Con il regista Gilberto Martinelli,
un’intervista a tutto tondo sulla “natura del Cinema”
L’INGEGNO DI GILBERTO MARTINELLI:
UN REGISTA CHE RIESCE AD APPAIARE LA TECNICA ALL’AURA CONTEMPLATIVA
Una ‘chiacchierata’ con Massimiliano Serriello
L’aura contemplativa, secondo l’opinione viziata d’intellettualismo dei critici ostili all’egemonia dello spirito sulla materia, serve a distinguere l’oggetto poetico da quello che non lo è.
I convincimenti degli altezzosi seguaci di Guido Aristarco, persuasi d’instillare il materialismo storico e dialettico nel terreno della cosiddetta fabbrica dei sogni, non fanno né caldo né freddo al regista romano Gilberto Martinelli. L’approccio pudico, quasi in punta di piedi, nei riguardi della virtù trascendentale della musica, che per lui costituisce una medicina dello spirito, lo mette in riparo dalle ‘pinzillacchere’ di chi rende la Settima Arte uno stagno zeppo di contraddizioni. A tendere calappi ai falsi eruditi è però la duplice natura del cinema. Da una parte capace di assorbire nel carattere d’ingegno creativo delle ispirate tenute stilistiche il fuoco sacro delle sei arti maggiori. Dall’altra fedele ai dettami di uno spettacolo di presa immediata che, citando Hitchcock, depenna il tedio dall’esistenza.
Senza l’impasse della noia di piombo – a cui gli addetti ai lavori antepongono il professionismo che non strizza l’occhio alle pose snobistiche ma dà l’acqua della vita all’interazione tra industria, tecnologia ed estro immaginifico – a uscire allo scoperto sono quelli che Abramo Lincoln definiva gli angeli migliori della nostra indole.
Gilberto, dinanzi alle discussioni sulle correnti culturali sorte sulla scorta delle scritture per immagini, fa spallucce per evitare di darsi il tono dell’argomentatore smagliante. È un fior di gentiluomo, dai modi garbati, talora quasi timidi, pur tuttavia in grado di dire pane al pane e vino al vino attraverso la sintesi d’informazione culturale ed elaborazione visionaria dei film documentari. L’esperienza in qualità di tecnico del suono, attento ad ‘acchiapparne’ gli emblematici riverberi nella porzione di spazio fisico catturata dall’obbiettivo della macchina da presa e discernere al meglio la performance del cast attraverso una sorta di opportuno risanamento dell’intero set, gli ha permesso di capire come fare un uso personale e disinvolto, ma mai tracotante, di una solida tecnica di ripresa sorretta dalle idonee motivazioni storiche.
La storia, affrontata anch’essa cum grano salis, trascende l’ansia di mettere i puntini su tutte le “i” e gli consente in Guido Romanelli – Missione a Budapest di rendere omaggio alla cultura millenaria dell’Ungheria. Il luogo dove ha trovato una seconda casa e l’humus giusto per conferire spessore all’analisi degli stati d’animo connessi ai luoghi con l’immobilità dei monumenti che cede il passo al dinamismo degli eventi.
La loro rievocazione risulta efficace al pari del rapporto tra il massimo livello di uscita e il rumore di fondo. Nel suo concetto di geografia emozionale, con il mix di elementi naturali ed elementi antropologici sugli scudi, non ci sono partecipi marginali. Tutto acquista spicco. Grazie al fermo desiderio di ripercorre le gesta di un comandante della delegazione italiana per l’Armistizio in veste di osservatore che volle difendere una Nazione sconfitta in virtù della scoperta dell’alterità – ovvero delle differenze con le quali prendere confidenza – eleggibile, a pieno diritto, ad aura contemplativa.
