Nel corso di quella che rappresenta di certo la cerimonia degli Oscar più insolita fino a oggi, segnata dalla crisi post-pandemia, realizzata in modo scarno, con poco glamor, meno star e un set che ricordava i primi gala organizzati dall’Academy di Hollywood negli anni ‘30, abbiamo goduto di qualcosa di insolito e decisamente nuovo: una vera rivoluzione in termini di diversità e integrazione razziale, molto in linea con lo spirito del movimento Black Lives Matter.
Tra le altre cose, infatti, dopo aver superato i Golden Globe e i BAFTA, ieri sera Chloé Zhao è diventata la seconda donna nella storia degli Oscar a ricevere il premio per la migliore regia, oltre a essere la prima donna di un’etnia diversa, nello specifico la prima donna asiatica, a raggiungere il traguardo. Il suo terzo film, Nomadland, acclamato road movie con Frances McDormand – che per questa interpretazione ha peraltro vinto l’Oscar come migliore attrice – aveva già assicurato a Zhao un posto nei libri di storia del cinema, come riportaThe Guardian, quando era stata nominata per competere in ben quattro categorie (oltre alla miglior regia, anche migliore sceneggiatura non originale, miglior montaggio e miglior film) di questa 93esima edizione degli Academy Awards.
Nata a Pechino nel 1982, la regista, produttrice e sceneggiatrice cinese-americana, Chloé Zhao si è formata tra il Regno Unito – dove ha studiato scienze politiche al Mount Holyoke College – e gli Stati Uniti, dove si è trasferita stabilmente per studiare cinema all’università. Dopo aver debuttato con Songs My Brothers Taught Me nel 2015, presentato in anteprima al Sundance Film Festival dello stesso anno, e aver realizzato The Rider, uscito nel 2017, quest’anno con NomadlandZhao ha ottenuto il riconoscimento internazionale, e sappiamo già che alla fine del 2021 dirigerà Eternals, un film di supereroi Marvel con Angelina Jolie e Richard Madden.
Fino a oggi, nei quasi 100 anni di storia degli Oscar, solo sette donne erano state nominate per la categoria di miglior regista (Kathryn Bigelow, Lina Wertmüller, Jane Campion, Sofia Coppola e Greta Gerwig) e unicamente Bigelow e Zhao hanno ottenuto il premio, aprendo le porte a molte donne che potevano solo sognare di essere riconosciute per il loro lavoro. Certamente però, il trionfo di Zhao va oltre: questo riconoscimento alla regista asiatica da parte della mecca del cinema arriva in un momento particolarmente fragile per la comunità cinese negli Stati Uniti e in tutto il mondo. La sua vittoria pionieristica agli Academy Awards di quest’anno avrebbe potuto essere un momento di orgoglio per la Cina, una nazione che negli ultimi mesi è stata oggetto di continue critiche e di incitamento all’odio da parte dell’ex-presidente statunitense Donald Trump, retorica – legata alla ricerca di un nemico responsabile per la crisi pandemica e quindi presente anche in altri paesi – che, come abbiamo già riferito, ha avuto un notevole impatto in termini di aumento dei pregiudizi, della xenofobia e del razzismo contro il popolo cinese e, per estensione, contro altri popoli dell’Asia, sia dentro che fuori i nostri confini, e con particolare virulenza negli Stati Uniti.
Tuttavia, poche ore dopo l’annuncio della sua vittoria, la notizia non è stata riportata sul sito web dell’agenzia di stampa statale Xinhua o sull’emittente statale CCTV, e i post sui social media che celebravano il risultato sono stati censurati, come riferisce la CNN. Il silenzio ufficiale delle autorità cinesi contrasta con quello di marzo, quando Zhao ha vinto il premio come miglior regista ai Golden Globe, e i media statali della Repubblica Popolare si sono precipitati a congratularsi con lei, definendola appunto “l’orgoglio della Cina”.
