Conflitto di interessi tra pubblico e privato
INCATENATI AL CONFLITTO DI INTERESSI
La terribile tragedia del ponte Morandi di Genova ha acceso i fari per l’ennesima volta sui guasti, direi sulla metastasi della amoralità nella società italiana causata dalla commistione tra interesse privato e interesse pubblico.
Ancora una volta quella linea rossa, eticamente invalicabile, che servirebbe a separare e tutelare il bene della collettività, è scomparsa.
I 43 morti, le decine di feriti, le centinaia di sfollati hanno gridato, in maniera ancora più forte delle vittime del terremoto, la loro rabbia contro la politica, blandita e finanziata dai concessionari di beni pubblici, cui ha offerto le infrastrutture strategiche, create con i soldi degli italiani, senza saperne pretendere una corretta e costante manutenzione con l’aggravante di aver consentito ai concessionari la facoltà di scegliersi quali organi controllanti proprio società da loro stessi controllate.
Il capitale di Autostrade Spa (concessionaria da 20 anni dell’80% delle nostre strade a pedaggio, quindi con profitto garantito ad aumento annuale programmato senza rischio di impresa) è per l’88% di Atlantia, controllata dalla famiglia Benetton che ha detenuto sino a qualche mese fa anche il 2% del Sole 24 Ore, il 2,24% delle edizioni Caltagirone (Il Mattino, Il Messaggero) e il 5,1% di Rcs MediaGroup (Corriere della Sera, Oggi) conservandone tutt’ora una quota indiretta tramite Mediobanca che ha il 10%.
La cassaforte Benetton è la stessa che ha sovvenzionato con decine di milioni la pubblicità ai maggiori quotidiani nazionali e che non ha lesinato donazioni ai partiti italiani dell’ancien régime (dal comitato per Prodi alla Margherita, dai DS all’Udeur, da Forza Italia al Partito Repubblicano, dalla Lega ad Alleanza Nazionale), dimostrando che il sistema Italia era un affare di famiglia tra poche persone.
Ricostruire il puzzle vergognoso, ultraventennale, del conflitto di interessi tra pubblico e privato, del prevalere dell’interesse personale negli atti di ufficio e della vera e propria corruzione che ormai ha investito l’intera società italiana dall’industria al sindacato, dalla finanza alle banche, dalla scuola ai trasporti, dalla pubblica amministrazione alle cooperative dei servizi sociali, come era già emerso con lo scandalo di mafia capitale alla Carminati e Buzzi, con i contributi alle fondazioni di ogni colore politico, con le cene d’affari tra mafiosi ministri, governatori, sindaci e consiglieri, con le opache attività delle famiglie interessate alle vicende Consip (il più grande appalto pubblico europeo) o di Banca Etruria (la più grave truffa a danno di piccoli risparmiatori), è un dovere civico.
La stagione di “mani pulite” negli anni ’90 aveva mandato in crisi l’assetto spartitorio di potere tra i vari partiti politici, legati al mondo industriale e finanziario che con continue elargizioni provvedeva ad assicurarsene l’atteggiamento favorevole o almeno non ostile da non ledere i propri interessi. Furono colpiti con provvedimenti giudiziari tutti i partiti di Governo i cui responsabili, a vario livello, furono accusati e processati per corruzione. Mentre in parecchi, tra i vari gradi di giudizio, prescrizione, condoni, indulto e amnistia se la cavarono riuscendo persino a riciclarsi nei nuovi assetti, il calibro più grosso pagò per tutti: Craxi, fuggito all’estero fu condannato in contumacia.
Del disfacimento del quadro politico e dell’alleanza tra DC e PSI approfittò, con l’istinto del lupo che azzanna la preda più debole, Berlusconi, che grazie alla enorme disponibilità finanziaria di un impero economico e mediatico senza concorrenza, praticamente regalatogli dal Governo a suon di bigliettoni, si impose su tutti come prima forza politica del paese, con l’obiettivo di difendere meglio, e con qualsiasi mezzo, il proprio patrimonio.