La capitale magiara torna ad alimentare la sua vena di divulgatore schietto ed esperto, ormai, non solo dell’effetto d’isolare durante l’ascolto una sorgente sonora immersa in uno spazio serrato insieme ad altre sorgenti, ma anche della documentazione, tutt’altro ché nuda e cruda, di avvenimenti degni di essere mostrati al pubblico. Tanto a quello dal palato fine, alieno alla grandiosità dell’azione e attento a scorgere nel tessuto minimale i migliori stimoli, quanto alle masse meno recettive ai messaggi ideologici.
Operazione Budapest è un’opera sagace, con un doveroso rispetto della verità psicologica e della rievocazione del saccheggio compiuto da una banda di ladri d’arte composta da cinque italiani, che ospita momenti sapidi, estranei ai limiti del cinema d’intrattenimento, ed esprime l’icasticità delle personalità di predoni convinti di riportare nel Bel Paese le sette opere di maggior pregio dei pittori Raffaello, Giorgione, Tintoretto e Tiepolo.
Il valore terapeutico dell’umorismo sottrae quindi Gilberto alle trappole delle lusinghe. Quelle sono da sempre le bestie nere degli attori e delle attrici troppo sensibili al vanesio desiderio di mettersi in mostra.
Formuliamo l’augurio che nell’imminente film di finzione il nostro affezionatissimo stabilisca la giusta intesa con gli interpreti per trarre partito al meglio dal gioco fisionomico della recitazione ed esprimere la forza significante riposta in personaggi ed eventi per cui batte il cuore sia dello spettacolo sia delle ragioni segrete e meravigliose della poesia.
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1./ D – Al Pacino ha rivelato in un’intervista che per ottenere lo sguardo penetrante ed emblematico di Michael Corleone nel cult “Il padrino” sul set ascoltava Stravinskij. Credi che la musica possa ispirare davvero il lavoro dell’attore sul personaggio?
R – La compatibilità tra musica e recitazione è cosa individuale. Così come qualsiasi azione, seppur maldestra, come insegnava Aurelio Millos, si trasforma in danza quando accompagnata dalle giuste musiche, non è affatto scontato il contrario. Recitare su una musica potrebbe edulcorare le espressioni e farle risultare meno autentiche. Molti registi usano la musica sul set ma credo che l’unico contributo riscontrabile sta nei tempi e la cadenza dei movimenti, il lato emozionale invece, dovrebbe essere assicurato dall’attore con una forza interiore che assoggetterà la musica a farsi parte integrante; nel caso inverso trovo sia un surrogato addirittura sminuente per un grande attore. Ciò detto, i metodi e i contesti di una lavorazione di film in film presentano così tante variabili che ogni scena e ogni singolo ciak possono diventare una storia a se e quindi la musica potrebbe avere motivo di essere diffusa sul set. Questa mia valutazione proviene dal punto di osservazione più tecnico del film, il “corpus meccanicum” potremmo dire.
Laddove, invece, la musica funge da passamano narrativo e descrittivo o da acceleratore emotivo, ci si sposta nell’area creativa in cui la musica è di grande aiuto quando un film lo si pensa, in fase di scrittura, e quando si è in postproduzione, da divenire finanche elemento di punteggiatura del montaggio, ma questo, ci tengo a dirlo, non senza la complicità e la collaborazione del musicista da film, soprattutto per non affezionarsi a musiche provvisorie o per non trasformare il film in una playlist importata dalle serate melanconiche della propria vita privata. A chiudere, direi che io, per la musica, nutro un forte senso del pudore, per questo non la ostenterei mai senza un preciso ordine: messaggio/comprensione/emozione dove quest’ultimo elemento tendo a considerarlo solo come derivata ascensionale della consapevolezza esistenziale. Una forma di ascesi ragionata. Non amo le musiche che suggeriscono allo spettatore le reazioni emotive. Io amo il pubblico attivo, questo intendo per pudore.
2./ D – Rimanendo sulla questione del gioco fisionomico della recitazione, ritieni sia un elemento decisivo per il buon esito di un film oppure lo consideri solo una mera pedina e nulla di più?
