LA MAGIA DEL PALCOSCENICO: UN’ORBITA MISTERIOSA CHE TRASFORMA I MOTIVI DI FIANCO NELLA CURA DELLO SPIRITO
«Oh, chi avesse visto l’imbacuccata regina correre a piedi nudi qua e là minacciando le fiamme con occhi pieni di lacrime! Uno straccio sopra la testa dove poc’anzi un diadema posava e come abito, sui fianchi, resi esausti dal parto e scarni, una coperta afferrata con paura durante l’assalto. Chi avesse visto questo, con la lingua intrisa nel veleno, avrebbe imprecato contro il tradimento empio della fortuna. Se gli Déi stessi avessero sentita, quando vide Pirro rovistare con la spada, per maligno gioco, tra le membra di suo marito, l’urlo disperato che le eruppe dal petto! Se cosa mortale può commuovere gli Eterni, avrebbe versato latte nei brucianti occhi del cielo».
È questo il monologo, che pone in risalto la disperazione della regina Ecuba dinanzi all’agonia del marito Priamo, barbaramente ucciso dal nemico Pirro, con cui l’intenso ed erudito capocomico presente nella tragedia shakespeariana di Amleto spinge l’omonimo principe di Danimarca a riflettere sulla forza persuasiva della recitazione. Impreziosita dall’aderenza ai sentimenti altrui. Dalla capacità di snudare l’anima ed esprimere l’umana pietas insita nei meandri dello spirito in perenne lotta con la materia. Le parole al riguardo dello stesso Amleto, quando prende piena coscienza dell’inimmaginabile dose di trascinante empatia connessa all’ammirevole trasporto immedesimativo, sono ancor più rilevanti ed emblematiche:
«Non è mostruoso che questo attore, per una finzione, in un sogno di passione, possa sottomettere l’anima alla sua immaginazione. Al punto tale che il volto gli si è sbiancato. Con le lacrime agli occhi. Gli si è stravolto l’aspetto. Gli si è spezzata la voce. E ogni sua facoltà dà forma a sentimenti suggeriti. E tutto per niente! Per Ecuba! Cos’è Ecuba per lui e lui per Ecuba che debba piangere in quel modo? Che farebbe se avesse i motivi e la spinta per le passioni che c’è in me? Certo lui inonderebbe la scena di lacrime. Strazierebbe le orecchie di tutti con grida orribili. Farebbe impazzire i colpevoli, inorridire gli innocenti, confondere gli ignoranti. E lascerebbe sgomenti in tutti gli altri la vista e l’udito».
Non si può dar torto ad Alberto Moravia quando sosteneva – nelle vesti di critico cinematografico sulle pagine del noto del settimanale di politica, cultura ed economia L’Espresso – che il gioco fisionomico alla base di ogni performance costituisse un motivo di fianco rispetto alle scelte compiute dai registi cinematografici eletti ad Autori con la “a” maiuscola sul galvanizzante terreno dell’arte. Anzi, della Settima Arte.
Tuttavia lo spettacolo di secondo piano diviene la chiave di volta sui palcoscenici del teatro in virtù del profondo ascendente esercitato sul pubblico. Il contatto diretto con gli spettatori, lontano dalle vane lusinghe riposte nelle inquadrature lusinghiere e dalla possibilità di correggersi dinanzi a una “papera”, non costituisce una mera patente di nobiltà. Bensì è il fiore all’occhiello di un processo di formazione alla creatività che tramuta il gioco della trappola scenica in un probo prodromo della verità. Il cui depositario, nella vita di tutti i giorni, resta l’Onnipotente. La sospensione dell’incredulità, che manda a carte quarantotto l’attitudine dei critici a cercare il pelo nell’uovo, trascende l’ovvio ricorso ad abili stratagemmi, a sollecitazioni programmatiche, al vezzo di fare il verso alle fatiche di Ercole, ai crucci dei mortali, ai capricci degli immortali. Nel convertire la freddezza dell’intelligenza, di chi si erge a giudice degli spunti originari dell’estro, nel calore della sensibilità, aliena anche alle snobistiche distinzioni tra cultura alta e cultura bassa, risiede l’essenza di una ribalta unica. Che esorta gli attori ad amare il sogno. «Senza immaginazione – sosteneva l’esimio maestro Konstantin Sergeevič Stanislavskij – non ci può essere creazione».
Nella Settima Arte il punto di convergenza che unisce l’immagine all’immaginazione necessita della creatività di chi coordina dietro la macchina da presa l’irrinunciabile valore evocativo dei movimenti di macchina, dei match-cut visivi, tipo l’osso lanciato dal primate di 2001: Odissea nello Spazio che diviene un monolite, della profondità di campo. Grazie al quale l’indimenticabile Orson Welles ha saputo allargare le prospettive mentali di platee inizialmente dai gusti semplici se non grossolani.
