C’era una volta… Er Brasiliano a Roma Nord
L’UNIVERSITÀ DELLA STRADA DI UN RAGAZZO VENUTO DAL BRASILE
E niente: di dormire non se ne parla. Troppi pensieri in capoccia. Oltre a una borsite alla spalla che di notte bussa più che di giorno. La mia dolce metà invece ronfa. Beata lei. Mo ce provo anch’io. Ma prima di cadere tra le braccia di Morfeo, mica l’ex giocatore dell’Atalanta, la mente e il cuore vanno all’ennesimo amico fraterno che ha coniugato la vita all’imperfetto. Un tipo originale. Come Italo Balbo. Aho, non l’ex centravanti della Magica Roma! Sergio Ceglia detto Er Brasiliano era un fiume in piena. Col gusto dell’iperbole. Io al confronto sembravo uno che aveva fatto il voto del silenzio. Un film muto di Charlie Chaplin. Ma lui stava in fissa col cinema. E anche con me.
Era un fratello. Un buttafuori gentile, ironico, curioso della cultura, autodidatta, arguto. Con gli slanci dell’attore che lavora su se stesso e sul personaggio. Lui, Sergetto, personaggio lo era sul serio. La strada di Roma Nord, con Vigna Clara nel cuore e sugli scudi, era il suo palcoscenico. Noi ci vedevamo più che altro alla Sbarra. Sulla Cassia. Dove faceva il guardiano alle case degli attori. Lui che era più attore e spontaneo di tutti loro messi insieme. L’amico Fabrizio lo conosceva meglio di chiunque altro: il chiodo fisso era il cinema.
Si parlava soprattutto di John Milius. Il regista dell’inobliabile cult Un mercoledì da leoni. Ma anche del negletto mélo Yakuza di Sydney Pollack, che lo commuoveva fino alle lacrime (Sergio era sensibilissimo) quando Robert Mitchum nel ruolo del detective in pensione Harry Kilmer si taglia il mignolo sinistro per onorare da uomo di destra l’amico giapponese Ken Tanaka (scusandosi di aver portato tanto dolore nella sua vita; «nessun uomo ha un amico più grande di Kilmer-san» è la risposta dopo il protocollo dell’espiazione dello “yubitsume”). Dell’applaudito film pugilistico Toro scatenato di Martin Scorsese, che Sergio amava in modo particolare perché Robert De Niro nel ruolo dello scontroso ma carismatico boxeur italo-americano Jack La Motta in quel film gli ricordava il suo amico del cuore Stefano. Dell’apologo per antonomasia sulla strada I guerrieri della notte di Walter Hill (Er Brasiliano viveva di notte: la mattina faceva certe penniche) e, last but not least, della parabola sulla ricerca del tempo perduto C’era una volta in America di Sergio Leone. «Sono andato a letto presto» risponde Noodles alias De Niro all’amico che gli chiede cosa abbia fatto in tutti gli anni passati lontano dal suo quartiere. Il quartiere che aveva adottato Sergio era Vigna Clara. Piazza Jacini. Ogni volta che vado al cinema Odeon (da critico cinematografico mi capita di vedere là pure le rassegne dei cortometraggi) penso a Sergetto. Che da ragazzo era secchetto. E crescendo è lievitato. «Hai preso ciccia pe’ ammortizzà li cazzotti in discoteca?» je domandavo scherzando. E lui rideva. Con la lingua stretta tra i denti. E l’occhio da matto ma buono. Che aggiungere? Ci sarebbe un libro da scrivere su questo Ragazzo di Roma Nord venuto dal Brasile. Ma se mai lo scrivessi non sarebbe per farci i soldi (tanto chi lo legge? Giusto gli amici) ma per sentire Sergetto vicino. Per prenderlo in braccio («ammazza che forza hai; pari Ferrigno» era solito ripetere). Lontano dalle secche della retorica di maniera.
A Sergio quel tipo di retorica je rimbarzava. Preferiva di gran lunga la retorica dei retori, degli aristoi, i migliori, i profili di Venere, i panini con la salsiccia che mangiavamo a Corso Francia, al treck-food de noartri, gli amici della Cassia, tra cui il sottoscritto, e soprattutto gli amici con cui aveva trascorso l’età verde. A Vigna Clara. Che per lui era geografia emozionale allo stato puro. Con Cascino, un amichetto mio della Cassia che lavorava con lui, ogni tanto ridevamo per le sue uscite. Come quando prese a cazzotti col sorriso sulle labbra un frigo da buttare. Ma, come chiarisce il professore impersonato dal compianto Robin Williams ne L’attimo fuggente, non ridevamo di lui: ridevamo con lui. Ricordo pure che quando lo veniva a trovare alla Sbarra il suo amico Kikko a Sergio brillavano gli occhi. Per lui era come chiudere il cerchio: parlando dell’università della strada, come definiva Roma, specie Roma Nord, delle armi del thriller contemplativo Heat – La sfida di Michael Mann, del carattere d’autenticità di quegli spari, avvalorato dal parere di chi ci capisce sul serio, e in primis del Brasile. Ciao, Sé. Non dico che mi manchi: suona troppo smielato. Scrivo però che ti penso in questo diario pubblico: per me sei vivo. Anche perché conta poco cosa si dice di un amico quando se ne va («nun c’è gnente di più bugiardo di un epitaffio» sostengono i romani de Roma): conta come ti ci rapporti quando ci sta. E noi avremmo parlato e scherzato all’infinito.
Quindi per me ancora ci sei. E ci fai pure. Se beccamo. Un giorno, de sicuro. In un limbo, lassù. Tra via Veientana, casa mia, e Via Flaminia Nuova. Sopra il ristorante Benito. Casa tua (er trasloco te lo feci io: cci tua). A proposito, me stavo a dimenticà: te lo concedo; Heat – La sfida non è una ciofega; dicevo così per fatte rosicà, per non dare soddisfazione, per tenere all’erta lo spirito della replica che prevale sulla materia. Sei stato tu a spiegarmi quanto l’egemonia dello spirito sulla materia rendesse l’action storico-avventuroso Il 13º guerriero sugli armigeri normanni d’origine celtica, a gazzimme con l’aristocratico arabo impersonato da Antonio Banderas, il film più spirituale d’ogni tempo. Heat – La sfida è un capolavoro. Come Il 13º guerriero e Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme. Un giorno ce li rivediamo. Noi che non siamo né innocentini né silenziosi. Zero carbonella.
MASSIMILIANO SERRIELLO