A ogni modo, alla sua vittoria si aggiunge anche quella dell’interprete sudcoreana Youn Yuh-Jung, che ieri sera a 73 anni è stata insignita dell’Oscar 2021 alla migliore attrice non protagonista per la sua interpretazione nel film Minari, battendo star della statura di Glenn Close (per Elegia Americana), Olivia Colman (The Father – Nulla è come sembra) e Amanda Seyfried (Mank), e soddisfacendo i pronostici che la davano come favorita nella categoria, dopo aver vinto il BAFTFA e lo Screen Actors Guild Award (SAG Awards), come informaThe Guardian.
In definitiva, quindi, nonostante si sia dimostrata lontana da livello di performance cui ci ha abituati l’Academy, questa edizione della cerimonia è stata memorabile per la rappresentanza delle donne, per il riconoscimento della diversità etnica nel cinema– un altro dei grandi vincitori della serata infatti è stato Daniel Kaluuya, insignito del premio come miglior attore non protagonista per il ruolo del Black Panther Fred Hampton in Judas and the Black Messiah, che ha fatto di lui il primo attore nero britannico a vincere un Oscar – e per i film indipendenti in particolare, che finalmente hanno trovato il loro spazio e ottenuto il riconoscimento dall’industria cinematografica americana. Speriamo che questo sia un preludio di ciò che deve ancora venire, e non semplicemente qualcosa di temporaneo, scaturito dalla mancanza di anteprime in questo ultimo anno da parte dei grandi produttori.
Mira Borgo di Luce I Monasteri in Sicilia: la vacanza “bioattiva” nella campagna siracusana, tra lusso, benessere e golf. Il gruppo MIRA Hotels & Resorts punta al rilancio del turismo nei luoghi più suggestivi d’Italia e al sostegno di una filosofia pro-donna.
Mira Borgo di Luce I Monasteri è il 5 stelle del gruppo Mira Hotels & Resorts situato alle porte di Siracusa. Nato da un ex convento benedettino, il resort conserva architettonicamente il fascino originario dell’antico edificio, inserendosi armoniosamente nel paesaggio naturale circostante. La struttura rispecchia tutte le principali caratteristiche del resort bioattivo MIRA, proponendo un’esperienza sensoriale e di benessere a 360 gradi. Dotato di 102 camere e suite, un’ampia SPA e un campo da golf 18 buche 17 par, Mira Borgo di Luce I Monasteri offre tutto ciò che si può desiderare da una vacanza di lusso rilassato made in Italy. Il Golf Club del resort promuove il progetto “MIRA in rosa”, offrendo iniziative esclusivamente dedicate alle donne, ed ha da poco assunto nel suo team una Maestra d’eccezione, Anna Nistri.
A Mira Borgo di Luce I Monasteri, resort “bioattivo” del gruppoMIRA Hotels & Resorts alle porte di Siracusa, la vacanza è sinonimo di relax e rigenerazione profonda a contatto con le bellezze naturali e le unicità del luogo. Il cinque stelle nato da un ex convento benedettino, è il “portavoce siciliano” dell’eccellenza alberghiera a marchio MIRA (brand fondato dai manager Daniela Righi – CEO, e Alessandro Vadagnini – Presidente) a sostengo del turismo nelle destinazioni più intime della Penisola. Tra il verde di agrumeti, palme e ulivi, Mira Borgo di Luce I Monasteri offre un rifugio incantato, a pochi minuti da Ortigia e a poco più di mezz’ora da Modica e Noto, con ampi spazi per praticare attività all’aperto o per concedersi preziosi momenti di relax.
MiraBorgo di Luce I Monasteri rispecchia tutte le caratteristiche del “resort bioattivo”, un concept coniato da MIRA per indicare strutture e servizi in grado di riattivare un benessere profondo e a 360 gradi. Dal punto di vista architettonico la struttura rappresenta la tipologia costruttiva dell’area, conservando tutto il fascino originario dell’antico monastero benedettino e inserendosi armoniosamente nell’ambiente naturale circostante. È proprio la Natura e l’atmosfera ricca di storia dell’entroterra siracusano ad occupare un ruolo centrale a Mira Borgo di Luce I Monasteri: le 102 camere e suite, dislocate in ville e casette, si trovano infatti tutte al piano terra, con affaccio sul parco secolare, sul campo da golf e sui suggestivi cortili della struttura, invitando l’ospite a godersi il paesaggio e a respirarne a pieno l’autenticità. Mira Borgo di Luce I Monasteri propone inoltre il borgo del silenzio, un’area dedicata al riposo assoluto dove rimanere sconnessi dallo smartphone e non solo.