Nel teatro, invece, lo status di autorialità, difeso con le unghie e con i denti dai falsi dotti, ansiosi di sentirsi degli intenditori, anziché apparire alla stregua di vanesi dissimulatori, conta poco o niente. Non ci sono demiurghi né stregoni. È un alto tasso di umiltà, di predisposizione al sacrificio, congiunto alla reviviscenza, ad animare la fantasia degli interpreti. Per agire nelle vesti del personaggio, studiato sin nei minimi dettagli, lavorando su sé stessi. Sui ricordi capaci di accendere quella fiamma eterna. Accesa, per la prima volta, ad Atene dal sommo poeta Tepsi. Uno che ci sapeva fare con la prontezza declamatoria. Ma finanche coi frizzi e i lazzi cari a Totò (nella foto), l’impareggiabile Principe della risata. Nato nel Rione Sanità. Consapevole delle gag necessarie a «far patire di piacere» la gente seduta in platea ad ammirarne l’eccezionale mimica facciale, gli inarrivabili tempi comici, l’incredibile bravura nell’andare a braccio, senza copione, riuscendo ad appaiare i neologismi, entrati con pieno merito nel linguaggio comune, al magico talento di flettere il corpo a proprio piacimento divenendo l’antesignano della black-dance e di Micheal Jackson.
Eduardo De Filippo alle doti funamboliche del geniale concittadino, dalla pantomina prodigiosa, replicava con la superba padronanza dei ferri del mestiere sia sul versante dell’orgoglioso teatro accademico sia sul piano di quello naturalistico. Connesso al vernacolo partenopeo. Divenuto Patrimonio dell’Onescu.
Tuttavia nella commedia in tre atti Il Sindaco del Rione Sanità è soprattutto il suo sguardo a parlare. Sulla scorta del volto scavato, degli occhi piccoli, vivaci, pronti ad accendersi di colpo, del cipiglio fiero. Venato d’inguaribile malinconia. Stemperata nell’indulgenza fugace, nondimeno liberatoria, dell’umorismo. La versione moderna rappresentata dal pur abile Mario Martone non gli arriva neanche alla caviglia
Disporre i significati del testo, che espone le ubbie unite al personale codice etico di un boss di quartiere fedele all’ormai antiquato senso dell’onore svilito dalla tracotanza, dall’insensibilità e dalla paura omicida, non è compito dei recensori. Le varianti dissacratorie, decise ad aggiungere alla pregnanza contenutistica originaria il richiamo ai segnali discorsivi in stile Gomorra, frammisti ai forestierismi comportati dall’adozione del rap, concedono ugualmente qualche banalità di troppo. A dispetto dell’indubbia esperienza di Martone, destreggiatosi nella sua lunga carriera tanto nel cinema, attraverso la correlazione oggettiva ed emblematica tra habitat ed esseri umani, quanto nel teatro, il richiamo figurativo non si tramuta mai in nesso introspettivo. La perizia dei costumi, che sostituiscono gli abiti all’antica del boss col vestiario casual dei “tamarri” odierni, e gli attenti elementi scenografici non bastano a sopperire alla penuria degli opportuni colpi d’ala necessari per rendere l’impasto sempiterno dei sapori di acre, di dolce, di penetrante ad appannaggio del ritratto dell’autocrate eppur magnanimo protagonista. Antonio Barracano. Incarnato dal volenteroso Francesco Di Leva con ammirevole sforzo. Nella mesta consapevolezza, però, di raccogliere una malagevole eredità. A differenza del misurato Massimiliano Gallo che, grazie all’egemonia dei semitoni sugli accenti, ha dato nuova linfa e un’inattesa dignità alla figura del vile, nonché cinico, Arturo Santaniello destinato a dare il benservito ad Antonio Barracano. Nella successiva versione cinematografica pure Martone al timone di regìa ritrova lo smalto dei tempi migliori. Mettendo a frutto ciò che manca al teatro: la geografia emozionale. La scrittura per immagini riesce perciò a catturare le pulsioni del borgo dove nacque l’immenso Totò, i condizionamenti imposti ai suoi abitanti, i timbri antropologici ed etnologici congiunti all’abitudine del territorio di riverberare i modi d’agire e l’altalena di stati d’animo ora convulsi ora accigliati ed elegiaci. Tuttavia delle gag, delle invenzioni, delle creazioni, partorite dal Principe Antonio De Curtis in arte Totò a ogni piè sospinto, non vi è la benché minima traccia.
