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EFFETTI SPECIALI ED ECHI CORDIALI E PARADOSSALI DI FREAKS OUT

I REIETTI CON I SUPERPOTERI DI MAINETTI

Freaks Out di Gabriele Mainetti (nella foto) è il film italiano che va, come si dice, per la maggiore. In virtù dei coefficienti spettacolari, lontani dal tedioso standard del cinema d’impegno civile. Che condanna lo Stivale al ruolo di comprimario nel panorama internazionale della fabbrica dei sogni. A dispetto della decisione dell’ANICA (Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche Audiovisive Digitali), che ha scelto  È stata la mano di Dio dell’involuto Paolo Sorrentino per rappresentare il Bel Paese agli Oscar, preferendo alla capacità di corrispondere all’immaginazione delle masse l’amarcord dell’età verde sedotta dai numeri di magia del Pibe de oro e segnata dal lutto, l’imminente campione d’incassi mantiene buona parte delle promesse fatte nell’esordio con Lo chiamavano Jeeg Robot.

Mentre Sorrentino ha disperso strada facendo l’ingegno dell’opera prima L’uomo in più col passaggio dall’orgoglio del cantante confidenziale Antonio Pisapia, stretto parente dell’amorale Franco Califano, ai segni d’ammicco dei radical chic, avvezzi ad atterrire gli interlocutori avversari scimmiottando la foga delle nerborute icone degli action d’oltreoceano, Gabriele Mainetti è riuscito all’atto pratico a conciliare stilemi in teoria inconciliabili.

Aspettando il momento giusto. Per trarre linfa dal background musicale, cementatogli dallo zio compositore Stefano Mainetti (buon sangue non mente), dall’esperienza maturata sul versante dei cortometraggi poveri d’introiti ma ricchi d’estro (con Basette, e la passione per il cartoon Lupin III del ladro capitolino trasferitosi dal Quadraro a Tor Bella Monaca, sugli scudi), dalla solerzia postmoderna. Volta ad amalgamare cultura alta e cultura bassa. Pensiero ed evasione. L’ultima fatica nel portare ancora una volta alla ribalta figure di regola confinate ai margini – come appunto i freaks, le creature raccapriccianti e deformi esibite da Tod Browning nell’omonimo cult, in grado di lasciare una traccia indelebile nella Settima Sarte, motivi d’ispirazione cinquanta primavere dopo dell’epigono David Lynch in The Elephant Man (nella foto) per mettere in luce la mostruosità della gente cosiddetta normale contrapposta alla grazia interiore dello scherzo di natura – paga tuttavia dazio all’inane enfasi dell’accumulo o non perde un colpo?

Puntare sul sicuro, nell’industria dell’audiovisivo, significa ridurre il rischio d’insuccesso ed evitare mosse azzardate. Predisponendo la medicina contro la noia. Che manda a carte quarantotto qualunque progetto di unire l’immediatezza espressiva delle serie manga all’autenticità della geografia emozionale. Tor Bella Monaca, simbolo del degrado delle periferie della Capitale, diventa in Lo chiamavano Jeeg Robot (nella foto) il teatro a cielo aperto della trasformazione dell’ignavo delinquente in supereroe. Deciso a preservare i tifosi accorsi allo stadio Olimpico in occasione del derby dai progetti dinamitardi del villain. Intento a servirsi dell’invulnerabilità trasmessa dalle sostanze radioattive a mollo nel Tevere per sprigionare l’empio lato oscuro.