Elbaz, deceduto sabato, ha creato collezioni per una mezza dozzina di case di moda, inclusa la sua, anche se è stato il periodo di 14 anni da Lanvin quello in cui ha lasciato maggiormente il segno, scrivendo un capitolo della storia della moda che gli è valso un posto nel Pantheon dei più grandi designer di tutti i tempi.
Il suo cerebrale senso del fascino e dell’incanto, la sua profonda sensualità e il lusso opulento delle sue creazioni per la maison Lanvin hanno fatto inserire per un decennio e mezzo i suoi show fra i cinque o sei più importanti e attesi défilé del calendario internazionale. Dotato di un caloroso senso dell’ironia, di uno spirito poetico e di una naturale bonarietà, era anche una delle figure più popolari dell’intera industria della moda. E in un settore che può arrivare ad essere spietatamente competitivo, irriconoscente o persino maldicente, Alber è sempre riuscito ad essere rispettoso di tutti.
Elbaz, deceduto all’età di 59 anni, era ancora nella fase ascendente nella sua carriera, avendo appena lanciato l’etichetta AZ Factory, che prende il nome dalla prima e dall’ultima iniziale dei suoi nomi, finanziata dal colosso del lusso Richemont. Un progetto ambizioso, che sembrava destinato a scrivere un altro appassionante episodio nel mondo dello stile.
Il designer è morto all’ospedale Pitié-Salpêtrière di Parigi circa tre settimane dopo aver contratto il Covid-19, anche se era stato vaccinato due volte. Sembrava che avesse superato il momento peggiore e stesse recuperando le forze, ma sabato ha avuto un infarto. Il suo funerale dovrebbe essere celebrato in Israele mercoledì, dove sarà sepolto accanto ai suoi genitori.
Si ritiene che Richemont stia progettando un memoriale in suo onore, anche se, dato il distanziamento sociale richiesto dalle misure anti-Covid-19, l’evento potrebbe non essere organizzato per diversi mesi.
Nato a Casablanca nel 1961, Elbaz si è trasferito da bambino in Israele con il padre parrucchiere e la madre pittrice. Risiedevano a Holon, la città-dormitorio della classe operaia a sud di Tel Aviv. Illustratore di innato talento, Elbaz ha iniziato a disegnare abiti all’età di sette anni, andando poi a studiare alla grande scuola di moda e design di Israele, lo Shenkar College.
Poco dopo la laurea, Elbaz partì per New York, dove finì per essere assunto da Geoffrey Beene, uno dei più grandi designer americani, famoso per l’utilizzo di tessuti modesti, come panno e tela jeans, per creare abiti da sera alla moda. Ad Alber piaceva ricordare che era arrivato a New York con 800 dollari, datigli da sua madre Allegria, e due valigie, una piccola con le sue cose e l’altra grande con i suoi sogni.
Alber ha lavorato per sette anni con il solitario Beene nel suo studio e showroom della 57th Street a Manhattan, mantenendo un profilo basso, visto che Beene era impegnato in una guerra prolungata con il redattore capo di Women’s Wear Daily, John Fairchild. Una polemica che portò quello che allora era il quotidiano di moda dei record a bandire totalmente Beene dal giornale. Un giorno, dopo una presentazione in cui Beene ricevette una pioggia di complimenti per un vestito che Elbaz aveva disegnato dal primo all’ultimo elemento, lo stilista israeliano si rese conto che era ora di voltare pagina e trasferirsi.
Fortunatamente, nel 1996 Elbaz è stato strappato all’oscurità dell’anonimato quando è stato nominato direttore creativo di Guy Laroche dal suo visionario CEO Ralph Toledano.
“Mi aveva mandato il suo curriculum su carta rossa, con sopra il suo nome “Alber Elbaz” scritto come un logo. Comprendeva chiaramente la sua identità ed era molto consapevole e intuitivo. Così l’ho incontrato al Carlyle di New York, e questo tipo basso e grassoccio si presenta con giacca, scarpe e occhiali rossi, e senza calzini… in inverno! E io pensai: è lui. Al suo book mi bastò dare appena una scorsa”, ha ricordato Toledano, oggi presidente della Fédération de la Haute Couture et de la Mode e presidente del marchio Victoria Beckham.