L’ironia, al contrario, è la prerogativa del regista fiorentino Igor Maltagliati. Per spiegare in maniera facile le cose difficili occorre una massiccia dose d’inventiva. Sul grande schermo è l’assurdo poetico, divenuto già oggetto di spettacolo nel capolavoro Delicatessen, a guidarlo per conferire al ritratto corale dei personaggi, attinti in larga misura ad Altman e al proselito Paul Thomas Anderson, il cortocircuito surreale, l’attimo d’astrazione, che li ricompensa degli affronti giornalieri. A teatro le sue molle sono la facondia dialogica, guidata dal nume tutelare della filosofia senza dare adito ad alcuna elucubrazione teorica, e la vena immaginifica. La vita dopo (nella foto) è frutto proprio del suo affetto per il destinatario optimum: il pubblico presente in sala.
Igor non vuole tediare con disquisizioni cervellotiche ma avvicinare le persone comuni, mettendole di buon umore, agli intrinseci orientamenti spirituali e ad appassionanti riti, impermeabili alla prevedibilità di qualsivoglia tran tran, che vanno a sostituire quelli giornalieri. La vera sfida sarebbe condurre gli impliciti concetti applicativi di karma e biocentrismo nei meccanismi di causa ed effetto relativi alla fabbrica dei sogni. Ovvero al cinema. Frattanto, aspettando che la Teoria del Multiuniverso si tramuti in una pratica condita magari da una mitragliata di battute, ed eloquenti silenzi nelle vesti di debito contraltare, Igor è alle prese con le prove dell’ennesimo spettacolo teatrale: Tequila! L’inedito modello di riferimento è riposto nelle sit-com americane. Agli echi stralunati ed eruditi di Jean-Pierre Jeunet, con Woody Allen che fa capolino, si andrà ad aggiungere, molto probabilmente, una galleria di tipi piuttosto curiosi per tingere di fantastico il grigiore dei racconti intimisti che giocano però col paradosso ed esibiscono i segni impercettibili degli affanni in procinto di cedere il passo al flusso di eventi straordinari ed ellissi significative.
La FACT (Fort Apache Cinema Teatro) punta tutto sulla volontà degli attori d’imprimere nelle loro caratterizzazioni le tinte nere, senza sotterfugi, e porre in risalto, per contrasto, gli slanci della bonomia. La risorsa di tutti gli individui in cerca di riscatto morale. La fondatrice Valentina Esposito guida il proprio cast (nella foto) con mano ferma sottoponendolo alla crescita interiore ed etica connessa alle prove.
«Volli, sempre volli, fortissimamente volli». La massima dell’avveduto Vittorio Alfieri diviene il pungolo decisivo per andare oltre l’impasse dell’esaltamento interiore e scorgere nel proprio passato l’opportuno punto di contatto per le performance da eseguire sull’onda di sentimenti, forse feriti, magari pure slogati, ma colmi dell’energia interiore riflessa dai migliori modelli ispiratori. Il Progetto, che coinvolge attori professionisti ed ex detenuti, desiderosi di scorgere nella gioia di creare l’antidoto contro lo spettro dell’isolamento, ha raggiunto l’acme con la pièce Famiglia. Lo scontro padre-figlio, esacerbato dai divari generazionali, ricava parecchio beneficio, sul piano dell’intensità interiore, dal training sistematico cui l’alacre Valentina sottopone, secondo consuetudine, l’intero suo staff. Da Gabriella Indolfi ad Alessandro Forcinelli ed Edoardo Timmi. Da Chiara Cavalieri e Christian Cavorso ad Alessandro Bernardini. Ed è il contenuto emotivo, posto in essere sull’onda di un’ardua ma determinante spontaneità, frammista alla reviviscenza contemplata dal Metodo Stanislavskij, ad aprire lo scrigno della fantasia insieme alla crudezza oggettiva.
A mettere d’accordo cuore e cervello ci ha pensato soprattutto la regista cinematografica Manuela Tempesta con il prezioso supporto di Giovanni Maria Buzzatti. Diplomato all’Accademia d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” di Roma, l’attore/autore ha unito la sua esperienza con quella di Manuela. La cifra distintiva che l’ha vista ergersi con compitezza ed estrema tenacia nel ruolo di prodiga prosatrice dell’animo femminile ha tratto giovamento dall’attenzione di Giovanni Maria (nella foto nel ruolo di Otello in Shake Fools) per la parola.
L’alta densità lessicale del linguaggio ricercato si va ad appaiare alla bassa densità lessicale del gergo colloquiale. Il pluralismo dei punti di vista d’ascendenza pirandelliana rinsalda le passioni divampanti del teatro shakespeariano. L’inclinazione a far ridere amaramente mostrata dietro la macchina da presa in Pane & Burlesque, il ricorso all’aura contemplativa in chiave panteista nel cortometraggio I sogni sospesi, i palpiti della commozione nella “chicca” d’impegno civile Cristallo confluiscono ora sulle tavole del proscenio con un’ampia gamma, quindi, di echi e controechi.