Ora con il salto indietro nel tempo, dalla paura per gli attentati terroristici dell’Isis all’epoca della seconda guerra mondiale, quando a Roma, già colpita dalle bombe dei nemici americani, convertiti in amici a partire dall’8 settembre 1943, imperava l’egida dei nemici nazionalsocialisti, poc’anzi amici, si profila l’impasse di mettere troppa carne al fuoco rispetto al previo, impeccabile, mix di crudezza oggettiva ed elaborazione fantastica. La sceneggiatura redatta a quattro mani insieme al sagace Nicola Guaglianone, artefice pure del plot della commedia fantasy La befana vien di notte del sottovalutato Michele Soavi, rileva due composite tendenze d’innescare il motore della storia. Da una parte balza agli occhi l’assoluta predisposizione ai contesti canonici dei fumetti, da cui Steven Spielberg ricavò le propizie code al box office per vedere I predatori dell’arca perduta. Assurto al meritato status di cult in ragione dell’acume attinto ai romanzi d’avventura di Julius Verne ed Emilio Salgari. Dall’altra affiora il talento di Gabriele Mainetti nel riuscire ad assorbire il lascito dei numi tutelari per antonomasia – combinando la spiccata vena visionaria alla destrezza di far ridere amaramente e di far riflettere ironicamente, tramandata, di bottega in bottega, dalla commedia dell’arte, per strada o sulle tavole del palcoscenico, alla commedia all’italiana nell’universo di celluloide – ed esporre, in parallelo, un po’ sottobanco, vari rimandi citazionistici. A onor del vero meno urgenti. Si tratta di riempitivi aggiunti per vincere la tensione di gestire nella prova del nove un set faraonico, con miriadi di ragguagli tecnici d’ultima generazione da tradurre in cortocircuiti poetici ed esiti graditi al pubblico fedele al richiamo della sala, e allungare il brodo? Al di là delle opinioni contrastanti, complice l’impressionismo personale che impedisce alla critica di sostenere l’ardua se non utopica imparzialità, sarebbe riduttivo affermare che Sergio Leone in C’era una volta in America (nella foto) e l’acme toccato da Spielberg con Schindler’s List costituiscono, anziché dei punti di riferimento, dei riferimenti per tutti i punti. Non si può però neanche negare che nelle gag di alleggerimento, nei capitomboli, negli inseguimenti buffi, ipertrofici, nella battuta spesso in canna, nella molla dell’azione connessa all’allegra deformazione caricaturale, come risposta alla mutua solidarietà e al senso d’appartenenza dei derisi freaks sulla falsariga del tragico modello originario, i guru per eccellenza esercitino sempre un ascendente curioso con i loro lavori. Minori sul versante dell’approfondimento introspettivo. Maggiori per l’appeal sparso a raggiera presso platee allergiche ai dispendi di fosforo. Desiderose solo ed esclusivamente di assistere alle funamboliche trovate d’un ottovolante alla George Lucas. Riconoscendovi i colpi di gomito da cartone animato, costruiti sull’esempio d’Indiana Jones, e  l’esuberante istinto di conservazione ribadito in base a Il buono, il brutto, il cattivo. La trama non sembra comunque soffrire per questo d’incongruenze nocive.

