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Autore: Sveva Marchetti

Baci Perugina, cent’anni di storia celebrati dalla nuova veste firmata Dolce & Gabbana

Luisa Spagnoli, imprenditrice e fondatrice della Perugina insieme a Giovanni Buitoni, compagno di vita e di lavoro, ideò nel 1922 la ricetta dei famosi cioccolatini quasi per caso. L’idea nacque dall’esigenza di utilizzare la granella di nocciole avanzata dalle altre preparazioni. Così un ripieno morbido, a base di nocciole tritate, farciva una pralina sormontata da una nocciola intera, tutto ricoperto da cioccolato fondente Luisa. Ed ecco il cazzotto, un cioccolatino con il nome e la forma curiosa che ricordava le nocche di un pugno. Fu Giovanni Buitoni che in seguito cambiò il nome, ritenendolo poco adatto per un cioccolatino e poi, trovava più elegante che nei negozi venissero chiesti baci non cazzotti.

Qualche anno dopo, Federico Seneca, l’illustratore dell’azienda, realizzò l’incarto argento con le scritte blu e la confezione con i due amanti ispirati a celebre dipinto di Hayez. Merito di Seneca sono anche i famosi cartigli, ispirati, secondo la leggenda, dai veri bigliettini d’amore che Luisa inviava a Giovanni, nascondendoli proprio nei Baci.
Nel 1939 con l’apertura del primo punto vendita a New York i Baci diventano internazionali. Negli anni, accanto alla classica scatola, vennero affiancate nuove confezioni dai vari formati fino ad arrivare a quella a forma di tubo nel 1981: “Tubiamo?”

Anche la ricetta, che rimane sempre la stessa dell’epoca, si arricchisce aggiungendo delle interessanti varianti. Nel 2011 entrano ufficialmente nella famiglia dei Baci le versioni al cioccolato bianco, al latte ed il fondentissimo, successivamente le limited edition ruby, gold e l’ultima arrivata in collaborazione con Dolce & Gabbana la Dolce Vita con un interessante granella al gusto di limone.

Per celebrare questo traguardo le iniziative partono proprio da Perugia dove lo stabilimento si farà portavoce delle celebrazioni, attraverso un’installazione luminosa che avvolgerà la “Fabbrica dei Baci”. Parteciperanno anche i Maestri della Scuola del Cioccolato con la realizzazione di una torta speciale ed il Museo del Cioccolato Perugina, con l’allestimento di un’intera area dedicata proprio alla storia centenaria dei Baci. Tutto supportato da una campagna pubblicitaria che vedrà protagonista un nuovo spot sulle note di “Per un’ora d’amore” dei Matia Bazar, con la rinnovata creatività di Dolce & Gabbana.

Ovviamente, per il centenario, non poteva che rinnovarsi la collaborazione con Dolce & Gabbana. Il duo stilistico ha già realizzato la collezione per la Linea 100 Anni, che vestirà la versione classica della pralina durante tutto l’anno. Dall’incarto color argento a stelle blu si passa a quello con stelle oro su un fondo blu notte, mentre le confezioni riprendono l’elemento iconico delle maioliche mediterranee, celebrando la storia, l’artigianalità e l’eccellenza del saper fare italiano. Oltre a questa linea continuativa, sono appena uscite due novità pensata appositamente per San Valentino: la collezione speciale 100 anni Cupido con pralina classica racchiusa in una elegante confezione bianca e oro e la limited edition Amore e Passione, con il cioccolatino dal nuovo gusto e vestito di rosso.

La storia dei Baci è legata alla città di Perugia. Da 100 anni si realizza un prodotto rimasto inalterato nel tempo, sempre nello stesso stabilimento di San Sisto e sempre con soli otto ingredienti. Un prodotto, nato in un piccolo laboratorio, che è riuscito continuamente ad innovare, senza mai rinunciare alla ricetta originale. I Baci oggi non sono soltanto una delle realtà industriali più importanti del Paese ma sono considerati anche un’eccellenza in tutto il Mondo.