R – L’attore italiano, nella maggior parte dei casi, quando parla di se stesso, converge l’attenzione verso la più classica delle bramosie: quella di interiorizzare il personaggio che interpreta. E’ il modo più cautelare per occultare la sua persona diversamente da quel che si è, usando la recitazione per conformare la sua incompiutezza interiore fino a fare delle sue lagnanze una virtù da dover apprezzare nella giostra del gioco dei ruoli. In poche parole si appropria di ciò che non è suo. Questo tipo di attori fanno terapia. Non di meno trovano molti sostenitori tra chi assorbe certe instabilità. I grandi registi non consentono questo, e lo dico per testimonianza diretta. La differenza tra un vero attore e un presta-volto è tutta qui. L’attore non cerca attenzioni, le presta! L’attore conosce la “presopon” la persona in senso greco, composta di essenza e materialità che forma una maschera, e non certo in senso riduttivo. Tutti noi la indossiamo, la differenza è che l’attore dovrebbe indossare quella del personaggio scritto e non la sua. L’attore sa che, come insegnava David Hume, la combinazione tra impressioni e idee calcifica nella mente dello spettatore un prospetto solido utile alla relazione costruttiva ed emotiva tra i due percorrendo a ritroso quei processi mentali tanto cari al filosofo illuminista.
La dinamicità e la biunivocità della relazione a quel punto diviene un palleggiamento a distanza di competenze emotive. Mi spiego: la combinazione voce/mimica consente all’attore di trasportare quel che è pittoresco, visibile, quotidiano, familiare, insomma la consapevolezza, a elevati regimi di sensibilità, un aspetto sublime (che sale) che immedesima lo spettatore. Questo dovrebbe essere naturale per un grande attore, a meno che non interpreti se stesso degradandosi a caratterista. Sull’uso della voce, ad esempio, potrebbe aprirsi un capitolo a parte, proprio perché questo incredibile strumento, può ancorare lo spettatore a stereotipie particolari generate all’interno dello stesso film, come a dire che il riconoscimento del personaggio non può che identificarsi con la voce che lo contraddistingue, così come la sua identità.
Ci sono molti esempi del genere. Ritengo quindi che la recitazione in un film è fondamentale soprattutto perché, quando un personaggio è credibile, allevia la fatica del dover credere al resto, per cui tutti gli altri personaggi potrebbero essere credibili essendone assoggettati. Visto mai un film dove c’è un ruolo principale interpretato magistralmente? anche gli istrioni attorno a lui appaiono bravi e, male che va, adeguati al contesto.
I provini sono molto importanti. Molto spesso si presta attenzione alle somiglianze, alle trasformazioni, alla capacità di saper stare in scena, quando in invece un solo elemento può delineare una giusta scelta: l’asse combinato e armonico tra sguardo, voce e mimica, che io chiamerei semplicemente antropocentrismo dell’attore in senso generale, poi naturalmente le caratterizzazioni sono importanti soprattutto se richiamano personaggi realmente esistiti. Si, l’attore è molto importante, fondamentale anche se per me è un mezzo non il fine del film.
L’attore ha la possibilità di violentare le parti più intime dello spettatore, e sa come si dice? “Se vuoi dir la verità al re fatti giullare”, il cinema ha questa qualità, e il personaggio, anche se su uno schermo, può dirti delle grandi verità che nella vita pochi ti direbbero. Per questo è importante, e comunque non si ricorre a un’opera di finzione se non si vuole considerare al massimo l’importanza dell’attore. Poi bisogna fare i conti con il pubblico, che spesso valorizza i “brand” lasciando a casa grandi attori preferendo a loro protagonisti del gossip.
3./ D – Gli strumenti che la scuola ti ha fornito per apprendere la tecnica del suono sono stati poi utili, passando dalla teoria alla prassi, per sentire una partecipazione creativa nell’ambito del cinema?