Nell’incipit l’interprete romano de Roma Giorgio Tirabassi nelle scalcagnate vesti del capocomico Israel introduce sia agli spettatori in sala sia a quelli all’interno del circo Mezza Piotta i numeri di prestigio dei fenomeni da baraccone: il dominatore degli insetti, l’albino Cencio, che ammalia i parassiti volanti unendoli in un unico scudo, il bagonghi-calamita Mario, dallo spirito semplice predisposto ad attirare pezzi di metallo d’ogni sorta, l’Uomo Lupo Fulvio, con l’intero corpo nascosto dal folto pelo da bestia antropica, in possesso d’una potenza fisica soprannaturale, la ragazza elettrica Matilde. Alimentata dal fuoco dentro di dannunziana memoria.  Al punto da accendere le lampadine sfiorandole a fior di labbra. Senza mai poter abbracciare i freaks. Che per lei, orfana dall’infanzia, emanano, nei capannoni di fortuna accampati sul suolo natio, il calore dei consorzi domestici. A interrompere lo sbalordimento fiabesco provvede dall’esterno l’inferno del bombardamento. La montagna di polvere alzata secondo copione, la congerie dei frammenti, le carcasse dei tramezzi andati in pezzi, gli arti staccati di netto alle vittime dell’ennesimo uragano di sangue e di fuoco ricordano da vicino i celebri minuti iniziali del blockbuster di guerra Salvate il soldato Ryan del fecondo Spielberg. Replicarli in filigrana con l’apprezzabile contributo degli effetti speciali visivi e sonori crea assuefazione o suscita ammirazione? Tot capita, tot sententiae. A trascendere viceversa il pluralismo dei punti di vista caro a Luigi Pirandello, adottato motu proprio dagli abitanti dell’Urbe convinti che “ogni capoccia è un  tribunale”, intervengono i turbamenti psicologici del tedesco Franz. Col labbro leporino simile a Joaquin Phoenix ne Il gladiatore, le tigri – guarda caso – a un tiro di schioppo, per piegare lo strenuo orgoglio dei subalterni duri nella lotta e leali nell’animo, i preavvisi, inseriti nei disegni a matita d’ascendenza felliniana, ed empiti tanto di cieca violenza, ai danni dei malcapitati di turno, quanto di tenero scoramento. Per il diritto a difendere la Patria in armi negatogli dal Terzo Reich. Condannandolo alle folle gesta del mesto pagliaccio. Che strimpella ampollose note al pianoforte, ghermito dai dinamici movimenti di macchina, gestisce il circo di regime, in cerca di attrazioni prodigiose, rimira la fine di Hitler, il crollo dell’egemonia dello spirito sulla materia, la piega degli eventi, con l’offensiva lanciata dagli alleati alla Linea Gotica, e le accensioni avveniristiche. Confluite nella vibrazione del telefono cellulare al centro della svastica tracciata sul pavimento. Frutto dello stato di allucinazione dovuto alle massicce dosi di etere dietilico. La droga ricreativa dell’Ottocento assunta nel secolo breve per vagheggiare il nuovo millennio. Sulla scorta della scambievolezza di suoni diegetici ed extradiegetici. Che in Lo chiamavano Jeeg Robot conferisce elegiaca finezza alla sequenza in cui il supereroe per caso gira la ruota panoramica di Torvaianica per permettere alla ragazza interrotta impersonata da Ilenia Pastorelli di contemplare il prodigio del panorama riflessivo. Al riparo dai demoni privati. Gabriele Mainetti, nel curare di persona la colonna sonora, in tandem col musicista autodidatta Michele Braga, bravissimo di consueto nel comporre brani in lode alle imprese sportive, conferma per alcuni versi l’alacre cura dei dettagli del direttore d’orchestra che non lascia in subappalto i grattacapi agli esperti collaboratori: al pari dello scricchiolamento metallico delle cabine a pianta circolare e del tenero pezzo melodico che snuda la dolce purezza della creatura muliebre, ritenuta una mentecatta dagli stonati borgatari abituati a tagliare corto, l’attrattiva degli accordi e dei disaccordi, scandagliati in superficie dal pur dotto Woody Allen, assolve al compito di scoprire l’anima delle persone. Sotto altri aspetti, legati al ritmo tambureggiante della suspense, delle attese spasmodiche, del climax col cuore in gola, degli espedienti escogitati per tenere tutti, belli e brutti, incolti ed eruditi, sui carboni ardenti, lo stordimento cacofonico ed eufonico risulta eccessivo. Inanellando una serie di roboanti scene madri e la calma dopo la tempesta, al posto dell’opportuno contrario, sull’onda d’un luna-park sprovvisto di semitoni. Rinvenibili soltanto in intervalli di quiete piuttosto manieristici. La componente figurativa, all’opposto, appare perfettamente in linea con i poteri distruttivi, con quelli invece legati all’ansia di riscatto dei circensi, con le passioni scevre dall’input orrorifico, con le mani tese per ragioni diverse, con la cordiale bizzarria, con i viaggi onirici, con la lucida speranza. Subentrata all’inconscio della Cassandra crucca in abiti maschili. Affidata all’applicazione dell’adagio Ubi Maior Minor Cessat. Al ripiegamento, quindi, in buon ordine, o quasi, dell’aneddoto satirico, del vernacolo romanesco, del sarcasmo canzonatorio, dei mostri della commedia satirica e di costume dinanzi al balenio dell’invenzione. Al contorcimento improvviso insito nel rapporto del visibile con l’incredibile. Nel rispetto delle figure femminili di Sergio Leone – dalla meretrice colma di dignità in C’era una volta il West (nella foto) alla ballerina che la ruota della storia non può sfiorire in C’era una volta in America – dapprincipio in balia delle circostanze. In seguito, nel momento in cui i nodi vengono al pettine, prontissime ad agire, a reagire, a usare il cervello. Con cognizione di causa.

