoni sugli accenti, ha dato nuova linfa e un’inattesa dignità alla figura del vile, nonché cinico, Arturo Santaniello destinato a dare il benservito ad Antonio Barracano. Nella successiva versione cinematografica pure Martone al timone di regìa ritrova lo smalto dei tempi migliori. Mettendo a frutto ciò che manca al teatro: la geografia emozionale. La scrittura per immagini riesce perciò a catturare le pulsioni del borgo dove nacque l’immenso Totò, i condizionamenti imposti ai suoi abitanti, i timbri antropologici ed etnologici congiunti all’abitudine del territorio di riverberare i modi d’agire e l’altalena di stati d’animo ora convulsi ora accigliati ed elegiaci. Tuttavia delle gag, delle invenzioni, delle creazioni, partorite dal Principe Antonio De Curtis in arte Totò a ogni piè sospinto, non vi è la benché minima traccia.

L’ironia, al contrario, è la prerogativa del regista fiorentino Igor Maltagliati. Per spiegare in maniera facile le cose difficili occorre una massiccia dose d’inventiva. Sul grande schermo è l’assurdo poetico, divenuto già oggetto di spettacolo nel capolavoro Delicatessen, a guidarlo per conferire al ritratto corale dei personaggi, attinti in larga misura ad Altman e al proselito Paul Thomas Anderson, il cortocircuito surreale, l’attimo d’astrazione, che li ricompensa degli affronti giornalieri. A teatro le sue molle sono la facondia dialogica, guidata dal nume tutelare della filosofia senza dare adito ad alcuna elucubrazione teorica, e la vena immaginifica. La vita dopo (nella foto) è frutto proprio del suo affetto per il destinatario optimum: il pubblico presente in sala.

Igor non vuole tediare con disquisizioni cervellotiche ma avvicinare le persone comuni, mettendole di buon umore, agli intrinseci orientamenti spirituali e ad appassionanti riti, impermeabili alla prevedibilità di qualsivoglia tran tran, che vanno a sostituire quelli giornalieri. La vera sfida sarebbe condurre gli impliciti concetti applicativi di karma e biocentrismo nei meccanismi di causa ed effetto relativi alla fabbrica dei sogni. Ovvero al cinema. Frattanto, aspettando che la Teoria del Multiuniverso si tramuti in una pratica condita magari da una mitragliata di battute, ed eloquenti silenzi nelle vesti di debito contraltare, Igor è alle prese con le prove dell’ennesimo spettacolo teatrale: Tequila! L’inedito modello di riferimento è riposto nelle sit-com americane. Agli echi stralunati ed eruditi di Jean-Pierre Jeunet, con Woody Allen che fa capolino, si andrà ad aggiungere, molto probabilmente, una galleria di tipi piuttosto curiosi per tingere di fantastico il grigiore dei racconti intimisti che giocano però col paradosso ed esibiscono i segni impercettibili degli affanni in procinto di cedere il passo al flusso di eventi straordinari ed ellissi significative.

La FACT (Fort Apache Cinema Teatro) punta tutto sulla volontà degli attori d’imprimere nelle loro caratterizzazioni le tinte nere, senza sotterfugi, e porre in risalto, per contrasto, gli slanci della bonomia. La risorsa di tutti gli individui in cerca di riscatto morale. La fondatrice Valentina Esposito guida il proprio cast (nella foto) con mano ferma sottoponendolo alla crescita interiore ed etica connessa alle prove.

«Volli, sempre volli, fortissimamente volli». La massima dell’avveduto Vittorio Alfieri diviene il pungolo decisivo per  andare oltre l’impasse dell’esaltamento interiore e scorgere nel proprio passato l’opportuno punto di contatto per le performance da eseguire sull’onda di sentimenti, forse feriti, magari pure slogati, ma colmi dell’energia interiore riflessa dai migliori modelli ispiratori. Il Progetto, che coinvolge attori professionisti ed ex detenuti, desiderosi di scorgere nella gioia di creare l’antidoto contro lo spettro dell’isolamento, ha raggiunto l’acme con la pièce Famiglia. Lo scontro padre-figlio, esacerbato dai divari generazionali, ricava parecchio beneficio, sul piano dell’intensità interiore, dal training sistematico cui l’alacre Valentina sottopone, secondo consuetudine, l’intero suo staff. Da Gabriella Indolfi ad Alessandro Forcinelli ed Edoardo Timmi. Da  Chiara Cavalieri e Christian Cavorso ad Alessandro Bernardini. Ed è il contenuto emotivo, posto in essere sull’onda di un’ardua ma determinante spontaneità, frammista alla reviviscenza contemplata dal Metodo  Stanislavskij, ad aprire lo scrigno della fantasia insieme alla crudezza oggettiva.

A mettere d’accordo cuore e cervello ci ha pensato soprattutto la regista cinematografica Manuela Tempesta con il prezioso supporto di Giovanni Maria Buzzatti. Diplomato all’Accademia d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” di Roma, l’attore/autore ha unito la sua esperienza con quella di Manuela. La cifra distintiva che l’ha vista ergersi con compitezza ed estrema tenacia nel ruolo di prodiga prosatrice dell’animo femminile ha tratto giovamento dall’attenzione di Giovanni Maria (nella foto nel ruolo di Otello in Shake Fools) per la parola.