R – L’Istituto di Stato per la Cinematografia e la Televisione “Roberto Rossellini” di Roma è l’unica realtà italiana che prepara tecnici, non creativi, per il cinema. La scelta di formare le professioni del “dietro le quinte” non può che essere condivisa in un’epoca in cui il profluvio di scuole definite di “arti e mestieri” la dicono lunga sul modo di approcciare questa professione. Infatti, questo tipo di formazione stabilisce da subito la differenza tra chi sarà autorizzato a pensare e chi invece deve eseguire, e non tanto in termini di collaborazione piuttosto di sudditanza. Quest’analisi così forte, mi permette di essere trasparente nel poter rispondere, infatti la mia scuola getta le basi per una professione non per un mestiere, laddove il professionista adotta la regola, il mestierante la prassi. La vera formazione prepara un professionista non con un “modus operandi” ma con una capacità critica affinché sia lui stesso a crearne uno, ma soprattutto l’impianto culturale, deontologico e critico fanno dello studente appena maturato una persona inizialmente fuori dalla realtà in cui l’inserimento risulta più difficile, mentre è più favorito chi ha maggior capacità di operare sulle macchine proveniente appunto dai mille corsi esistenti. Se non che, sarà poi il tempo a rendere giustizia a questa lenta carburazione. Per questa ragione la scuola per me è stata fondamento d’assesto per tutto il mio percorso professionale nel tempo.
La conoscenza tecnica poi, nel mio caso specifico, è di rilevante importanza per lo svolgimento del lavoro trasformandosi in un filtro molto selettivo per arginare chi vuole esercitare questa professione solo perché mosso dalla passione o chissà da quale ludica aspirazione se non addirittura da bramosia e voglia di successo. Bisogna ricordare quindi, che siamo solo dei tecnici. Un esempio molto calzante è la partecipazione delle categorie tecniche ai premi cinematografici di vetrina. Spesso vengono premiati film riusciti male, spesso doppiati, notevolmente inferiori ad altri, ma, tolta la limitatezza dei giurati sui quali non vorrei sindacare, si assegnano riconoscimenti a film utili in quel momento, oppure come merce di scambio per premi distribuiti a convenienza. Questo per me, oltre ad essere mortificante è anche un appropriarsi di una competenza creando una sudditanza indotta per stabilire con regolare cadenza come stare al proprio posto. Questa è la ragione per cui io sono nettamente contrario ai premi tecnici nelle manifestazioni di altra natura, proprio per via della strumentalizzazione che se ne fa. Questa battaglia la persi poiché a molti miei colleghi piace la visibilità e, giustamente, se ne avvalgono per dare un senso alla loro fatica e più cinicamente, potrei dire alla loro vita.
4./ D – Quali sono i segnali necessari per avere l’acustica desiderata ed esercitare un controllo sia sulla prova recitativa ché sull’ambiente?
R – La relazione che si crea tra i suoni viventi, ovvero che fanno parte dall’azione, recitazione compresa, e il suono in cui essi sono immersi, risulta armoniosa se l’immagine visiva corrisponde alle proporzioni spaziali a cui siamo naturalmente abituati con l’esperienza d’ascolto. Ci si aspetta che un ambiente molto grande generi delle riflessioni maggiori e quindi più riverberazione, mentre un ambiente piccolo, o molto arredato, ne avrà di meno. E’ quindi importante considerare questa condizione percettiva come adattamento naturale all’ambiente ripreso.