Fin qui, nulla da eccepire: assorbire l’impeto lirico dei numi tutelari – adattandolo al bisogno di trascendere l’etichetta di re del cinecomic de noartri e controllare qualsivoglia sfumatura di colore col fido direttore della fotografia Michele D’Attanasio per impreziosire l’approdo della luce alla fine del tunnel – non rientra nell’accidia delle idee prese in prestito. Né nella furbizia levantina dei nani sulle spalle dei giganti. Che spacciano i plagi per sentiti omaggi. Guaglianone – memore degli archetipi sui freaks d’oggi giorno da lui confluiti nella stesura del mélo Indivisibili di Edoardo De Angelis, incentrato sul decoro svilito in quel di Castel Volturno delle sorelle siamesi avverse alle rassegne dei fenomeni da baraccone confuse lì per lì coi palchi dove bramare d’inseguire le stelle –  adegua al contesto del conflitto civile, ed ergo all’ipotetica lotta di classe, i suggestivi habitat, il margine d’enigma, la fascinazione, gli ancestrali timori, il contrasto tra amor vitae e cupio dissolvi, la ricchezza formale del genere horror. Gabriele Mainetti ne scandaglia i contenuti, consapevole dei crescenti consensi procuratisi con Lo chiamavano Jeeg Robot, sulla scorta d’inediti motivi surreali ed echi paradossali, ahinoi, triti e ritriti. Il risultato riempie in ogni caso l’occhio. Lo skyline del Colosseo, di via dei Fori imperiali, di Piazza San Lorenzo, del Palazzo dei Papi di Viterbo diviene ciò nonostante un’esile cornice se confrontata alla funzione emblematica ed evocativa dell’hinterland di Lo chiamavano Jeeg Robot. Del canile dello zingaro. Delle torri, colte di notte con un’insolita gamma cromatica, in viale Santa Rita da Cascia. Che riverbera gli stati d’animo. La presa di coscienza dell’antieroe. Trasformato in supereroe conscio dei condizionamenti ambientali. Della necessità d’invertire la rotta. Di lottare nel ricordo della ragazza aliena al diktat dei biechi interessi. Regredita, a parere dei cinici da strapazzo, ai livelli irriflessivi dell’ineluttabile malattia mentale. Foriera, agli occhi del troglodita redento, dell’irrinunciabile candore della fantasia. Che trabocca adesso dall’accezione bambinesca, alla Forrest Gump, all’ipertrofia della sete d’amore, dell’appeal della bontà, dell’opportuna reazione alle angherie. Agli avvertimenti di Fulvio ai biechi sbirri stesi a furia di micidiali pugni sulla falsariga del brillante ed erculeo Bruce Willis ne L’ultimo boyscout di Tony Scott. Claudio Santamaria – nell’incarnarlo con lo sguardo torvo e i segmenti marcati del volto, non del tutto nascosti dalla maschera da freak, sfumata dal sottotesto sulla precedente vita extrafilmica fatta di buone maniere e sapide letture come l’introverso ed educato John Merrick – non sfiora neppure gli empatici picchi del compianto John Hurt in The Elephant Man. Che seppe infondere alla voce anglosassone, alle commoventi grida di protesta, al rifiuto del destino sinistro nel baraccone dell’empio Bytes una risonanza estranea al raddoppio di consonanti, all’alternanza di aferesi, motteggi ed elisioni della parlata romana. Padroneggiata assai meglio, giacché appaiata agli eloquenti silenzi, dal sorprendente Pietro Castellitto (Cencio) in combutta con l’intensa Aurora Giovinazzo (Matilde, nella foto). Emuli di Noodles e Deborah all’apice dell’acerba attrazione, celata dalle  schermaglie dialettiche, nell’ingresso all’età adulta del nostalgico C’era una volta in America.

Al passivo di Freaks Out vanno indicati i movie moments ricalcati di sana pianta da Le avventure del barone di Munchausen (nella foto) di Terry Gilliam e L’armata delle tenebre di Sam Raimi. All’attivo occorre segnalare gli appositi sapori urtanti, che sopperiscono alla flebile stringatezza, lo show pirotecnico nei sotterranei, a sancire l’affermazione dei presunti mostri dal cuore davvero d’oro sugli obbrobriosi deliri di Franz, l’ubi consistam dell’iconografia uforobotica ricondotta all’aperto, con buona pace degli inutili cenacoli pseudo-intellettuali (neanche lambiti da Gabriele Mainetti, seguace dei valori commerciali del pionieristico Giovanni Pastrone in Cabiria), alla palingenesi conclusiva di Matilde. Promossa a supereroina. Lungi dal cercare l’ago nel pagliaio la riuscita acustica dello scoppiettio del rogo che le pervade il petto, rammentando ai cinefili di stretta osservanza il crepitio del fuoco di sterpi dell’ultima cena in Su Re di Giovanni Columbu, persuade maggiormente dello scoppio fragoroso e dei raggi accecanti di luce che rendono pan per focaccia agli oppressori. Spielberg ne I predatori dell’arca perduta attinse l’accecante e funesto raggio finale al barlume malvagio racchiuso nella valigetta contesa dal cinico ed efferato detective nel noir Un bacio e una pistola di Robert Aldrich.