L’alta densità lessicale del linguaggio ricercato si va ad appaiare alla bassa densità lessicale del gergo colloquiale. Il pluralismo dei punti di vista d’ascendenza pirandelliana rinsalda le passioni divampanti del teatro shakespeariano. L’inclinazione a far ridere amaramente mostrata dietro la macchina da presa in Pane & Burlesque, il ricorso all’aura contemplativa in chiave panteista nel cortometraggio I sogni sospesi, i palpiti della commozione nella “chicca” d’impegno civile Cristallo confluiscono ora sulle tavole del proscenio con un’ampia gamma, quindi, di echi e controechi.

L’effigie del matto, che sul finire svela le connessioni delle gemme teatrali del Grande Bardo, Shakespeare, con i tristi ed efferati fatti di cronaca, celati dapprincipio dalle ombre blasonate, richiama alla mente Joel Grey in Cabaret. Ed ergo, di rimbalzo, ma senza nessun dubbio, a Pane & Burlesque. Al filo invisibile, quindi, che associa arte ed esistenza. I rimandi all’attualità, a Bibbiano, a Torre Maura, alla dialettica tra conservatori e progressisti, destinata ineluttabilmente a degenerare, pagherebbero dazio all’impasse della monotonia se i nervi, tesi come corde di violino, nonché gli slanci delle attrici non dessero nuova linfa al sottotesto. Mavina Graziani, dolce ed eterea nei panni di Ofelia, sarcastica e fragile in quelli di Desdemona (nella foto), mette in pista dei magici “se”. Le medesime ipotesi di cui Lee Strasberg si servì per assorbire le tecniche d’immedesimazione ed estraniamento del celebre Metodo.

Manuela, guadagnatasi la fiducia e l’ammirazione dell’intero cast, non ha gettato il sasso nello stagno. Anziché restare immobile, ad attendere il movimento dell’acqua, è riuscita a creare un rapporto di coalescenza col pubblico in sala. Quello, almeno, disposto ad anteporre ai cerchi dei sognatori avvezzi ai vani voli pindarici e agli ormai stantii indovinelli di stampo tarantiniano il desiderio di cogliere le parole immortali del drammaturgo inglese in mezzo a sospiri, voluti scompensi, sporcature dialogiche, forme-bandiere del romanesco. Estranee, comunque, ai soliti, vetusti intenti comico-ammiccanti che albergano nei luoghi dell’effimero. Il Teatro Trastevere ha, infatti, accolto con lo spettacolo teatrale Shake Fools una variazione linguistica, umanistica ed evocativa tutt’altro ché fatua.

Alessandro Bernardini e Mavina Graziani, in ultima istanza, meritano una menzione a parte. Il primo (nella foto) per aver letteralmente buttato il cuore oltre l’ostacolo. Per essere riuscito ad analizzare il proprio io, là dove fa più male. Ma, come si dice, quello che non uccide rende più forti. Ed è una sacrosanta verità. Aliena alle secche dell’enfasi di circostanza e alle banalità scintillanti dell’insulsa propaganda. Fort Apache Cinema Teatro gli ha fatto conoscere gli stilemi della cosiddetta resilienza spronandolo a convertire le difficoltà in opportunità. La rabbia in sensibilità. L’oblio in fermo desiderio di rinascita. Nella rappresentazione Famiglia è riuscito, motu proprio, a congiungere la linea trasversale dell’ispirazione con l’attuazione dell’azione passando in tal modo dalla teoria alla prassi.

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Lei, Mavina Graziani (nella foto nel ruolo di Ofelia), con la sua inopinata carica espressiva, costituisce un monito per le ragazze che vogliono solo diventare starlette. Ha tratto partito dalla propria avvenenza, dall’esteriorità, per dare l’acqua della vita alle dinamiche interiori. Che presiedono il rapporto tra immagine e immaginazione. Nel linguaggio dei gesti, del corpo, del volto, illuminato con gli accorti contrasti chiaroscurali predisposti in partenza, ha emanato, al posto delle prove meccaniche, sorrette da un’inane puntigliosità, i segreti imbarazzi delle anime ferite che si sentono pesci fuor d’acqua nel grande disegno delle cose. Come se l’ordine naturale avesse chiuso le porte alle creature ipersensibili. Nei suoi confessionali, rivolti al pubblico e, perciò, al mondo apatico, indifferente al sordo rumore dei sentimenti incrinati, sembra, sia pure inavvertitamente, prendere spunto da Vivien Leigh in Un tram che si chiama desiderio e dall’eterea Liv Tyler in Io ballo da sola. Ma, forse, è solo un’impressione. Fatto sta che, al di là dei cenni citazionistici più o meno voluti, la percezione della giustizia e dell’ingiustizia le ha consentito di privilegiare alla sentenziosità declamatoria la fragranza dell’autenticità.

Lo stesso sentimento d’autenticità spinse Totò a esclamare: «Quant’è bello l’addore ‘e teatro». Ed è sempre lui a fungere da guida ideale per gli attori e le attrici che preferiscono lo spirito alla materia, il buon vivere al bel vivere, l’impegno al disimpegno, la cultura al consumismo. Gli applausi scroscianti restano la risposta migliore per premiare la rettitudine delle scelte che ampliano il diapason del dolore, della felicità, degli sghignazzi, dei pianti, della saggezza, dell’impulsività, della sfiducia, della fede. Ed ergo dell’Umanità.

MASSIMILIANO SERRIELLO