Così Elbaz lasciò Beene dopo 10 giorni e arrivò su un volo di linea con in mano i bozzetti per la sua collezione di debutto a Parigi, dove venne creato un nuovo studio per Guy Laroche, maison all’epoca quasi dimenticata, acquistando i mobili al negozio BHV di rue de Rivoli.
Il suo impatto fu immediato. Lo stilista ottenne recensioni entusiastiche per la sua combinazione di chic francese, brio newyorkese e glamour hollywoodiano.
Durante il suo debutto, a una modella che sta sfilando in passerella si spezza il tacco, ma la top riesce miracolosamente a uscire di scena con eleganza. E, per la gioia di un mortificato Elbaz, il pubblico inizia ad applaudire con entusiasmo. L’applauso fragoroso per il suo debutto, messo in scena all’interno del Carrousel du Louvre, lo porta a fare un lungo giro della passerella, dando inizio a una gloriosa tradizione della sua carriera professionale. Sembrava più un intellettuale di New York nel suo completo sartoriale; capelli ribelli e occhiali cerchiati di metallo, Elbaz amava palesemente questi suoi momenti finali in passerella in cui veniva adorato.
Per il suo secondo show, all’Opera della Bastiglia, a cui partecipava sua madre, WWD lo mise in copertina.
Alla domanda su cosa pensasse della sfilata, Allegria ha risposto: “Non l’ho vista, stavo pregando”.
Tre anni dopo, è stato assunto da Pierre Bergé per essere il primo stilista di prêt-à-porter della collezione Yves Saint Laurent Rive Gauche, dopo il semi-pensionamento di Yves. Un sogno d’infanzia per qualsiasi designer, ma un’esperienza estremamente difficile per Elbaz, visto che lo staff di YSL ha praticamente incrociato le braccia al suo arrivo.
Durante il suo mandato, Yves non è mai andato a nessuna delle sfilate della linea Rive Gauche concepita da Alber e ha continuato a disegnare l’alta moda. Elbaz riuscì a creare tre mirabili collezioni Rive Gauche senza però raggiungere mai le sue maggiori vette creative, prima di essere licenziato nel 1999 quando Gucci acquisì YSL e assunse Tom Ford come designer.
Nel successivo periodo sabbatico di 18 mesi, Elbaz è persino riuscito a disegnare una sola, brillante collezione per Krizia, il cui valore venne testimoniato da una manciata di giornalisti e buyer, prima di lasciare l’etichetta dopo appena tre mesi. Molti hanno scherzato dicendo che quella era stata la sua migliore collezione per YSL.
Prima di riemergere da Lanvin e riprendere il suo percorso verso la gloria realizzando oltre una ventina di collezioni iper-influenti. Le sue prime linee per Lanvin furono lodate universalmente. L’8 ottobre 2006 Fashion Wire Daily scriveva: “Finalmente, l’ultimo giorno del tour di quattro settimane delle capitali mondiali della moda, una stagione impantanata in idee retrò, Lanvin ha offerto qualcosa di nuovo ed emozionante”.
Quello è stato uno di quegli show in cui tutto è andato a posto come doveva, in cui il mood, la musica, lo stile e il trucco si sono mescolati in modo nuovo… Ma ciò che contava di più erano i vestiti, dove un tocco di futurismo, una dose di nitore chic e alcuni abiti strepitosamente ben tagliati hanno portato alla creazione della collezione più importante della stagione. La linea per la Primavera-Estate 2007 ha segnato anche una svolta significativa nel design per il direttore creativo di Lanvin, che ha portato la sua moda su un terreno molto più sexy. Prima, Elbaz si attaccava agli stili, esibendo un’eleganza parigina modernista. Quel giorno abbiamo assistito a un maestro che creava vestiti più estremi e provocatori: bellezze autoritarie e vestite di scuro in tessuti high-tech che arrivano a dominare qualsiasi spazio o stanza in cui entrano.