A conferma dei debiti contratti persino dagli Autori con la “A” maiuscola nei riguardi d’illustri antesignani. Gabriele Mainetti segue i corsi e ricorsi disseminando la scrittura per immagini d’appetibili uova di Pasqua. Con la sorpresa concernente i nessi, più o meno palesi, coi colpi d’ala dei riveriti Maestri. A differenza di Quentin Tarantino che nel gioco delle citazioni pone Jean-Luc Godard ed Enzo Girolami Castellari sullo stesso piano. L’uso dei match-cut visivi e sonori, le inquadrature in soggettiva, i movimenti circolari di macchina, la scioltezza delle riprese aeree consolidano comunque lo slancio di Gabriele Mainetti. Estraneo ad appannamenti di qualunque tipo nel riprodurre a tinte forti – senza tradire alcuna incertezza d’impianto né cadere in meri schemi preordinati – gli inni all’eterna amicizia e il concerto ivi connesso d’inesausti stupori. Tallonati step by step grazie alla cura certosina d’ogni strumento considerato un elemento portante per rinverdire la carica immaginativa unita alle componenti del reale. Suggellate dallo zelo scenografico, dalla pittura in interni ed esterni, dalla decorazione, dagli abiti, dai costumi. Assicurati dalle ingenti somme spese per tirar su un colosso dai piedi ben solidi (mica d’argilla) al posto, tuttavia, dei fondi di magazzino saccheggiati a inizio carriera da Sergio Leone per sopperire al budget modesto. La babele linguistica – che va dalla bassa all’alta densità lessicale della lingua italiana, dal tedesco al francese sino all’israelitico – presiede alle note antropologiche ed etnografiche sciorinando la perizia necessaria ad agguantare il significato dei vari cerimoniali. Compreso il congedo dignitoso dall’esistenza. La progressione drammatica interrotta dagli squarci beffeggiatori del partigiano gobbo, alla guida dei diavoli storti e del cecchino germanico guercio analogo nel suscettibile contegno al disertore Hugo Stiglitz in Bastardi senza gloria di Tarantino, palesa le doti dell’abile ed eclettico ritrattista che cadenza i palpiti di chi paga il biglietto. Lo spettatore più scaltrito che ammaliato potrebbe però storcere il naso per lo strano freno dettato dalla pietas, con l’adrenalina allo zenit, dell’antifascista. Disarmato dal moncarello del nemico a terra. A tal proposito appare più plausibile l’accanito regolamento di conti saldato dal fiero e implacabile Ettore Dogliani al pusillanime Oberführer col fazzoletto della tregua in vana evidenza e dall’ex galeotto Nello Foresti allo schietto poliziotto repubblichino ne Il sangue dei vinti di Michele Soavi. Figlio di madre ebrea, con la famiglia sottoposta ai provvedimenti fascisti delle leggi razziali, e di un padre, il poeta Giorgio Soavi, arruolato nelle fila della Repubblica Sociale. Stringendo dappresso, la fuga in sella alla palla di cannone ricavata da Le avventure del barone di Münchhausen venne definita con l’aiuto decisivo del negletto Michele Soavi. Regista, allora, della seconda unità. Che ne Il sangue dei vinti recupera l’apparizione scartata in sede di montaggio del traslato cavallo bianco. Uscito nell’apologo sulla mattanza fratricida dalla polvere del bombardamento yankee su San Lorenzo, il Tiburtino, il Prenestino, il Casalino, il Tuscolano e il Nomentano. Ricomparso in Freaks Out.

Formuliamo l’augurio affinché Gabriele Mainetti, il regista più interessante del nostro cinema alla stregua del collega underground Bonifacio Angius e dell’avvertito Michele Soavi, illumini nel prossimo film le zone d’ombra degli eventi trascorsi. Aprendo le stanze buie della storia, al riparo dall’assurda guerra tra spettri e dall’assidua pretesa di leggitimazione dei maramaldi soprusi d’ambo le parti, per portare a galla magari l’autodeterminazione dei profughi istriani. Tanto di quelli divenuti oggetto d’infida disparità nell’Italia repubblicana postbellica quanto di coloro che preferirono essere inghiottiti dalla madre terra piuttosto che rinnegarla. Meritevoli del processo d’umanizzazione dei western revisionisti a favore degli indiani d’America. Ritenuti per secoli vagabondi, laidi, selvaggi, vili, mostruosi. Riscoperti come individui indomiti, intemerati, ligi, carismatici. Fedeli ai vincoli di sangue e di suolo.  Ad Maiora

MASSIMILIANO SERRIELLO

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