Altresì, la corrispondenza tra spazio visivo e spazialità sonora percepita va confrontata con la visione relativa data dall’obiettivo di ripresa non confondendo la qualità delle riflessioni con la loro durata. Più il microfono è prossimo alla sorgente e più la percentuale delle riflessioni è minore e viceversa, quello che cambia è la qualità del suono originale. Questa dovuta introduzione tecnica stabilisce i parametri in cui noi ci muoviamo per la scelta delle tecniche di ripresa, dopo di che tutto può diventare licenza, ma solo ad opera del regista e non del fonico che invece deve assicurare questa morfologia del suono. Due sono però le regole da conoscere, la prima è che la riverberazione la si può aggiungere ma non eliminare in post, la seconda è che l’intelligibilità della voce deve essere sempre assicurata. Ahimè, oggi, il format televisivo ha inquinato anche il cinema, ovvero ci vengono richieste sempre voci con una più possibile prossimità e quindi il concetto di spazialità viene meno proprio perché lo si può ricreare in post-produzione Tradotto in termini tecnici, registriamo su tracce separate l’uso dell’asta, del microfono manovrato sopra le teste, soggetto a campi e piani ambientali, e dei radio-microfoni dei singoli attori. Un altro elemento sminuente il nostro lavoro di costruzione del suono anche se, onestamente, contribuisce alla buona resa del film anche se artefatto.
5./ D – Quando Robert De Niro nel capolavoro Il cacciatore rinuncia a sparare al cervo, dopo essere sopravvissuto alla roulette russa, il grido Okay sulla montagna – con l’eco diffuso attraverso la cascata che rappresenta l’ordine naturale delle cose – tocca il vertice dell’emozione. Stessa cosa per il grido di paura che John Travolta cattura in Blow Out. È davvero meglio essere registi?
R – Approfitto per chiarire che il regista e il fonico, non solo svolgono due lavori diversi, ma sono anche concorrenti in un gioco di competenze dove diventa necessario stabilire le aree di intervento intersecanti. L’esempio riportato nella domanda è chiaramente un intervento creativo spettante alle fasi di post-produzione su ordine del regista, ma il regista si avvale di ben sei anelli della catena produttiva del film competenti per il suono: il fonico di presa diretta, il montatore del suono, il rumorista (oggi creatori di suoni), il fonico delle musiche e il fonico di mix.
A chi si vuole riconoscere l’autorialità? io direi a nessuno, il regista è autore del suo film. Noi contribuiamo a tassello alla composizione di un mosaico che appartiene alla sua visione. A tal proposito direi che fino a due anni fa, il riconoscimento per la presa diretta veniva assegnato solo al fonico di presa diretta, e aveva un senso, perché i film italiani sono principalmente basati sulla recitazione e non sulla spettacolarità del suono. Ma dopo pesanti rimostranze da parte degli altri anelli del post, gli enti, come ad esempio il “David di Donatello” hanno accolto la richiesta, anche semplicemente per non affrontare il problema, decidendo di premiare tutto il comparto suono.
Giusto o sbagliato che sia, vedere una pletora di persone sui palchi a ritagliarsi un pezzetto di gloria a me non giova. Capisco che nell’epoca dei selfie, un giro con un David in mano da passarsi in 12 fa followers, ma, grazie! non mi appartiene! Pur riconoscendo il lavoro di tutti. Posso riassumere quindi che dal punto di vista critico, le scelte sonore si fanno in post per mano del regista, noi possiamo proporre ma non siamo autorizzati a pensare, il resto è pura sindrome di onnipotenza.
6. / D – Credi che un professionista del cinema, sia esso un regista o un tecnico del suono, debba difendere i requisiti etici del suo mestiere quando alla base c’è una passione autentica?
R – Io credo che tirare in ballo l’etica sia eccessivo, nel caso direi deontologia, infatti noi dobbiamo limitarci a svolgere bene il nostro lavoro nella nostra sfera di competenza. Lo sconfinamento non è mai apprezzato nel cinema. Si ricordi che il cinema è fortemente gerarchico con un preciso organigramma che non permette la sovrapposizione di competenze. Detto questo, la passione, per quanto risulti un movente per svolgere al meglio un lavoro che presenta disagi, fatiche e contesti logoranti, non è la base di questo lavoro. Ancora una volta sono costretto a dire che la passione muove gli entusiasti che poi fanno approcciare il lavoro senza scientificità, dove l’essere scientifici vuol dire conoscere una regola, applicarla, e avanzare pretese dimostrative a quel che si fa, sia in ambito tecnico che linguistico.
