Ben Gurion Epilogue: un documentario del 2016 con un’intervista-verità del 1968
IL PREMIER ISRAELIANO E LA SUA INTERVISTA LUNGA BEN SEI ORE A CLINTON BAILEY
Quarantacinque anni fa, il 1 dicembre 1973, nel kibbutz di Sde Boker, nel deserto del Negev, moriva David Ben Gurion (nome originario, David Grun), massimo “Founding father” dello Stato d’Israele: l’uomo che, nato in Polonia nel 1886, già a vent’anni, nel 1906, aveva fatto la sua prima “Aliyah”, il ritorno nella madrepatria ebraica, all’epoca ancora sotto il dominio della Sublime Porta. E che dopo la Prima guerra mondiale (che egli, dopo iniziali simpatie per l’Impero ottomano, aveva combattuto tra le milizie ebraiche arruolate nell’esercito britannico), aveva pazientemente raggiunto posizioni di rilievo nel sindacato ebraico Histadruth, nel movimento sionista (esattamente nel partito Mapai, forza egemone della sinistra sionista, antenato dei laburisti) e, soprattutto, nell’Agenzia Ebraica, organizzatrice della colonizzazione della Palestina, allora sotto mandato britannico.
Sostenitore del liberale moderato Chaim Weizmann alla presidenza dell’Organizzazione Sionista Mondiale, poi – dopo i sanguinosi scontri degli anni ’30 con gli arabi, contrari a qualsiasi ipotesi di spartizione della Palestina – favorevole al piano di divisione del Paese preparato nel ’37 dalla Commissione Peel (che era addirittura più favorevole agli arabi), Ben Gurion emerse anche come organizzatore delle forze di difesa ebraiche, Che nei primi anni ’40, mentre la graduale avanzata di Rommel verso il Cairo proiettava anche sul Medio Oriente l’ombra della minaccia nazista, egli cercò d’ unificare, guardando all’inevitabile, futuro scontro coi Paesi arabi. Dal 14 maggio 1948, giorno della mitica Dichiarazione d’Indipendenza di Israele, al 7 dicembre 1953, Ben Gurion sarebbe stato Primo ministro e massimo responsabile della Difesa nazionale: sconfiggendo gli arabi (grazie anche alle massicce forniture d’armi ricevute sia dagli USA che dalla Russia di Stalin) e dedicandosi poi, fortemente, allo sviluppo dell’agricoltura e delle risorse idriche del Paese. Ritiratosi dalla politica, nel ’55 – un po’ come Churchill in Inghilterra e, in seguito, De Gaulle in Francia – Ben Gurion sarebbe stato “richiamato” al governo dalla pressione dell’opinione pubblica: guidando ininterrottamente l’esecutivo dai giorni della crisi di Suez, con la seconda Guerra arabo-israeliana ( autunno ’56), sino al 1963, anno del suo definitivo ritiro a vita privata.
Al “Pitigliani”, centro culturale della Comunità ebraica di Roma, è stato proiettato “Ben Gurion Epilogue”: film documentario realizzato nel 2016, dall’israeliano Yariv Mozer, utilizzando una lunga intervista all’ex-Premier (inizialmente, addirittura 6 ore) fatta, nel 1968, dal giornalista ebreo americano Clinton Bailey (i filmati erano nell’Archivio Spielberg; le bobine magnetiche col sonoro, son state fortunosamente ritrovate negli archivi dell’azienda produttrice, una società britannica). Una vera “chicca”: che, girata in gran parte nel kibbutz di Sde Boker (dove lo statista israeliano sarebbe vissuto sino alla morte, nel dicembre 1973), mostra un Ben Gurion/Cincinnato, ormai più che 80nne. Che, continuando ad alternare quotidianamente lavoro manuale, studio e lunghe passeggiate, vive – pur dopo la morte della moglie Paula – una vecchiaia serena, seguendo sempre le vicende del suo Paese, al quale, nei momenti più difficili (sono gli anni della Guerra dei Sei giorni, del terrorismo delle fazioni palestinesi più violente, sino al massacro delle Olimpiadi di Monaco e alla Guerra del Kippur), contribuisce a fornire il suo prezioso contributo di esperienze. Un’intervista che cerca d’evitare l’agiografia: e che, ricordando a tratti – pur in un contesto diversissimo – quella storica, di molti anni dopo, di David Frost a un Nixon ormai pensionato, cerca di scavare anche nella psicologia del personaggio, e di capire i motivi delle sue scelte anche meno condivisibili.
Vediamo, così, un Ben Gurion che, memore, evidentemente, dei massacri che, nella Guerra d’ Indipendenza d’ Israele, furon compiuti nei confronti anche di villaggi palestinesi, ribadisce che gli ebrei hanno il diritto storico di abitare e migliorare la terra d’Israele,ma non di portarla via agli altri. E il dovere, prescritto, tra l’altro, dal Levitico, 19 (in un brano che fa esattamente da contraltare a quelli che favoriscono, invece, un senso di superiorità ebraico), di trattare i forestieri che vengano a stabilirsi in terra ebraica esattamente come fratelli. Mentre i filmati d’archivio mostrano un Premier che, nei primi anni ’50, grazie anche all’amicizia personale col cancelliere tedesco Adenauer, riesce ad ottenere dalla Germania Ovest consistenti risarcimenti finanziari, in parziale riparazione della Shoah (affrontando, al tempo stesso, forti opposizioni di piazza della destra israeliana, specialmente dei religiosi). Pragmatismo e buonsenso sono, già da prima della vecchiaia, i tratti salienti di questo politico, tra i massimi esponenti del sionismo: che, però, non si definisce sionista ( “almeno non in senso tradizionale”), né propriamente socialista (“non dimentichiamo che anche Hitler e Stalin si definivano così”) , ma semplicemente “un ebreo che vuol vivere in un Paese dove ci sia posto per tutti, nella pace”. E che, potendo scegliere tra la pace e le terre conquistate nella guerra del ’67, personalmente preferirebbe rinunciare ad esse (tranne, però, Gerusalemme e le Alture del Golan, essenziali, queste ultime, per la sicurezza del Paese) in cambio di pace sicura. Una dichiarazione, quest’ultima, che oggi, più di vent’anni dopo quell’assassinio di Ytzhak Rabin (novembre 1995) che avviò l’incagliarsi di quel grande processo di pace iniziato, pochi anni prima, con gli accordi di Oslo e di Washington, assume veramente il sapore della profezia.