Alain Locatelli, due giorni a settimana senza i suoi croissant

articolo di Anna Prandoni via Linkiesta.it

 

Milano, il pasticcere Alain Locatelli segue le orme del colosso giapponese Panasonic chiudendo il suo laboratorio due giorni a settimana. Essere più operativo nei giorni di apertura, recuperare le energie, ma soprattutto, godersi di più la vita e preservare la salute fisica e mentale dei propri collaboratori. 

Il nodo cruciale del lavoro è sempre in primo piano: e se il colosso giapponese Panasonic decide di dare ai suoi dipendenti più tempo libero per studiare, fare volontariato e dedicarsi ai propri hobby, introducendo una settimana lavorativa di quattro giorni, il dibattito sul tema resta centrale anche qui da noi. Se per una multinazionale un discorso di redistribuzione del lavoro può essere comprensibile e attuabile, lo è anche per attività diverse, più piccole o addirittura familiari?

Il dibattito è aperto e la carta più alta questa settimana la mette sul tavolo Alain Locatelli, pasticcere-personaggio, bravissimo e dannato, che ha deciso di aprire in pandemia un nuovo locale a Milano, e oggi sceglie di chiudere due giorni a settimana, scatenando una serie di commenti negativi e non da parte degli affezionati ai suoi croissant. La decisione di condividere il suo pensiero su Instagram, lo strumento che gli è più affine, ci fa capire quanto il dibattito si possa esprimere ovunque e non sia per forza da relegare ai tavoli istituzionali: perché per attività familiari, o individuali come quella di Alain le decisioni da prendere sono personalissime, magari scomode, ma sicuramente possono tracciare una strada anche per altri.

«Questo post, non è sulle colazioni. E nemmeno sui dolci». – scrive il pasticcere «Serve per far comprendere agli addetti della ristorazione e non solo, che il doppio day off di riposo è da prendere in considerazione seriamente, se si vuole bene ai propri collaboratori o facenti parte del proprio team, per lavorare in completa serenità». La visione della salute mentale da preservare è sicuramente un nuovo ingresso nel dibattito sul mercato del lavoro, soprattutto in questo settore. E va avanti, Locatelli, nel suo post Instagram: «Lavorare più di 12 ore al giorno, senza nemmeno fare pausa, ritmi forsennati e prediche senza senso, perché non si “rende” mai abbastanza, è controproducente e tossico allo stesso punto. Figurarsi dare solo un giorno di riposo. Esso non porta a recuperare le energie, ma a far venire lo schifo per il proprio mestiere e la propria passione. Bisogna invece cercare di lavorare il giusto, così che uno possa organizzarsi anche nella propria vita e godersela appieno. Si vive una volta sola. Non ho mai incontrato nessuno che mi dimostri il contrario». 

Da qui la decisione di chiudere due giorni, e di essere ancora più operativo e disponibile negli altri giorni di apertura. Con la consapevolezza che confrontarsi e lottare contro i grandi colossi non è il compito dei piccoli negozi artigianali: «Viviamo in tempi con un sistema frenetico e logorante, che ci costringe a ragionare come se fossimo dei piccoli “Amazon” per essere sempre aperti e disponibili alla clientela, a discapito delle stesse persone che vi lavorano dentro. Siamo artigiani, non multinazionali». Il post accorato si chiude con una grande domanda che spesso in questo ambiente è sottovalutata, o mai posta: «Alcuni diranno che basta avere doppio personale di squadra o avere più stagisti per colmare il gap, ma siate sinceri: in quanti in effetti lo fanno, con quei costi sul lavoro assurdi?! Ma soprattutto..tutto questo, fa la vera felicità?». 

Le risposte sono varie, e vanno dalla completa condivisione alle riflessioni: perché se è vero che due giorni senza croissant non sono una tragedia, è altrettanto vero che è problematico ripensare completamente l’economia per come è strutturata oggi. 