La nostra professione va difesa con l’aggiornamento, la tutela del lavoro, l’attenzione al “corpus misticum” del film e soprattuto riconoscendo gli sviluppi linguistici che muovono il cinema. L’errore che si fa è quello di osannare, anche giustamente, i vecchi maestri, e snobbare i giovani, quando invece sono molti di loro a trasformare il linguaggio cinematografico e modificarne le tendenze. Detto in poche parole, gli strumenti denotativi e connotativi di un film, passano per la scrittura, per la sceneggiatura, quindi, rispetto a molti altri lavori noi tocchiamo “materiale sensibile” e quindi serve molta competenza e apertura mentale. L’etica la lascerei alla vita privata.
7./ D – Non sono un critico particolarmente prodigo di elogi. Ma il tuo documentario Guido Romanelli – Missione a Budapest mi è piaciuto molto. L’unico appunto che ti ho già mosso consiste nell’eccessiva velocità di scritte d’epoca dal contenuto notevole. Scorrono via come le immagini viste dal finestrino del treno. Oggi lo gireresti in maniera diversa?
R – Il documentario “Guido Romanelli” è un film del 2009. Ho iniziato a studiare i rapporti internazionali proprio dal 2009 e quello fu il risultato del primo progetto di ricerca che mi fu assegnato, l’entusiasmo era parte importante. Naturalmente essendomi occupato di audiovisivo nei precedenti 20 anni, ritenevo di avere una competenza, se non garantita, ma sufficiente per realizzare un filmato. Va detto che l’evoluzione del linguaggio del documentario negli ultimi dieci anni è vertiginosamente cambiato, evoluto direi, e ti assicuro che allora, quel film fu limitatamente innovativo. Limitatamente perché richiedeva la comprensione di una storia, ma per il resto quello che è stato ritenuto interessante è stata proprio l’isteria del montaggio.
A distanza di anni, rivedendolo, noto una struttura grammatica superata certo, infatti ci sono troppe musiche, troppa concorrenza di suoni e colori, ma l’inquietudine che allora desideravo trasmettere è rimasta tale. Io desideravo provocare lo spettatore affinché la sua partecipazione al film risulti empatica e provocatoria. Amo quando lo spettatore adotta un personaggio facendone un protagonista per poi vederselo delegittimato improvvisamente, amo rendere umani anche i grandi uomini. In un altro mio documentario, sul Risorgimento, un cartello finale da me creato diceva “Gli eroi si chiaman tali per esser ricordati o per rimandarli a giorni come questi dove chi li celebra ha tutto l’interesse a lasciarli nel passato”. Amo quindi far digerire le sconfitte, non le umiliazioni, sia per i vincitori che per i vinti. Lo trovo molto educativo.
8./ D – In Romanelli – Missione a Budapest, oltre ad appaiare con efficacia elementi naturali, come gli alberi, ed elementi antropologici, tipo le statue che grazie ai tuoi movimenti di macchina e ad alcune angolazioni sembrano perdere l’impasse dell’immobilità, chiami a raccolta molti storici. Come sei riuscito a mettere d’accordo teste diverse?
R – La vera sfida fu quella di eliminare la voce narrante, spesso usata per cucire la contestualità delle interviste o per aggiungere elementi non ottenuti in fase di ripresa. Bisogna ricordare che i miei documentari sono il risultato di un lungo e meticoloso lavoro i ricerca realizzata per le accademie e gli archivi di stato, quindi, molto spesso arrivo dall’intervistato molto preparato sull’argomento. A questo punto entra in gioco la psicologia: bisogna far credere all’esperto che mancano alcuni tasselli curiosi e segreti, da aggiungere alla storia che solo lui può dare. Solo alla fine chiedo a lui di cosa stiamo parlando, allora quella che sarebbe banalità e lezioncina di storia diviene un racconto ripulito dei suoi fronzoli storiografici. È una forma di avvicinare lo spettatore alla storia, un modo per fare un documentario non di storia ma nella storia.