Poteva un magnate dell’industria con interessi finanziari così cospicui nel mondo dell’informazione, dell’editoria, delle telecomunicazioni, ricoprire la funzione di presidente del Consiglio, senza che le sue decisioni di politica economica, industriale e dell’informazione fossero viziate dal conflitto di interesse e che finissero per favorire l’interesse personale?
A tutti parve una grave stortura, un’offesa al buon senso che, come diceva il Manzoni, se ne stava nascosto per paura del senso comune. I difensori del monopolio berlusconiano ripetevano, rifacendosi al senso comune, che il sistema giuridico italiano, basato essenzialmente sulla forza della norma scritta, non ammetteva scorciatoie e che conseguentemente occorreva una legge ad hoc che stabilisse per tabulas la consistenza ed i limiti del conflitto di interessi.
Nel frattempo Berlusconi aveva dovuto dimettersi per il ritiro del sostegno da parte della Lega e non si parlò più della questione per 7 anni (Governi Dini, Prodi, D’Alema, Amato) durante i quali, mentre Forza Italia faceva una finta opposizione parlamentare, i politici di sinistra al potere, per non aprire anche i loro armadi zeppi di scheletri, si guardarono bene dallo scalfire la commistione tra interessi personali, di qualsiasi natura, e bene pubblico e di squarciare la cappa di segretezza che copriva tutto il mondo delle concessioni.
Berlusconi vinse nuovamente le elezioni nel 2001 e questa volta rioccupò in modo più massiccio non solo Palazzo Chigi, ma tutti i gangli della vita economica e amministrativa del Paese, illudendo e plagiando attraverso le sue televisioni milioni di cittadini.
Per tacitare qualche voce critica che sorgeva qua e là sul conflitto di interessi, diede ordine al suo partito di preparare una proposta di legge. Si mise all’opera, un giovane e ossequiente magistrato del Consiglio di Stato, promosso, per fedeltà verso il capo, al rango di Ministro della funzione pubblica (e poi per ulteriore premio fatto pure Ministro degli Esteri, soprannominato dagli americani “il postino”). Questi presentò un disegno di legge governativo che fu approvato senza troppe discussioni (legge 20.7.2004, n. 215). Parallelamente, da un parlamento sdraiato a tappetino, furono varate leggi ad personam per garantire uno scudo giudiziario al capo di Forza Italia e a quanti erano impelagati in pratiche di corruttela e di falso in bilancio, attraverso la prescrizione ed altri ostacoli posti all’attività della magistratura.
Come tutti ben comprendono il conflitto di interessi si verifica quando chi ha la responsabilità di decidere è anche titolare di interessi personali o professionali in contrasto con l’imparzialità richiesta dalla Costituzione (l’art. 97 stabilisce che l’attività della pubblica amministrazione, volta alla realizzazione dell’interesse pubblico, debba essere svolta con imparzialità).
Ben lo sapevano da più di 2000 anni gli antichi romani che non avevano la nostra costituzione repubblicana, ma che coltivavano fino all’estremo sacrificio il senso dell’onore. Nel III secolo a.C. (era in corso la seconda guerra punica) il Senato di Roma varò la famosa legge Giulia che proibiva per sempre ai senatori ed ai loro figli di possedere navi che trasportassero più di 300 anfore, dato che il trasporto marittimo di derrate alimentari, totalmente in mano al patriziato, era l’attività economica più redditizia. Allora nessun cavillo consentì scappatoie e il conflitto di interessi fu allontanato dalla vita pubblica fino all’epoca imperiale.
Invece la vulgata nazionale berlusconiana diffuse l’idea che la legge del 2004 regolamentava in modo equo e appropriato la difesa del bene pubblico contro il conflitto di interesse ed eliminava la commistione tra il profitto o l’utilità del privato con quello della collettività, assicurando che i componenti del governo svolgessero la loro attività nel solo e specifico interesse pubblico, come previsto dal giuramento prestato da ogni ministro all’atto di assunzione dell’incarico (giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione).