Alcuni colleghi sottolineano come per il solo coraggio di iniziare un percorso simile in un negozio Locatelli sia da premiare, pagando di più per permettere di sostenere questa scelta, che appare migliore di molti altri che rimangono aperti solo grazie a stagisti non pagati o turni di lavoro imposti perché “si è sempre fatto così”. La mentalità da scardinare è quella dell’imprenditorialità portata all’ennesima potenza, del guadagno fine a sé stesso, che non tiene conto delle reali esigenze umane, spesso anche dei proprietari. 

Se non si promuove questa mentalità non si cambierà mai il sistema. D’altro canto, è anche vero che bisogna potersi permettere di pagare di più: e se lavoriamo meno, forse anche il nostro potere di spesa scenderà, impedendoci di sostenere queste scelte imprenditoriali coraggiose. Il livello sempre più basso degli stipendi italiani non aiuta, ma ci sono ormai esempi di Paesi, soprattutto nel Nord Europa, che hanno provato e dimostrato che può diventare sostenibile se c’è davvero un cambio di cultura. Forse, in Italia non siamo strutturalmente predisposti, forse il peso fiscale che grava sulle aziende è davvero troppo elevato, e il costo del lavoro troppo alto. Forse, semplicemente, non siamo ancora pronti, non siamo abbastanza maturi per queste scelte così radicali.  Ma il solo fatto che se ne parli è il segno tangibile che la strada è tracciata, che il futuro è vicino, e che – forse proprio grazie all’accelerata di riflessione data dal Covid – anche questo settore cambierà volto a stretto giro, più rapidamente di quanto ci saremmo aspettati.

Con buona pace di chi vuole mangiare il croissant di Alain tutti i giorni della settimana.

M3 KNITWEAR, la maglieria trevigiana diventa moda in Francia e Belgio

Una storia familiare che dura da sessant’anni, la scelta di materiali d’eccellenza e la capacità di creare i prototipi più ambiti (anche per le case reali). Gli ultimi trend: aumentano le richieste per il Mohair elasticizzato e certificato. I titolari: “Operiamo dietro le quinte per le grandi griffe” 

Durante le ultime fiere della moda al centro dell’attenzione c’è stata M3 Knitwear, azienda veneta specializzata nella produzione di capi in maglia con filati di altissima qualità sempre più cercati dai marchi premium per il Mohair certificato ed elasticizzato. Merito di una storia aziendale che dura da sessant’anni e di una gestione famigliare che di fatto rende l’azienda con sede a San Vendemiano, nel Trevigiano, un unicum nel panorama della moda a livello nazionale, capace di servire le grandi griffe mondiali pur rimanendo dietro le quinte.
 
Tra i brand che oggi collaborano con l’azienda trevigiana va citato Natan, marchio storico di abbigliamento in Belgio, una maison celebre a livello globale per eleganza e stile, tanto che le donne della casa reale belga vestono da anni le sue produzioni , imitate dalle donne dell’high society europea. Per loro M3 Knitwear realizza e produce una parte importante del prêt-a-porter di maglia a completamento dei capi di haute couture.
 
Ma l’azienda trevigiana è stimata anche in Francia. La stilista Katia Sanchez, dopo aver lasciato un’attività ben avviata (Des Petits Hauts) ed essersi presa una pausa di un anno, oggi a Parigi propone un brand di maglieria ecosostenibile ad altissima qualità. La sua attività è nata proprio per creare un prodotto che rispetti l’ambiente, un brand green in ogni passaggio della filiera. M3 Knitwear è stata scelta durante il Pitti Filati, grazie al filo puro di Mohair seta che ha saputo proporre. Ne nascono capi di abbigliamento de-stagionalizzati proprio per evitare il consumo di materiali poco durevoli e proporre al contrario capi che devono durare nel tempo. Dalla prima collezione ad oggi i capi venduti (tutti in pre-ordine e on line) sono triplicati, segno di una qualità che viene riconosciuta in tutto il mondo.
 