Ci sono molte altre tecniche per coinvolgere gli esperti senza che si sentano usati come se stessero prestando una lezione, uno su tutti è quello di ipotizzare il contrario di quello che è realmente successo, in quel caso escono particolari molto curiosi ancora però ricorrendo al metodo storiografico, la differenza è che l’intervistato diventa personaggio, umanizza la storia mostrando la sua parte umana di studioso, diventando un postero protagonista. Altresì, io non dò molto peso alle testimonianze dirette. Infatti, i testimoni, sono spesso scomodi alla storia, sono auto-celebrativi, smemorati, evidenziano particolari banali e ne nascondo altri, ma soprattutto non conoscono il contesto storico in cui erano immersi. Capita spesso che una loro informazione che ho riscontrato errata abbia messo in crisi tutta la loro credibilità narrativa. Tendo invece a usarli come trampolini emotivi e non di più. L’aspetto ideologico invece, a me non ha mai creato particolari problemi, soprattutto perché io considero le fonti, mentre svuoto gli intervistati delle metodologie, dei commenti e dell’eziologia meta-storica di cui sono affetti con la cesoia del montaggio. Molti storici, comunque, hanno bisogno di almeno un’ora d’intervista per far ottenere 5 minuti di montato utile, quindi usiamo in media circa il 10%. Particolare curioso, che si nota con l’esperienza, è che gli storici ritornano più volte sulla stessa risposta cambiandone struttura linguista, enfasi e interpretazione. Solitamente l’ultima è la più sincera e ben articolata oltre che coraggiosa. Da come si evince dalle mie ultime righe, io tendo a formare un aspetto androcentrico ai miei lavori.
9./ D – Hai lavorato come tecnico del suono con due registi, Giuseppe Tornatore e Gabriele Salvatores, che hanno vinto l’Oscar per il miglior film straniero. Quali sono, se ne hai, i tuoi numi tutelari?
R – Lavorare con grandi registi presenta un pericolo: quello di tendere a sottovalutare gli esordienti e i registi meno noti e meno considerati. Invece, nel tempo, ho imparato a considerare ogni scelta e ogni metodo che ognuno può avere come una risorsa. Questo non significa che il mio impegno viene meno in base alla fama del regista ma, per la verità, anche non perdendo considerazione di loro, mi duole vedere come spesso la limitatezza di un regista si tramuti in presunzione. Questo è molto frequente. L’aiuto più produttivo che si può dare a un regista è sempre quello tecnico, quello di trasmettere sicurezza e sgrossarlo dei problemi di ripresa per poterlo far concentrare sulla risultanza della scena in termini stilistici. Il rapporto con i registi con cui si è fidelizzati invece è completamente saldo attraverso quei denti della cremagliera fatta di tempi, priorità, soluzioni e previsioni. Registi come quelli citati nella domanda, hanno un rapporto molto basilare e limitato in fase di lavorazione con me, proprio perché “appaltano” la questione suono alla squadra di cui si fidano e che toglie loro molte incombenze che si creano in ripresa, ma soprattutto si è concertati sulle aree di intervento riguardanti il suono. Posso fare un esempio: inquadratura con un passaggio di ambulanza, io dovrei interrompere la scena ma, d’accordo col regista, si continua per catturare altri momenti della scena senza dialogo, a quel punto siamo concordi che lo stop può darlo solo lui.