“C’era un filo di futurismo”, disse Elbaz a FWD, pochi minuti dopo aver ricevuto una standing ovation e il più grande applauso collettivo della stagione. “Ma non è come negli anni ’60 o ’80 quando si trattava di power dressing. Le donne hanno più potere oggi. Questa collezione parlava del potere delle loro menti”.
Elbaz avrebbe continuato a mettere in scena alcuni show straordinariamente teatrali spaziando per Parigi, partendo dall’Opera Comique, dove Bizet ha proposto per la prima volta la “Carmen”, prima di accontentarsi della Halle Freyssinet, una gigantesca stazione ferroviaria in disuso dove il suo bellissimo cast sembrava apparire dall’infinito, in un magico gioco di prospettiva. Lavorando con il produttore di spettacoli Etienne Rousseau, Elbaz ha anche sviluppato un portale a sbalzo unico, che dava ai suoi défilé un’illuminazione cinematografica immediatamente riconoscibile. Inoltre, le sue collezioni erano sempre messe in scena in modo estremamente elegante, a partire dalle targhette scritte a mano – con solo i nomi degli ospiti indicati sulle sedute in stile Luigi XVI.
Decine di star del cinema hanno assistito alle sue sfilate, mentre Elbaz ha continuato a vestire letteralmente centinaia di attrici a livello internazionale. Da Natalie Portman, Meryl Streep, Kim Kardashian e Kate Moss a Nicole Kidman, Chloé Sevigny e Sofia Coppola.
Collaborando con il designer dell’abbigliamento maschile di Lanvin Lucas Ossendrijver, Elbaz ha anche reso il marchio influente nell’abbigliamento maschile – utilizzando tessuti improbabili per gli uomini, come il raso duchessa; realizzando camicie button down con le perle; e abbinando smoking con pantaloni da jogging. Lo stile personale di Elbaz (dalle sue cravatte gros-grain agli occhiali neri squadrati alla sua preferenza per non indossare mai i calzini) ha anche creato una nuova idea di stile maschile.
Ma Elbaz sarà ricordato soprattutto per la sua inimitabile arte nel drappeggio e la capacità di creare tubini e vestiti scultorei dal taglio indulgente per la figura, nonché sublimi abiti da cocktail. Ma oltre a questo va ricordata la sua tavolozza di colori spesso straordinaria: rosa chiaro leggermente tenue, beige violaceo e carbone lucido, tonalità che si associano più al trucco che ai vestiti.
I suoi show sono diventati assolutamente imperdibili, come la straordinaria collezione Autunno-Inverno 2008, realizzata principalmente in gros-grain nero, con nastri in stile armadillo su camicette da suora sexy, gonne tagliate asimmetricamente e alcuni abiti da sera deliziosamente ben disegnati.
In seguito, un Elbaz per una volta cupo è uscito a salutare il pubblico in mezzo ad intensi applausi, poche settimane dopo la morte di sua madre Allegria, dalla quale volò decine di volte quell’inverno per andarla a trovare in Israele, disegnando anche a tarda notte in ospedale. Un commovente promemoria che la classe è il trionfo dello stile sulle avversità.
Sebbene non abbia mai prodotto una collezione d’alta moda, ogni anno a gennaio durante la stagione parigina della Haute Couture, Elbaz presentava la pre-collezione Lanvin prendendo un caffè al mattino con una manciata di giornalisti e critici all’interno di un salone dorato dell’Hôtel de Crillon. Era il ritrovo di moda definitivo e per eccellenza degli addetti ai lavori, un tutorial di stile in cui parlava al suo pubblico attraverso ogni look, durante il quale ci si chiedeva se in una vita precedente non fosse stato un cabarettista. Come quando ricordò l’ultima volta in cui si era rivolto a un pubblico newyorkese spiegando che Lanvin aveva sviluppato sette collezioni “satellite”. “Ma tutti pensavano che avessi detto cellulite”, ridacchiò.
Molto prima dell’esplosione di Black Lives Matter e degli altri movimenti odierni per l’inclusione, una mattina in hotel ha presentato un’altra collezione utilizzando un cast interamente nero. Situato proprio dietro l’angolo del quartier generale di Lanvin, il Crillon è diventato la mensa di Alber, dove chi vi scrive ha avuto il piacere di pranzare con lui in varie occasioni. Non faceva per lui l’umorismo acido di tanti altri ambiziosi designer, invece Elbaz mostrava sempre gioia di vivere e un enorme rispetto per i suoi colleghi, mentre cercava e chiedeva sempre nuove idee.