Nei fatti si rivelò una legge ipocrita che anzi fu utilizzata per coprire ogni sorta di interesse privato. L’articolo 2 definiva l’incompatibilità tra la titolarità di una carica governativa e l’assunzione di impegni e responsabilità all’interno di una qualsiasi società impedendogli anche il voto in assemblea ma non obbligava il “blind trust”, mentre il successivo art. 3, vero capolavoro di ipocrisia, inquadrava la sussistenza del conflitto d’interessi solo nel caso che la decisone di un componente di Governo avesse avuto un’incidenza effettiva sul proprio patrimonio, su quello del coniuge, o su quello dei parenti entro il secondo grado, con danno per l’interesse pubblico non meglio specificato.
Praticamente si consentiva ad un esponente di governo di poter decidere su qualsiasi tema anche con ricadute di ogni tipo sul suo interesse privato.
Per confondere il popolo disattento con un’ulteriore cortina fumogena fu reclamizzato il fatto che ogni volta che il Consiglio dei Ministri doveva deliberare su una qualche materia connessa al sistema mediatico ed agli affari di famiglia, Berlusconi quale presidente del Consiglio si assentava dalla seduta, dando ad intendere una propria estraneità, mentre invece era ben noto che avesse seguito, e da vicino, tutte le fasi preparatorie del provvedimento che entrava blindato nella sala del Governo per uscirne approvato così come desiderava.
Similmente si è comportata la ministra Boschi in occasione delle decisioni del Governo sulle banche popolari e su banca Etruria, quando è arci noto che la stessa Boschi, pur non avendo la competenza istituzionale, avesse personalmente perorato la causa della banca del padre presso l’Ad di Unicredit e presso il Presidente della Consob (circostanza per altro negata con impudenza in un intervento alla Camera).
Secondo quanto rilevato nel rapporto denominato “Market-based Lobbying: Evidence from Advertising Spending in Italy” redatto dagli esperti di quattro prestigiose università (Parigi, Yale, Brown e Bocconi), Berlusconi durante gli anni di esercizio di primo ministro tra il 2000 e il 2011 avrebbe visto salire gli investimenti pubblicitari (cioè la raccolta a favore di Mediaset) di oltre un miliardo di euro, anche perché i gruppi di potere dei settori delle telecomunicazioni, della farmaceutica, della finanza, dell’industria automobilistica, meccanica e dell’arredo, avevano un interesse specifico nell’ingraziarsi il capo del Governo e spingere l’esecutivo ad adottare decisioni convenienti ai loro affari.
Capito perché in Italia non è mai stata approvata una seria legge sul conflitto di interessi? E ci si meraviglia solo ora del trattamento riservato alle concessionarie delle autostrade, delle reti di comunicazioni, delle acque, degli idrocarburi, o del fatto che i boiardi di tutte le società controllate dallo Stato o dagli enti locali, delle banche, delle assicurazioni, delle Autorità di controllo, della Rai, dell’Aci, delle Ferrovie, dell’Anas, della Finmeccanica, dell’Eni e i direttori generali dei ministeri economici ecc. siano sempre i soliti personaggi che hanno chiuso gli occhi sul conflitto di interessi per tornaconto diretto, o per tutela della propria carriera o per un semplice calcolo di quieto vivere?
Il nuovo Governo, come testimoniato dal crescente consenso popolare, sta toccando i nervi scoperti della casta dei mandarini, delle sanguisughe, degli squali che hanno spolpato da anni il popolo italiano, che si è sempre accontentato delle briciole, del piccolissimo cabotaggio dei furtarelli insignificanti, dei vantaggi a danno della collettività e della proprietà comune.
Torquato Cardilli