L’effigie del matto, che sul finire svela le connessioni delle gemme teatrali del Grande Bardo, Shakespeare, con i tristi ed efferati fatti di cronaca, celati dapprincipio dalle ombre blasonate, richiama alla mente Joel Grey in Cabaret. Ed ergo, di rimbalzo, ma senza nessun dubbio, a Pane & Burlesque. Al filo invisibile, quindi, che associa arte ed esistenza. I rimandi all’attualità, a Bibbiano, a Torre Maura, alla dialettica tra conservatori e progressisti, destinata ineluttabilmente a degenerare, pagherebbero dazio all’impasse della monotonia se i nervi, tesi come corde di violino, nonché gli slanci delle attrici non dessero nuova linfa al sottotesto. Mavina Graziani, dolce ed eterea nei panni di Ofelia, sarcastica e fragile in quelli di Desdemona (nella foto), mette in pista dei magici “se”. Le medesime ipotesi di cui Lee Strasberg si servì per assorbire le tecniche d’immedesimazione ed estraniamento del celebre Metodo.
Manuela, guadagnatasi la fiducia e l’ammirazione dell’intero cast, non ha gettato il sasso nello stagno. Anziché restare immobile, ad attendere il movimento dell’acqua, è riuscita a creare un rapporto di coalescenza col pubblico in sala. Quello, almeno, disposto ad anteporre ai cerchi dei sognatori avvezzi ai vani voli pindarici e agli ormai stantii indovinelli di stampo tarantiniano il desiderio di cogliere le parole immortali del drammaturgo inglese in mezzo a sospiri, voluti scompensi, sporcature dialogiche, forme-bandiere del romanesco. Estranee, comunque, ai soliti, vetusti intenti comico-ammiccanti che albergano nei luoghi dell’effimero. Il Teatro Trastevere ha, infatti, accolto con lo spettacolo teatrale Shake Fools una variazione linguistica, umanistica ed evocativa tutt’altro ché fatua.
Alessandro Bernardini e Mavina Graziani, in ultima istanza, meritano una menzione a parte. Il primo (nella foto) per aver letteralmente buttato il cuore oltre l’ostacolo. Per essere riuscito ad analizzare il proprio io, là dove fa più male. Ma, come si dice, quello che non uccide rende più forti. Ed è una sacrosanta verità. Aliena alle secche dell’enfasi di circostanza e alle banalità scintillanti dell’insulsa propaganda. Fort Apache Cinema Teatro gli ha fatto conoscere gli stilemi della cosiddetta resilienza spronandolo a convertire le difficoltà in opportunità. La rabbia in sensibilità. L’oblio in fermo desiderio di rinascita. Nella rappresentazione Famiglia è riuscito, motu proprio, a congiungere la linea trasversale dell’ispirazione con l’attuazione dell’azione passando in tal modo dalla teoria alla prassi.
Lei, Mavina Graziani (nella foto nel ruolo di Ofelia), con la sua inopinata carica espressiva, costituisce un monito per le ragazze che vogliono solo diventare starlette. Ha tratto partito dalla propria avvenenza, dall’esteriorità, per dare l’acqua della vita alle dinamiche interiori. Che presiedono il rapporto tra immagine e immaginazione. Nel linguaggio dei gesti, del corpo, del volto, illuminato con gli accorti contrasti chiaroscurali predisposti in partenza, ha emanato, al posto delle prove meccaniche, sorrette da un’inane puntigliosità, i segreti imbarazzi delle anime ferite che si sentono pesci fuor d’acqua nel grande disegno delle cose. Come se l’ordine naturale avesse chiuso le porte alle creature ipersensibili. Nei suoi confessionali, rivolti al pubblico e, perciò, al mondo apatico, indifferente al sordo rumore dei sentimenti incrinati, sembra, sia pure inavvertitamente, prendere spunto da Vivien Leigh in Un tram che si chiama desiderio e dall’eterea Liv Tyler in Io ballo da sola. Ma, forse, è solo un’impressione. Fatto sta che, al di là dei cenni citazionistici più o meno voluti, la percezione della giustizia e dell’ingiustizia le ha consentito di privilegiare alla sentenziosità declamatoria la fragranza dell’autenticità.
Lo stesso sentimento d’autenticità spinse Totò a esclamare: «Quant’è bello l’addore ‘e teatro». Ed è sempre lui a fungere da guida ideale per gli attori e le attrici che preferiscono lo spirito alla materia, il buon vivere al bel vivere, l’impegno al disimpegno, la cultura al consumismo. Gli applausi scroscianti restano la risposta migliore per premiare la rettitudine delle scelte che ampliano il diapason del dolore, della felicità, degli sghignazzi, dei pianti, della saggezza, dell’impulsività, della sfiducia, della fede. Ed ergo dell’Umanità.
MASSIMILIANO SERRIELLO