Campo, Rilke, Tranströmer:
le ragioni di una lettura
La Violenza della Parola Poetica
e la tensione verso una dimensione altra
viaggio nella violenza poetica di FRANCESCO RICCI
Rainer Maria Rilke (1875-1926), Cristina Campo (1923-1977), Tomas Tranströmer (1931-2016) sono tre dei maggiori poeti del Novecento. Ad accomunarli, oltre al “parlare per segni” (il simbolismo), concorrono la malattia, il pessimismo, il giudizio critico nei confronti del loro tempo, il riconoscimento dell’importanza del silenzio, l’acuto senso della transitorietà.
Leggerli comporta che si faccia non soltanto un’esperienza di natura estetica, ma anche conoscitiva. Una conoscenza, va detto subito, che si riflette sulla maniera d’intendere e di esperire l’esistenza. Non è certo un caso, ad esempio, se già al loro apparire le Lettere a un giovane poeta di Rilke subito si diffusero, osserva Leone Traverso, come un breviario “non tanto d’arte quanto di vita”. Ed è proprio su questo punto che vorrei soffermarmi: cosa ci possono insegnare oggi questi tre poeti? Su cosa sono in grado di richiamare la nostra attenzione? Di cosa offrono testimonianza, ancor prima che con le loro parole, con l’esercizio, con l’attività, col mestiere di poeta?
Provando a rispondere a tali domande ponendosi ex parte auctoris – dunque, dalla parte di chi fa poesia –, Campo, Rilke, Tranströmer ci ricordano non solo che essere poeta non significa affatto scrivere di getto ciò che del paesaggio naturale o urbano colpisce i nostri sensi, ciò che pensiamo, ciò che ci scuote e ci turba l’anima. La poesia, infatti, fin dal suo primo apparire, rinviene come sue caratteristiche essenziali la figuralità (la presenza, cioè, di figure retoriche) e la polisemia (vale a dire, la coesistenza di significati diversi in una stessa parola o sintagma), le quali bastano, da sole, a impedire ogni confusione tra il semplice dire e il dire poetico.
Non si dà mai poesia senza sacrificio, dal momento che la poesia non si accontenta, per venire alla luce, degli spazi interstiziali fra il lavoro, le occupazioni legate al quotidiano, le relazioni sociali, gli svaghi e i passatempi. Neppure quando il poeta invita il pubblico a lasciarlo divertire (Palazzeschi) o confessa la propria vergogna a definirsi poeta (Gozzano) o si paragona a un fanciullo che piange (Corazzini), dobbiamo pensare che tali dichiarazioni neghino la serietà del fare poesia.
Al contrario, più si allarga la frattura tra artista e società borghese, più il primo riafferma il valore del discorso poetico in un mondo ormai dominato dall’utilità, dal guadagno, dall’economicità. Anche l’ironia e l’abbassamento di tono richiedono tempo, esercizio, impegno, pazienza. Insomma, figuralità e polisemia. La poesia, la vera poesia, come la vita per Nazim Hikmet, non è uno scherzo e chiede di essere presa molto sul serio.
Campo, Rilke, Tranströmer intendono il destino di poeta sia come compimento della vita sia come sacrificio della vita, mostrando quanto attività creativa e vocazione religiosa siano affini. Come compimento, in quanto dedicarsi alla poesia corrisponde a una chiamata, a un imperativo, a un potente demone interiore, dando piena attuazione al precetto nietzschiano “diventa ciò che sei”. Come sacrificio, perché hanno appreso sulla loro pelle che profonda e insanabile è l’inimicizia che sussiste tra Leben (vivere) e Dichten (essere poeta).
Per dedicarsi all’arte, infatti, occorre essere disposti a sacrificare anche gli affetti più cari, anche le occupazioni che pure ci sembrano piacevoli e belle. Per scrivere versi c’è bisogno di abnegazione e disciplina: sotto questo aspetto, la definizione che Antoine Albalat ha dato di Gustave Flaubert (“il Cristo delle lettere”) può essere applicata alla perfezione anche ai nostri tre poeti.
Loro incontrano il mondo, si mescolano col mondo, ma finiscono sempre, poi, col ritrarsi da esso. Non sono moderni eremiti, non si negano all’amore. Neppure Rilke, che si pone interamente al servizio dell’arte (in questo lo scultore Rodin e il pittore Cézanne sono i suoi modelli) e giudica la solitudine la condizione destinale del poeta. Si sposano, hanno dei compagni o delle compagne, ma quando occorre, o li tengono a debita distanza o vi rinunciano.
Il piccolo appartamento sull’Aventino vicino all’abbazia di Sant’Anselmo, dove Cristina Campo vive dal 1968, e il castello di Muzot, dove nell’inverno del 1922 Rainer Maria Rilke compone le Elegie duinesi e i Sonetti a Orfeo, diventano il simbolo della tana-guscio-cella monastica, dove il poeta si ritira per realizzare la sua creazione.
Solamente lontano dagli uomini e immerso nel silenzio – anche il silenzio, e nessuno ne è stato convinto più di Tranströmer, che giunge a definirlo “il versante muto della musica”, è una forma di linguaggio – il poeta si pone in ascolto, presta attenzione, attende (identica è in latino la radice di attesa e di attenzione), accetta il rischio di subire, ha scritto splendidamente Campo all’amica Margherita Pieracci Harwell, “la violenza muta della parola quando vuole diventare verso e non ci riesce”. La resistenza, che la pagina bianca sa opporre a chi intende profanarla con la scrittura, può essere tremenda, tremenda e paralizzante, come lo era la tela vuota che fissava Vincent Van Gogh.
Invece, considerati ex parte lectoris – dunque, dalla parte di chi legge poesia –, Campo, Rilke, Tranströmer contribuiscono a rieducare il nostro sguardo sulla realtà, mostrando quanto sia angusta e falsa ogni visione che riduce l’esistenza a ciò che si vede, si tocca, si misura, a ciò che, in sostanza, è calcolabile.
In loro, infatti, è presente una costante tensione verso una dimensione altra rispetto a quella sensibile, terrena, di cui tutti facciamo quotidianamente esperienza. Ciò che cambia è casomai la natura di questo assoluto che si contrappone al relativo, di questo permanere che si contrappone all’universale passare.
In Campo, infatti, è Dio, è il Regno dei cieli – “Due mondi – e io vengo dall’altro”, scrive in Diario bizantino –, in Rilke, che non è credente, è l’insieme delle cause profonde e sepolte per cui un ente è proprio quell’ente e non un altro (un cane è un cane, un albero è un albero), per Tranströmer, infine, anche lui lontano da ogni forma di religiosità confessionale, è il mistero che è dentro di noi e che ci sovrasta, è l’ineffabile, sono le dimensioni misteriose del reale. In tutti e tre, però, la dimensione della verticalità dell’esistenza, intesa come superamento della mera orizzontalità, della pura fatticità, appare ben presente. Così come ben presente – e questo è il secondo insegnamento che Campo, Rilke, Tranströmer continuano a offrirci – è il riconoscimento della superiorità della contemplazione sul fare, della meditazione sull’agire finalizzato a uno scopo. Nei loro versi lo stupore – il miracolo – dinanzi all’essere, quietamente sopravvive e brilla.
Splendidamente inattuali e imperdonabili, perciò, Campo, Rilke, Tranströmer.