Durante una conferenza tre anni fa al The Israeli Museum, ha detto al pubblico presente: “I vestiti sono sempre nuovi, ma il metodo non lo è. Non esiste industria al mondo che funzioni a una tale velocità, fashionisti che corrono una maratona, e stanno sempre a correre e correre, me compreso, …e senza perdere una sola caloria. Un cantante può produrre otto successi all’anno e nessun grande scrittore può scrivere “Guerra e Pace” in 12 diverse varianti in un anno. Ma nella moda, sia a livello locale qui in Israele che in tutto il mondo, ai designer viene richiesto di essere più grandi, più economici e più veloci. Siamo nevrotici, siamo sorpresi di [riuscire ad] essere sempre così veloci”.
Sempre orgoglioso della sua cittadinanza israeliana, Elbaz ha finito per essere il Mosè della moda del suo popolo, un campione che li ha aiutati a condurli nella terra promessa.
Mentre era da Lanvin, ha anche prodotto una collezione per H&M, democratizzando la sua moda altrimenti costosa; e ha ricevuto numerosi premi, dall’International Designer of the Year del CFDA alla Legion d’Onore. Successi che ha condiviso con il suo partner di lunga data e il più fedele dei compagni, Alex Koo.
Tuttavia, dopo numerosi show trionfali, hanno cominciato a diffondersi voci sul fatto che Elbaz fosse ai ferri corti con la proprietaria della maggioranza di Lanvin, l’imprenditrice taiwanese Shaw-Lan Wang. Ciò nonostante, quando Elbaz è stato licenziato nell’ottobre 2015 la notizia ha generato un grande shock. La sua rimozione è ancora considerata uno degli autogol più stupidi nella storia delle gestioni dei marchi di lusso, poiché secondo l’opinione della maggior parte degli esperti essa ha dimezzato dall’oggi al domani la valutazione di Lanvin.
Dopo Lanvin, lo stilista svilupperà un profumo con Frédéric Malle e una collezione di scarpe e borse con Tod’s, prima di trovare un finanziatore ideale in Richemont per lanciare la sua casa di moda. Alber Elbaz ha fatto debuttare il suo concept AZ Factory nel gennaio di quest’anno, catturando (a un prezzo accessibile) il suo vero DNA: raffinatezza da ora dell’aperitivo, drappeggi superlativi e la capacità di esaltare la bellezza femminile con una finitura esotica e artistica.
Oltre ad ampliare il suo pubblico di riferimento, Elbaz ha anche infranto alcune regole con il suo lancio, mettendo in scena quello che ha definito “show fashion”, ovvero un finto programma televisivo di varietà.
Per un po’ di sprint, un abito dallo scollo profondo tagliato con spalle a sbuffo e maniche a zampa di montone; o un perfetto vestito da sera dotato di un enorme fiocco posteriore. Undici capi in totale, lanciati a poche settimane di distanza uno dall’altro, creazioni nuove proposte in diverse tavolozze di colori.
“Ma questa non è una capsule collection, perché mi ricorda gli antibiotici!” ha scherzato, nella mia ultima conversazione con lui, vis-à-vis su Zoom. E tutti abiti realizzati in taglie dalla extra-extra-small alla extra-extra-extra-extra large.
“Conosco troppe donne che vanno al reparto bambini per comprare vestiti! Questo è un progetto orientato alle soluzioni”, ha sottolineato Elbaz.
Lo stilista ha chiamato i suoi abiti da sera “Diamonds and Pearls”, con tubini neri dagli ampi décolleté decorati con collane di cristallo logate e orecchini pendenti; o con diverse collane di perle oversize. La sua altra decisione chiave è stata quella di far calzare al suo cast delle nuove sneaker a punta allungata a forma di ballerine. Un modello che ha chiamato “Sneaky Pumps”.
“È lo stesso cuoco, ma con ingredienti diversi in cucina”, ha detto.