Tra i fiori all’occhiello dell’azienda c’è la proposta di filati di Mohair certificati e controllati. L’azienda è tra le poche ad essere specializzata nella produzione di maglieria realizzata sia con il filo “fermo” che con quello elasticizzato, molto difficile da gestire. È noto che il Mohair è una fibra tessile di origine animale, ricavato dal pelo della capra d’Angora, prodotta soprattutto in Africa del Sud. La tutela e il rispetto delle capre in quei territori è diventata una priorità dopo i maltrattamenti scoperti e denunciati dal film dell’associazione di animalisti Peta. Per questo le certificazioni che M3 Knitwear propone sono apprezzate: tutelano l’ecosistema dando valore al prodottoÈ questo l’ultimo prodotto di punta del maglificio M3 Knitwear, rifondato dalla seconda generazione nel 1992 come risposta al desiderio di quattro fratelli di dare continuità all’attività di famiglia, il maglificio Sapam, che già era diventato, a partire dagli anni Settanta, una delle attività più rappresentative del settore tessile veneto. Il successo era arrivato già negli anni Ottanta, quando la loro maglieria finì su alcune copertine di Vogue.
 
Oggi l’azienda ha 20 dipendenti. Prosegue la dinastia familiare, iniziata dai genitori ancora giovanissimi. Sono infatti in quattro della famiglia Saccon al timone: all’amministrazione c’è Michele; responsabile produzione è Reginetta; manager della tessitura è Mauro e referente per il prodotto e rapporti coi clienti Marzia. Il fatturato nel 2020 è stato di 3 milioni di euro, dovrebbe essere confermato nel corso di quest’anno nonostante la crisi che il settore moda vive a causa del Covid.

Il nostro dna è quello di una piccola azienda, a conduzione famigliare, che ha sempre lavorato per brand principalmente stranieri, ma anche italiani, tutti di una certa importanza”, spiegano i titolari. “Il nostro tessuto produttivo è fatto sì di grandi aziende conosciute a livello mondiale, ma anche di piccole e medie aziende che nel silenzio si confrontano da sempre con le esigenze di marchi, stilisti e brand di caratura elevatissima che si rivolgono a noi proprio perché siamo capaci di creare un prodotto dalle loro idee. È anche merito di aziende come la nostra, sempre rimasta nell’ombra, se la moda non è solo fast fashion: garantiamo l’esistenza di capi bellissimi, venduti a prezzi medi per i quali i concetti di qualità e del ben fatto sono aspetti prioritari”

 
 
UFFICIO STAMPA VELVET MEDIA
press@velvetmedia.it    
 

KFC in Kenya – lo strano caso delle patatine fritte introvabili

Ecco come una patatina fritta può spiegare i paradossi del commercio globale.

Da qualche giorno in Kenya sta succedendo un fatto strano, nei punti della catena americana KFC sono sparite le french fries. Le patatine fritte non si trovano più e sono state momentaneamente sostituite da specialità locali come il mais o l’ugali. Il motivo? La crisi che da vari mesi sta subendo la catena globale di approvvigionamento delle merci. Le difficoltà della logistica hanno portato oltre ad aumenti vertiginosi dei prezzi in Cina anche a situazioni buffe, come le verdure di cartone a sostituire la mancanza delle vere nei supermercati del Regno Unito. Le patate mancano anche In Giappone e Mc Donald’s, pur di non sospenderne la vendita, ha ridotto la quantità nelle porzioni.

Ma cosa c’è di strano? Il Kenya è un grande produttore di patate ed il loro consumo è elevatissimo. Perché allora non si possono usare le patate locali? La storia è stata raccontata, con tanto di spiegazioni e approfondimento, dal giornalista radiofonico keniota Waihiga Mwaura alla BBC. Le patate che vengono fritte nei KFC del Kenya vengono importate dall’Egitto, e arrivano già pre affettate e questo perché, quelle locali, non soddisfano gli standard qualitativi volti ad assicurare la produzione di un cibo “sicuro per il consumo da parte dei nostri clienti”, come ha detto allo Standard newspaper Jacques Theunissen, chief executive in Africa orientale di KFC. In compenso, ma più che latro per metterci una pezza, il manager ha aggiunto che la farina dei panini e gli ingredienti dei gelati vengono dal Kenya, e l’azienda si è impegnata a testare altri prodotti locali.

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