Altro esempio, ma che non posso proprio portare nello specifico, è la complicità nel gestire gli attori. I grandi registi sanno benissimo che alle loro spalle succede di tutto nel prevenire le complicazioni di ripresa, nel rapporto con la produzione, i costumi, la scenografia ecc. ma sanno anche che al momento del ciak sarà già tutto risolto, perché molto del mio lavoro è diplomazia e gestione dei rapporti anche se la parte tecnica è importante. Rispetto alle mie aspirazioni registiche, stando ai margini del set, con un copione in mano, con un monitor visivo installato e ascoltando tutto, mi fa ritenere che la palestra autoriale me la sono costruita con dovizia di particolari. Non è scontato, serve un’ottica ben precisa, fatta di capacità critica e spregiudicatezza nel rapinare i segreti del mestiere. Un film, quando finalizzato diventa per me un manuale di linguaggio cinematografico perché, prima di chiunque altro, riesco a confrontare la sua evoluzione e a capire gli errori e le limitatezze prima ancora che le sue qualità.
10./ D – In Operazione Budapest c’è un bel margine di enigma. Mi piacerebbe veder realizzare un film di finzione con attori di talento nel ruolo di alcune simpatiche canaglie. Tra i documentari che hai girato qual è quello che più t’ispira un passaggio di questo tipo?
R – Il film “Operazione a Budapest” sarà l’epilogo di un processo durato 4 anni tra ricerca, costruzione del documentario e di un film, ad oggi in fare di scrittura e revisione della seconda stesura della sceneggiatura. Sarà un film sul deduzionismo, una disciplina specifica dell’intelligence che ha permesso a me, la ricercatrice Anna Nagy e il Maresciallo Roberto Tempesta come consulente, di legare i nodi sparsi di una rete conformatasi solo dopo lunghi studi e testimonianze che non potevano che essere un film scritto. Noi tutti amiamo questo lavoro, lo amiamo per l’incredibile evolversi delle vicende che hanno reso inattiva e non necessaria la nostra fantasia.
Mi spiego: io non ho fantasia, io non so inventare, io da bambino non ho mai letto favole, quando sentivo dire che “Il lupo dice a Cappuccetto rosso…” io, con fare pragmatico pensavo subito al fatto che i lupi non parlano e quindi non fa per me. Riflesso in età matura, posso confermare che da un punto A io non saprei mai costruire alcuna storia, alcuna fantasia, mentre, dati due punti A e B, sia pur sicuro che io saprò unirli. Non a caso mi occupo trasversalmente di rapporti tra Italia e Ungheria. Questa caratteristica mi ha sempre reso un po’ guardingo verso la letteratura per la quale nutro, anche li, un forte senso del pudore quando penso che tutto quello che è scritto è frutto della fantasia di un uomo. Quindi il film si farà, è in fase di finanziamento e revisione di scrittura.
11./ D – L’indirizzo interiore dello spettatore si riallaccia anche ai match-cut visivi, come l’osso rotante, tirato dal primate in 2001 di Kubrick, mutato subito in navicella spaziale, e ad altre angolazioni. Che peso gli dai?
R – Se penso che il cinema nasce come una realtà resa poetica dalla persistenza retinea delle immagini fotografiche susseguenti, esigerei un ortodosso rispetto verso lo spettatore che ogni secondo si adopera attivamente 24 volte per legare le diapositive proiettate. Il passaggio tra una diapositiva e l’altra è quindi legata dalla nostra percezione. Se si considera questo, non si può che valutare che lo spettatore cinematografico nasce come parte attiva del film e quindi consideralo come un fantasma che aleggia nella sala montaggio.
Nel cinema ogni dettaglio, ogni quadro, ogni elemento che entra nel fotogramma e i suoi relativi movimenti di macchina hanno un senso che però non tutti conoscono, nemmeno chi lo fa. Bisognerebbe entrare in un discorso critico molto approfondito che mi limito a ridurre in una citazione di Rondolino: “l’immagine spezza, il suono l’unisce”. Ecco io sono colui che per una vita ha lavorato per contribuire a unire le immagini, ora, mi sto dirigendo verso la loro frammentazione. Un po’ come nella mia vita.
MASSIMILIANO SERRIELLO