Il suo grande amico Toledano ha dichiarato: “Almeno Alber era stato molto felice in questo periodo dopo diversi anni molto difficili. Amava la gente e l’umanità era sempre al centro di ogni cosa per lui. La moda ha sempre riguardato uomini e donne. E Alber li amava e amava essere amato. Ed era amato da così tante persone”.
Alla fine è ironico, ma di un’ironia estremamente amara, pensare che proprio Alber sia stata l’ultima vittima di questa maledetta pandemia, lui che aveva scelto personalmente di isolarsi in un precauzionale lockdown, che ha osservato rigorosamente il distanziamento sociale e che teneva flaconi di gel disinfettante ovunque.
Resta il fatto che nella propria carriera pochi designer hanno creato così tanta bellezza e sono riusciti a farlo con tanto umorismo, tenerezza e brio.
Non est ad astra mollis e terris via – Non esiste una via facile dalla terra alle stelle.
Prima le Instagram Stories, poi il boom dei podcast e infine il fenomeno Clubhouse. Gli ultimi mesi hanno visto fiumi di parole condivise sui social network. La moda spinge l’acceleratore sulla comunicazione verbale che sembra strizzare l’occhio al mondo della radio e delle trasmissioni televisive in cui gli ospiti si raccontavano senza filtri. Gucci non sta a guardare e lancia un nuovo progetto per celebrare le linee di accessori Gucci Beloved. Il direttore creativo Alessandro Micheleha tratto ispirazione dai famosi late-night show hollywoodiani per dare vita a sei episodi del The Beloved Show. L’attore e conduttore James Corden, realmente impegnato col proprio programma in onda sulla Cbs, intervista il musicista Harry Style, la campionessa sportiva Serena Williams, le attrici Diane Keaton, Sienna Miller, Awkwafina e Dakota Johnson. Durante le brevi clip le star ospiti del talk show parlano delle loro recenti attività sfoggiando i modelli Dionysus, Jackie 1961, Gucci Horsebit 1955 e GG Marmont.
Upcycling è un termine che compare sempre più spesso nelle notizie. Ma sai davvero di cosa si tratta? Oltre a ridurre gli sprechi, l’upcycling potrebbe portare a grandi risparmi energetici, se la tendenza fosse a livello industriale.
Auguri a dame Vivienne Westwood che a 80 anni, compiti l’8 aprile scorso, resta una vera donna punk.
Ambientalista, progressista e controcorrente. È così che la stilista dai lunghi capelli bianchi e trucco teatrale ha cambiato il corso della moda diventando una vera istituzione per la moda britannica e mondiale.
Da sempre la Westwood è ambientalista predicando, nel vero e proprio seno della parola, con un trasporto quasi adolescenziale, in favore di una riduzione dei consumi, dell’attenzione all’ambiente, e adesso anche contro il mercato delle armi. La moda sembra interessarla sempre meno – ha lasciato al marito, Andreas Kronthaler, le redini della linea principale, tenendo per sé quella che porta il suo nome, fatta di riedizioni aggiornate di un catalogo di idee più vivo che mai.
Il suo percorso è passato dal punk estremo al new romantic. Inizialmente compagna del geniale Malcolm Mclaren, impresario musicale dalle ascendenze situazioniste, ha inventato il look fatto di cinghie e spille da balia del punk britannico; poi, all’inizio degli anni 80, i due hanno creato il new romantic, che avrebbe ispirato Blitz Kids e Duran Duran, e che ha trovato nell’iconografia corsara della collezione Pirates (1982) la sua summa. Quando si è messa in proprio e ha canalizzato la verve trasgressiva attraverso una rilettura potente del costume storico – dal settecento alla belle epoque, con elementi rinascimentali – ha stravolto una iconografia in apparenza conservatrice per farne veicolo di progresso e rottura.
Sul fondo sempre lo sberleffo, l’irriverenza ed il gusto del gioco. Nel 1989 Tatler la mise in copertina, travestita da Margaret Thatcher, con lo strillo «this woman was once a punk» (questa donna è stata una punk).
Vivienne Westwood è uno dei pochi personaggi dei quali si può davvero dire che hanno cambiato il corso della moda: non comunicando, ma facendo.